venerdì 6 maggio 2011

Non so neppure che giorno è. Fabrizio Rondolino

È la prima volta che mi si dedica un editoriale, e per di più con il mio nome nel titolo (seppur maliziosamente storpiato): e siccome sono un esibizionista, per prima cosa voglio ringraziare il Fatto. Non scherzo: soffro se nessuno s’accorge di me, non se qualcuno m’insulta.

Travaglio, a dire il vero, non è proprio che insulti: secondo me ha un modo di argomentare fascistoide, da convinto manganellatore, ma lo stempera in una prosa effervescente e ripiena di neologismi e soprannomi che, prima di tutto, fanno ridere. Così io sono diventato Rondolindo, che deriva da Olindo, che è il soprannome malandrino che Travaglio, in onore del noto massacratore di famiglie, ha affibbiato a Sallusti, direttore del Giornale con il quale collaboro. (Questa cosa me l’ha spiegata un amico più informato di me; io pensavo che il riferimento fosse a Mastro Lindo, visto che sono pelato e ciccione. Ad ogni modo mi ha fatto ridere, non mi ha fatto arrabbiare.)

Nel merito, Travaglio critica un mio pezzo apparso sul Giornale nel quale invito a non considerare Brusca una fonte attendibile per ricostruire la storia politica degli ultimi anni. La sua risposta, tuttavia, manca il bersaglio, perché rimane prigioniera di una visione giustizialista della politica (e della storia).

Che cosa significa qui ‘giustizialista’? Travaglio cita una serie di circostanze, episodi, testimonianze e dichiarazioni dalle quali si intuisce che fra l’entourage di Berlusconi e Cosa nostra possano esserci stati rapporti indiretti o addirittura diretti. E’ possibile: ma questo non fa di Berlusconi un mafioso. Non si ricostruisce una vicenda politica complessa – quella della continuità storica del rapporto fra politica, poteri dello Stato e criminalità organizzata, che sicuramente ad un certo punto avrà intersecato anche Forza Italia – con gli indizi e le prove che un tribunale può raccogliere e dibattere. Un processo può stabilire una verità fattuale – Tizio ha fatto ammazzare Caio – ma non un sistema di relazioni che, per quanto moralmente e politicamente discutibili, non soltanto non hanno un profilo criminale, ma costituiscono la modalità fondamentale di gestione del potere in Sicilia e altrove dall’Unità d’Italia in poi.

Il caso Andreotti è emblematico, perché segna il passaggio dal metodo Falcone al metodo Caselli, tuttora in vigore. Falcone, che ad un certo punto negò l’esistenza del “terzo livello” che tanto eccitava la fantasia dei professionisti dell’antimafia, considerò sempre un errore la tentazione di “buttare in politica” le indagini sulla mafia, proprio perché convinto che i tribunali dovessero occuparsi di fatti specifici, lasciando agli storici il compito di disegnare gli intrecci di potere della Prima repubblica. Falcone, com’è noto, morì isolato e sconfitto.

Il metodo Caselli rovescia il metodo Falcone: anziché i fatti ricostruiti indizio dopo indizio, il teorema dedotto da quegli stessi indizi, i quali poi faticano, com’è naturale, a diventare prove. Il risultato è che dopo 11 anni di processi non esiste una verità processuale sul caso Andreotti, né esisterà mai. Ma se io voglio sapere chi fosse Andreotti, e quali rapporti intrattenesse con Cosa nostra, devo leggermi il lavoro di uno storico, non quello di un pm (o magari vado a vedermi il film di Sorrentino).

È questa la differenza fra Travaglio e me. Lui crede che un processo possa stabilire una verità politica e storica; io credo che possa, tutt’al più, stabilire la veridicità di un singolo fatto. Non c’è niente di male a pensarla in modi diversi, e può anche capitare, col tempo, di cambiare idea. Io per esempio credevo alla verità della storia, cioè alla perfettibilità progressiva e infinita dell’organismo sociale: ora penso che funzioniamo esattamente come gli dèi e gli eroi di Omero, e che così sarà fino a che il Sole risplenderà su questa Terra – e che dunque il compito della politica non è costruire la società futura, ma ridurre il fardello con cui la società presente in ogni tempo grava sulla libertà degli individui.

Mi piacerebbe soltanto che Travaglio accettasse l’idea che, nella lotta contro il Male e contro i cattivi, si può anche pensarla diversamente; che oltre a Caselli e Ingroia ci sono stati anche Falcone e Borsellino; e che ricostruire la storia con il meccano delle inchieste e delle sentenze non è molto diverso dal cercare la formula chimica della felicità. Sarebbe bello, ma non funziona.

Infine, è vero che qualche volta “non so nemmeno che giorno è”. Forse Travaglio voleva sfottere ma, di nuovo, mi ha fatto sorridere. Perché effettivamente non sento più quel furore che ritrovo in Travaglio, l’adrenalina del militante per la giusta causa, l’impeto robespierrista che sta all’origine di tutte le sinistre del mondo. Sono più svagato, ecco, e naturalmente più disincantato. Ne deriva, anziché il cinismo che pure conosco e pratico, un certo distacco che a volte riesce a trasformarsi in benevolenza (come sempre dovrebbe, in una vita felice). È vero, Marco, a volte non so nemmeno che giorno è. (the Front Page)

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