domenica 6 gennaio 2008

Una nuvola di parole tra popolo e palazzo. Michele Ainis

Ai nostri politici serve un oculista. Soffrono d’una distorsione ottica, ed è proprio qui l’origine del loro sguardo trasognato, dell’espressione visionaria con cui s’affacciano in tv: vedono lontano, puntano l’occhio su paesaggi astratti e astrusi, e al contempo non s’accorgono di quanto gli succede sotto il naso. Sarà per questo che il Palazzo ha inaugurato l’anno nuovo con una discussione filosofica sulla vita e sulla morte, sul rapporto fra la madre e il feto, sulla condizione del non nato. Sarà per questo che il 2008, come l’anno prima e l’anno prima ancora, ci sta inondando di dibattiti esoterici sulla legge elettorale, sulle virtù del presidenzialismo alla francese, sui vizi del sistema spagnolo.

Niente di nuovo, nel XV secolo è accaduto anche a Bisanzio, mentre i Turchi stavano per espugnare la città. Prima di capitolare, è bene tuttavia rivolgere una triplice domanda alla politica. Primo: ma davvero qualcuno di voi pensa che la revisione della legge sull’aborto sia in cima alle nostre preoccupazioni quotidiane? Secondo: e da quando il Parlamento si è tramutato in un consesso di teologi, da quando i politici rubano il mestiere ai politologi? Terzo: perché tante inesauste discussioni, quando sapete già in partenza che non caverete mai un ragno dal buco? Di riforme istituzionali si parla e si straparla da trent’anni, senza tuttavia schiodare le lancette della Costituzione, ferme alla data del 1948. Quanto ai temi etici, c’è da aspettarsi che la nuova legge sull’aborto subirà la stessa sorte della legge sui DiCo, o di quelle sul testamento biologico, sul divorzio breve, sulle droghe leggere, sulla riforma della fecondazione assistita: chiacchiere a volontà, nessun provvedimento. Ma forse il balletto delle esternazioni serve proprio a questo: a distogliere la nostra attenzione, a coprire sotto una nuvola di parole l’inettitudine dei politici. Tanto più se le parole spaziano fra il sacro e il profano, se toccano temi altisonanti, se s’impigliano in una pagina della Bibbia o in un rigo della Costituzione americana.

Sennonché questi discorsi surreali cagionano l’effetto opposto a quello che vorrebbero ottenere. Allargano il solco fra politica e società civile, anziché diminuirlo. C’è infatti una distanza fra popolo e Palazzo che non passa solo attraverso l’odio per sprechi e privilegi, ma ormai si lascia misurare col metro dei reciproci linguaggi, nonché degli interessi di cui il linguaggio è specchio. La prova? Basta mettere a raffronto le pagine di cronaca con quelle di politica. Nel giro di boa del Capodanno, mentre una dieta di Giuliano Ferrara apriva fra i politici la discussione sull’aborto, varie statistiche ci hanno mostrato che tutti gli italiani sono a dieta.

Secondo Eurostat paghiamo i prezzi più alti d’Europa (dopo la Gran Bretagna) per i generi alimentari. Ma riceviamo anche i salari più bassi, aggiunge la società Mercer. Da qui l’impoverimento del ceto medio, da qui l’emarginazione dei più deboli. E infatti i primi freddi hanno già fatto strage di clochard (a Roma, Andria, Modugno). A propria volta quest’esercito di diseredati gonfia le galere (50 mila detenuti, ben oltre la capienza massima) o s’offre per lavori precari e mal sicuri (sicché la lista dei morti sul lavoro è più lunga d’un lenzuolo). E che si fa? Il mese scorso si è varata una commissione sull’esclusione sociale. Meglio che niente; ma - diceva Craxi «se non vuoi risolvere un problema, nomina una bella commissione». Dev’esserci però un modo per costringere la città della politica a occuparsi della città reale, dei suoi bisogni, dei suoi specifici interessi. Magari può servire rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, obbligando il Parlamento a leggere un’agenda scritta dagli stessi cittadini. Anzi: avrei sottomano il testo della prima legge popolare. Quella che vieta le omelie ai politici, e che restituisce ai preti i testi sacri. (la Stampa)

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