sabato 7 settembre 2013

Una pericolosa ferita al diritto di voto. Federico Punzi

 


La legge Severino, di cui si discute in questi giorni l'applicabilità al caso Berlusconi, di fatto introduce una conseguenza sanzionatoria, incandidabilità e decadenza, nei confronti di coloro i quali subiscano condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, a prescindere che sia inflitta o meno la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Quindi una sanzione “automatica”, una tagliola che scatta anche se il giudice non ha ritenuto di disporre l'interdizione al momento della sentenza. Per quanto si sostenga il contrario, la conseguenza sanzionatoria – sia essa penale o solo amministrativa – è auto-evidente: ogni sanzione, infatti, ha l'effetto di ridurre la capacità di esercitare un diritto, in questo caso il diritto di elettorato passivo.

Ma anche se non rientrasse tra le norme penali, la cui irretroattività è sancita a livello costituzionale, la legge Severino non potrebbe comunque avere effetti retroattivi in assenza di una deroga esplicita – che non pare esserci – alla regola generale dell'irretroattività delle leggi. Ma ammesso e non concesso che la legge Severino, come sostengono alcuni, non sia di natura sanzionatoria, che disponga da sé, implicitamente, la propria retroattività, e che si limiti a stabilire un requisito di eleggibilità (prevedere che chi non abbia compiuto 25 anni non sia eleggibile alla Camera non è certo una sanzione), a maggior ragione, se così fosse, andrebbe a mio avviso sottoposta al giudizio della Consulta.

Se così fosse, infatti, in gioco non ci sarebbe solo la capacità giuridica del titolare del diritto di elettorato passivo, ma anche il concreto esercizio del diritto di elettorato attivo da parte di milioni di cittadini. Si può togliere a qualcuno il diritto di candidarsi ed essere eletto – e indirettamente ai cittadini il diritto di votarlo – infliggendogli una pena accessoria a seguito di un procedimento penale, il quale però prevede tutta una serie di garanzie a sua difesa. Ma togliere a 40 milioni di elettori il diritto di votare per qualcuno semplicemente restringendo i requisiti di eleggibilità, in modo retroattivo ed extragiudiziale, è faccenda un po' più delicata.

Siamo così sicuri che in democrazia il “controllo di legalità” debba prevalere in modo così netto, automatico e generalizzato sul “controllo democratico”? Non dovrebbe preoccuparci che l'elettorato attivo, cioè quello esercitato dal popolo, venga limitato non solo da una sanzione penale accessoria, applicata al termine di un regolare processo, com'è l'interdizione, ma anche da un semplice requisito di eleggibilità introdotto con legge ordinaria? Forse non è un caso se la non eleggibilità a deputato dei minori di 25 anni è una norma di rango costituzionale. E se milioni di elettori ritenessero che il candidato o l'eletto condannato sia vittima di una persecuzione politica e volessero comunque che li rappresentasse?

Sul diritto soggettivo al voto dovrebbe prevalere l'interesse legittimo collettivo ad avere un Parlamento privo di condannati? Ne siamo così certi? Il Parlamento equivale proprio ad un ufficio pubblico? Per la salute di una democrazia non sarebbe forse un “male minore” accettare che teoricamente un condannato in via definitiva possa venire eletto, se il popolo lo desidera, e se non interdetto da un giudice naturale, piuttosto che correre il rischio che un potere, anzi un ordine fuori controllo abusi del cosiddetto “controllo di legalità”, o peggio di un semplice requisito di eleggibilità, per eliminare dalla vita pubblica i propri avversari politici? È proprio delle dittature (come dimostrano Iran, Cina, o Birmania con il caso Aung San Suu Kyi) approfittare del “controllo di legalità” per eliminare i dissidenti dalla competizione politica.

Insomma, che i cittadini possano liberamente farsi rappresentare anche da un loro concittadino condannato, una volta espiate le pene stabilite al termine di un giusto processo, è un'utile polizza di assicurazione contro derive autoritarie. La pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici già esiste nel nostro ordinamento, ma giustamente può essere inflitta solo dal giudice naturale e qualsiasi suo inasprimento è sottoposto al principio dell'irretroattività. Se, come sostengono alcuni, la legge Severino stabilisce un requisito di eleggibilità e non introduce una sanzione penale, è ancora più grave la ferita inferta alla nostra democrazia, perché restringendo in modo automatico ed extragiudiziale l'elettorato passivo e attivo, di fatto limita il diritto di voto in via amministrativa. (l'Opinione)

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