sabato 19 gennaio 2008

Contrada, vittima di una riforma infelice. Mauro Mellini

Ho sotto gli occhi tre articoli che scrissi per “Giustizia giusta” allora mensile stampato, sul caso Contrada, rispettivamente il 31 luglio 1995, il 30 aprile 1996 e un altro successivo in tre fasi cruciali di quella vicenda così arruffata ed, allo stesso tempo, lineare. Tre articoli ispirati a sostanziale scetticismo, a sdegno per le assurdità e le ingiustizie che si andavano consumando ed a volontà e necessità che su quel caso non si mollasse, nell’interesse di Contrada, certo, ma di molti, moltissimi altri la cui libertà era (ed è) ugualmente in giuoco in condizioni in qualche modo simili a quelle del ben noto “Superpoliziotto”.
A leggere, a distanza di anni quel che scrivevamo allora, ricavandone che ben poco avremmo oggi da aggiungerci, è cosa che ci allarma più di quanto non possa soddisfarci. Non si tratta, infatti, di particolare acume divinatorio: il copione era chiaro. Bastava attenersi al copione per conoscere il presente e il futuro.
In particolare ci ha colpito rileggerci in questo passo: “ A Contrada si fa carico di aver agito da Agente e Capo dei Servizi. I Servizi che si vollero impegnati nella lotta alla mafia e che non potevano agire come un’altra squadra di polizia giudiziaria della Procura, a costo di provocare le ire, i sospetti, le suscettibilità degli “intoccabili”.
E questo è il nocciolo della vicenda. Contrada è stato individuato come un poliziotto capace di concepire e gestire un’azione autonoma anche di prevenzione e di contrasto generale di una situazione di alta criminalità. Un’azione che non può né identificarsi né esaurirsi in quella di polizia giudiziaria alle dipendenze della Magistratura.

Ma la Magistratura rivendica a sé ben più che le attività tipiche di veri e propri procedimenti penali. Vuole avere campo libero di “cercare” le notizie di reato, senza aspettare che ad essa prevengano dalla polizia o altrimenti, come era giudiziosamente stabilito nel Codice del 1930. Per i P.M. che intendano sfruttare a fondo la sciagurata riforma che dell’esercizio dell’azione penale ha fatto il codice di procedura del 1989, c’è posto, magari, per studi delle stesse Procure sull’incidenza di trattamenti cui vengano sottoposti i calciatori sugli indici di mortalità negli ultimi 50 anni. Non c’è posto per un’azione di prevenzione e contrasto generale della criminalità condotto autonomamente dalla Polizia e, magari, dai Servizi Segreti, che si vogliono tuttavia impegnati, ma in modo “trasparente” ed al guinzaglio dei Sostituti Procuratori nell’azione antimafia.
Certo, quanto addebitato a Contrada lascia altamente perplessi per ben altro. Che lo abbiano accusato alcuni mafiosi che aveva fatto arrestare dieci o più anni prima per l’assassinio di un suo agente, assolti da tale reato proprio dal Presidente che poi li ha ritenuti “attendibili” quando, pentiti, sono diventati testi d’accusa contro Contrada, è cosa che fa pensare a ben altro che ad un conflitto di competenze e di sistemi di polizia e di indagini.
Ma una Magistratura che combatte contro la mafia (e la droga, e il terrorismo e la pedofilia etc. etc.) anzitutto combattendo per estendere il proprio potere e per limitare quello di altri organismi dello Stato, è cosa da suscitare preoccupazioni e consentire di dubitare anche di ciò che dovrebbe essere indubitabile.
Questo, ricordiamolo è il caso Contrada. Lo è stato quando si discuteva della sua colpevolezza (ed, intanto, della sua salute nella carcerazione preventiva). Lo è stato nella sentenza definitiva. Lo è nella gestione della revisione e della grazia. E sempre si tratta della vita o della morte di un uomo. (Giustizia giusta)

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