martedì 3 maggio 2011

Anni '70, i peggiori della nostra vita. Andrea Forti



anni-70.-i-peggiori-anni-de.jpgNon si tratta dell'ennesimo libro contro il '68, anzi, ad essere precisi non si tratta nemmeno di un libro sul '68; infatti Anni '70, i peggiori della nostra vita, edito da Marsilio e opera di Giuliano Cazzola, Simonetta Matone, Filippo Mazzotti, Domenico Sugamiele e con prefazione del ministro Sacconi, prende in esame il decennio iniziato quarant'anni fa, finito da oramai trenta ma i cui effetti, in termini di scelte economiche e condizionamenti culturali, non accennano a svanire. Tesi principale dell'opera, curata da chi quegli anni li ha vissuti da posizioni riformiste, è che i vasti movimenti politici, sindacali e culturali che nel decennio orientativamente compreso fra il '68 e la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, lungi dall'essere stati volano di modernizzazione del paese, come vuole una vulgata diffusa non solo a sinistra, sono stati, al contrario, un fattore di rallentamento per un'autentica modernizzazione del paese, che del resto era già in atto da almeno un decennio prima.
La contestazione studentesca, lungi dal liberare l'accademia italiana da ingiustizie e da baronie, ha semplicemente creato una nuova «casta», formata in buona parte da coloro i quali proprio le baronie volevano abbattere, non meno immobilista e gelosa delle proprie prerogative della precedente ma spesso caratterizzata da minore qualità accademica e preparazione. Il dogma egalitarista in voga in quegli anni, derivato più da un mal interpretato e «mondanizzato» cristianesimo che dal marxismo, ha fatto in modo che il diritto all'istruzione, indispensabile ad una società moderna e competitiva, venisse distorto dalla tendenza a «liceificare» tutta l'istruzione secondaria, trascurando l'istruzione professionale, fondamentale in un paese come l'Italia, e moltiplicando a dismisura le «sperimentazioni», con conseguente aumento dei costi.
Tale dogmatico egalitarismo in campo scolastico e formativo ha aumentato a dismisura il numero di laureati in materie umanistiche e letterarie che, non potendo ovviamente essere assorbiti nel tessuto economico e produttivo, andranno ad ingrossare le fila di un «proletariato intellettuale» destinato spesso a lavori dequalificati e mal remunerati. Mentre la struttura economica e produttiva del paese richiede non solamente manodopera qualificata e specializzata, ma anche laureati in grado di inserirsi degnamente nel mondo del lavoro, abbiamo una casta universitaria che, per mantenere lo status quo, si oppone all'ingresso di privati nel sistema formativo, non di rado agitando slogan anticapitalistici, ma non si pone minimamente il problema di moltiplicare corsi di laurea pressoché inutili.
Una visione dogmatica egalitarista e massimalista prese piede anche all'interno del mondo del lavoro, quando le giuste rivendicazioni sindacali tracimarono per diventare irrealistiche pretese che, ponendo il salario come «variabile indipendente» dal lavoro prestato, facilitarono la strada ad un generale calo della produttività dell'industria italiana, scaricandone i costi sui conti dello Stato, un indebolimento che, come aveva capito un padre illustre (quanto dimenticato) del comunismo italiano come Giorgio Amendola, avrebbe pregiudicato a lungo termine le stesse conquiste del movimento operaio e la stessa tenuta dello Stato, visto che l'enorme debito pubblico italiano nasce proprio negli anni '70.
Anche a livello politico-istituzionale, argomentano gli autori del libro, agli anni '70 dobbiamo le principali aporie del sistema politico italiano. Il «compromesso storico» fra Pci e Dc, presentato allora e ancora oggi come capolavoro della lungimiranza politica e istituzionale del gruppo dirigente comunista di Berlinguer, rese oltremodo difficile qualsiasi tentativo di riformare il sistema politico italiano, cooptando di fatto il Pci nella gestione della cosa pubblica, rendendo così ancora più ipertrofico l'apparato statale e dando a tale partito, che non interruppe mai i rapporti con il blocco orientale, un sostanziale potere di veto che non corrispondeva però a una diretta presa di responsabilità politica.
Il comunismo italiano, e tutta la «società civile» che attorno ad esso ruotava, rafforzò così la sua ambigua posizione di partito coinvolto a pieno titolo nella gestione del paese ma allo stesso tempo «diverso» dalle altre forze politiche, consolidando quel senso di superiorità morale che lo avrebbe portato, dopo la repentina trasformazione in Pds all'indomani del crollo del comunismo, ad appoggiare il golpe giudiziario di Tangentopoli, promosso da magistrati formatisi anch'essi nel clima di massimalistica attesa di palingenesi politica e morale degli anni '70.
Il libro non lo cita come esempio, essendo troppo recente, ma forse chi maggiormente rappresenta ora un certo spirito maturato in quegli anni è il critico letterario e scrittore Alberto Asor Rosa, che, partito da posizioni operaiste (la corrente socialista radicale da cui proviene anche Toni Negri) e poi approdato nel Pci berlingueriano passando attraverso il Psiup, ora invoca nientemeno che un golpe militar-poliziesco contro Berlusconi. Se quarant'anni fa lo slogan era «lo Stato borghese si abbatte e non si cambia» ora sembra che si sia passati, da parte di molti reduci, al: «lo Stato si rafforza, anche con il golpe, purché non cambi»! (Ragionpolitica)

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