martedì 24 maggio 2011

L'outlook negativo di S&P sull'Italia è più politico che economico. Emanuele Canegrati

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L’agenzia di rating S&P ha tagliato nella giornata di sabato l’outlook dell’Italia da “stabile” a “negativo”, nonostante abbia confermato il rating A+ sul debito. Le motivazioni riportate dal documento ufficiale redatto dall’agenzia affermano che “le attuali prospettive di crescita sono deboli e l'impegno politico per riforme che aumentino la produttività sembra incerto” e che “il potenziale ingorgo politico potrebbe contribuire ad un rilassamento nella gestione del debito pubblico. Come risultato, crediamo che le prospettive dell'Italia per ridurre il debito pubblico siano diminuite”.

La notizia è giunta del tutto inaspettata, poiché la politica di rigore dei conti intrapresa dal ministro Tremonti aveva convinto le istituzioni europee ed internazionali. E a dire il vero, nemmeno in Italia esistono oramai molti dubbi sul fatto che la politica economica del Ministero dell’Economia e Finanze sia credibile e lungimirante. Certamente, il governo deve risolvere una volta per sempre il problema legato alla crescita e all'aumento della produttività, stagnante ormai da diversi anni. Tuttavia, il giudizio di S&P suona piuttosto stonato in riferimento alle notizie che giungono dall’economia nazionale.

Proprio la settimana scorsa l’Istat ha certificato un balzo in avanti degli ordinativi industriali per il mese di marzo, pari all’8,1% rispetto al mese di febbraio, soprattutto per via della crescita della domanda estera. Anche il fatturato delle imprese ha fatto registrare un incremento del 2% per lo stesso periodo di riferimento. Inoltre, secondo i dati forniti dal Bollettino delle entrate tributarie diffuso dal MEF relativo al primo trimestre del 2011, le imposte tributarie sono aumentate del 4,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ritornando a crescere a dei tassi simili a quelli pre-crisi. Ancora, i risultati dell’attività di lotta all’evasione fiscale non sono mai stati così positivi, dal momento che gli incassi da ruoli relativi ad attività di accertamento e controllo hanno fatto registrare un boom del 30,4%. Risultati positivi confermati anche dai dati forniti dalla Banca d’Italia, afferenti agli incassi, i quali segnalano che l’incremento delle entrate è stato pari al 3,9%.

E allora, perché questo giudizio negativo? Le perplessità riguardano il fatto che la critica di S&P sembra più riguardare l’aspetto politico che quello economico. Il che è poco comprensibile, dal momento che il giudizio sulla sostenibilità di un paese dovrebbe prima di tutto scontare l’andamento delle variabili strutturali e solo in un secondo tempo soffermarsi sui rischi del quadro politico. Nel caso dell’Italia questo ordine è stato invertito. Il legare la sostenibilità del debito italiano alle scaramucce che il Governo sta vivendo in queste settimane è molto miope, dal momento che i litigi tra le varie componenti della maggioranza non hanno mai riguardato la strategia sul controllo dei conti pubblici. Il fatto che poi non si tenga conto dei miglioramenti relativi alle entrate e alla lotta all’evasione conferma l’impressione che il giudizio dato sia affrettato o quantomeno superficiale.

Le agenzie di rating, una volta persa ogni credibilità durante il crack Lehman Brothers, hanno deciso di assumere un’immagine più aggressiva, nel tentativo di recuperare il prestigio perduto, esprimendo un giudizio negativo dopo l’altro. E’ quindi successo che il debito della Grecia sia stato declassato a livello “junk” (spazzatura); che quello di Portogallo, Irlanda e Spagna sia stato rivisto al ribasso; che l’outlook sugli Stati Uniti, per la prima volta, sia stato rivisto in negativo. E intanto, ogni volta che un giudizio sfavorevole viene espresso, i mercati finanziari bruciano una montagna di denaro.

La domanda sorge spontanea: due anni fa le agenzie di rating dipinsero un quadro economico-finanziario completamente diverso dalla realtà; è possibile che anche questa volta si sbaglino? La risposta è sì. E’ inimmaginabile, infatti, pensare che in soli due anni la loro capacità di monitoring sui bilanci degli stati sia improvvisamente migliorata. Il problema è talmente sentito che pochi giorni fa la SEC (la Consob degli USA) è ritornata nuovamente ad esprimersi contro queste agenzie, a prosieguo di una diatriba avviata nel 2008 con la crisi provocata dal crollo dei mutui subprime, al fine di limitare la dipendenza dei mercati finanziari dalle loro valutazioni.

Per quanto riguarda l’Europa, si è a lungo discusso a proposito della necessità di creare di un’agenzia di rating europea, che finalmente si rendesse credibile agli occhi degli agenti economici e delle istituzioni. E’ auspicabile che se ne ritorni a parlare presto, poiché l'andamento della finanza degli Stati è diventato troppo dipendente dalle notizie di mercato e si sa perfettamente che le crisi finanziarie non nascono solo da motivazioni legate al cattivo funzionamento dell'economia reale (andamento del PIL, inflazione, etc.) ma anche da cause “self-fulfilling”, ovvero da fenomeni di auto-realizzazione, secondo i quali i mercati vanno male solo perché gli investitori credono che andranno male.

Non è tollerabile, coerentemente con quanto pensa la SEC, consegnare l’andamento dei mercati finanziari, monetari e valutari ai giudizi delle agenzie di rating, che con i loro annunci vanificano in pochi secondi il lavoro che i governi svolgono per mesi. E’ quindi giunto il momento di risolvere una volta per tutte il problema legato alla regolamentazione delle agenzie di rating, che se sbagliano devono pagare. Prima che i loro errori possano causare un'altra crisi finanziaria i cui costi li dovremo sopportare tutti. (l'Occidentale)

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