Il calcio non è questo… l’Italia non è questo… Ovvietà senza responsabilità.
L’ultimo, autorevolissimo, è stato il presidente Napolitano, che dal Qatar, dove si trova in visita, ha fatto sapere: “E’ importante che non si confondano le immagini degli incidenti di ieri con l’Italia che è tante altre cose”. Cosa giustissima ma pure, rispettosamente, cosa un po’ banale. Un vezzo molto italiano, quello di affrontare ogni dramma premettendo alla condanna e alla reazione “si, ma non è…”. Si è vista la ministra Melandri e tutti i responsabili del calcio italiano masticare (chi meglio, chi peggio) lo stesso solenne e scontato concetto. Malattia infantile del “benaltrismo” – il procedimento illogico che a sinistra caratterizzava parecchie discussioni: sì, va bene, ma il problema è ben altro, e di ben altro si comincia a chiacchierare così da non arrivare mai al dunque – il “sì, ma non è” risulta la sua naturale involuzione. E’ la banalità che fa scudo, l’ovvio che scantona il necessario, il risaputo contro il buonsenso. Così, se ci sono “le iene degli stadi” (Franco Battiato) che vanno a caccia di crani di poliziotti da sfondare sugli spalti, naturalmente “non sono i veri tifosi”. Se un gioco come quello del calcio è ormai finito in mano a bande di violenti, “non è quello il vero calcio”. I più temerari, quasi sempre i più sfacciati, fanno seguire anche una pugnetta sui valori sportivi. Le stesse identiche morte parole (non hanno senso nel contesto, non significano nulla rispetto alle decisioni da prendere) usate sul cadavere ancora caldo dell’ispettore Raciti. Così come, pur essendo vero, non ha senso precisare che “l’errore di un poliziotto non può infangare tutta la polizia”.
Davanti a ogni, ormai ciclica, emergenza che occupa la cronaca, scatta sempre innanzi tutto quel riflesso: “Ma non è…”. Se l’assassino è romeno, “ma non tutti i romeni sono così” – che scoperta; se si ammazza a Perugia, “ma Perugia non è solo questo” – che scoop. Buona grazia che, quando un ubriaco mette sotto un passante, non sia ancora venuto in mente di annunciare che “non tutti gli automobilisti sono questo”. Ottima premessa per una tavola rotonda e per non prendere una decisione definitiva. Pure sui teppisti che hanno assaltato le caserme è già partito il “ma non è”, perciò “ma non tutti gli ultras sono così” – gli altri cosa vogliono, la medaglia? A forza di premettere per dire niente, l’area della tolleranza per le imprese dei violenti si è fatta sempre più ampia, il limite si è spostato ogni volta più in là, fino a che è stato superato. Si riuscisse a superare anche l’inutile solita premessa del “ma non è”, assumendosi responsabilità, sarebbe già un bel passo in avanti.
mercoledì 14 novembre 2007
martedì 13 novembre 2007
I disastri annunciati della Sinistra. Alfredo Mantovano
Ricordiamo: «[…] la politica – tutta la politica – non potrà non “tener conto” del fatto che gli immigrati che fino a ora potevano sì vivere, mangiare e lavorare in Italia, ma che non potevano votare, ora potranno farlo. […] Credo che nelle province di Treviso, Brescia, Bergamo e in tutta la fascia pedemontana, dove la presenza dei lavoratori migranti, richiamati a migliaia dalle necessità del sistema produttivo, è molto forte, e dove un partito esplicitamente xenofobo come la Lega raccoglie molti consensi, l’acquisizione del diritto di voto da parte degli immigrati modificherà decisamente la dialettica politica e forse renderà sconveniente la propaganda razzista».
Lo scriveva il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero sul Corriere della Sera del 6 agosto 2006. Da buon rappresentante di Rifondazione Comunista nel governo, Ferrero esponeva l’obiettivo ultimo delle misure che in tema d’immigrazione l’esecutivo guidato da Romano Prodi aveva già adottato o sta oggi per varare. Ne elenco le principali, aggiornate all’ora in cui scrivo:
– chiusura di tre centri di permanenza temporanei per l’identificazione dei clandestini (a Brindisi, Ragusa e Crotone);
– drastica riduzione delle espulsioni effettive;
– ampliamento dei ricongiungimenti familiari, oltrepassando i confini del nucleo familiare;
– eliminazione del visto d’ingresso per i soggiorni brevi (quelli di tre mesi), aprendo così un’autostrada all’ingresso per motivi asseritamente turistici, seguito invariabilmente dalla permanenza indisturbata allo scadere del 90° giorno;
– utilizzo del decreto flussi 2006 come sanatoria fittizia;
– adozione di norme per l’asilo come mezzo strumentalizzabile per far entrare chiunque;
– rifiuto di varare la moratoria sulla libera circolazione di persone dalla Romania;
– disapplicazione della direttiva UE n. 38/2004 sull’allontanamento dei comunitari che non hanno un reddito lecito o che sono pericolosi.
Ecco, il disastro maturato in poco più di un anno non è frutto del caso, ma disegno politico. L’immigrazione è infatti uno dei terreni sui quali pesa la pregiudiziale ideologica della Sinistra radicale, nella cui prospettiva il clandestino è la versione aggiornata e no global del proletario. E la Sinistra radicale fa questo con dichiarati fini di lucro (elettorale, ovvio), come scriveva Ferrero.
Dal meccanismo “ingresso clandestino-sanatoria, ovvero ingresso con sponsor o con autosponsor–ricongiungimento familiare allargato-cittadinanza breve” la Sinistra attende un aumento di voti per sé, che equilibrerà i voti “sprecati” (soprattutto per la Lega, più in generale per il Centrodestra) nel Nord. Poco importa se gli esiti reali sono favorire i clandestini e chi li sfrutta, nonché i comunitari che intendono delinquere. (il Domenicale)
Lo scriveva il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero sul Corriere della Sera del 6 agosto 2006. Da buon rappresentante di Rifondazione Comunista nel governo, Ferrero esponeva l’obiettivo ultimo delle misure che in tema d’immigrazione l’esecutivo guidato da Romano Prodi aveva già adottato o sta oggi per varare. Ne elenco le principali, aggiornate all’ora in cui scrivo:
– chiusura di tre centri di permanenza temporanei per l’identificazione dei clandestini (a Brindisi, Ragusa e Crotone);
– drastica riduzione delle espulsioni effettive;
– ampliamento dei ricongiungimenti familiari, oltrepassando i confini del nucleo familiare;
– eliminazione del visto d’ingresso per i soggiorni brevi (quelli di tre mesi), aprendo così un’autostrada all’ingresso per motivi asseritamente turistici, seguito invariabilmente dalla permanenza indisturbata allo scadere del 90° giorno;
– utilizzo del decreto flussi 2006 come sanatoria fittizia;
– adozione di norme per l’asilo come mezzo strumentalizzabile per far entrare chiunque;
– rifiuto di varare la moratoria sulla libera circolazione di persone dalla Romania;
– disapplicazione della direttiva UE n. 38/2004 sull’allontanamento dei comunitari che non hanno un reddito lecito o che sono pericolosi.
Ecco, il disastro maturato in poco più di un anno non è frutto del caso, ma disegno politico. L’immigrazione è infatti uno dei terreni sui quali pesa la pregiudiziale ideologica della Sinistra radicale, nella cui prospettiva il clandestino è la versione aggiornata e no global del proletario. E la Sinistra radicale fa questo con dichiarati fini di lucro (elettorale, ovvio), come scriveva Ferrero.
Dal meccanismo “ingresso clandestino-sanatoria, ovvero ingresso con sponsor o con autosponsor–ricongiungimento familiare allargato-cittadinanza breve” la Sinistra attende un aumento di voti per sé, che equilibrerà i voti “sprecati” (soprattutto per la Lega, più in generale per il Centrodestra) nel Nord. Poco importa se gli esiti reali sono favorire i clandestini e chi li sfrutta, nonché i comunitari che intendono delinquere. (il Domenicale)
lunedì 12 novembre 2007
Dalla parte della Polizia (anche oggi). Michele Brambilla
Con tutta la pietà per il tifoso della Lazio ucciso, e con tutto lo sconcerto per il gravissimo comportamento del poliziotto che ha sparato, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà e non vedere quale sia, nella demenziale giornata di ieri, il fatto più inquietante per il Paese. È la colossale caccia al poliziotto che si è scatenata in tutta Italia; gli assalti ai commissariati; gli incidenti su campi di calcio che nulla avevano a che fare con quanto accaduto; le partite rinviate o sospese per l’infame ricatto dei cosiddetti «ultrà», lupi che per un giorno hanno preteso di vestire i panni dell’agnello.
Ricapitoliamo i fatti. Ieri mattina, a un autogrill nei pressi di Arezzo, la polizia è intervenuta per sedare una rissa tra automobilisti. Intervento improvvido, anzi maldestro, anzi gravemente colpevole, possiamo anche usare il termine «assassino», visto che un agente ha sparato ad altezza d’uomo contro chi se ne stava già andando. C’è scappato il morto. Solo a dramma consumato s’è saputo che i litiganti erano divisi dal tifo sportivo: juventini contro laziali. Ma per quanto ne sapessero i poliziotti, si poteva trattare anche di tutt’altro: non è stata, insomma, un’operazione di ordine pubblico contro il «tifo organizzato».
Ma anche se lo fosse stata: dalla tragedia di Arezzo gli ultrà di tutta Italia hanno preso pretesto per scatenare una sorta di guerra civile degna d’un Paese sull’orlo di un golpe. Chi sono questi soggetti che hanno costretto otto squadre a non giocare, terrorizzato chi era allo stadio con i bambini, e poi incendiato caserme, ferito poliziotti, sfasciato auto e negozi? Sono singolari personaggi usi a scannarsi fra loro per l’«amore» a una maglia, ma anche a trovarsi solidali quando c’è da abbattere tutto ciò che ai loro occhi appare come l’ordine costituito, di cui lo «sbirro» è il facile simbolo. Ma quale «ordine»: è solo il vivere civile, la pacifica convivenza, la gioia di assistere a una partita di calcio. È tutto questo che hanno in odio.
Il poliziotto che ha sparato va processato e, se risulterà colpevole, condannato e licenziato. Ma che cosa ci fa più paura? La possibilità che una singola persona possa sbagliare o anche impazzire, oppure la presenza in Italia di simili bande? Ecco perché diciamo che i delinquenti sono loro, gli ultrà che ieri hanno messo a ferro e fuoco mezza Italia.
E non solo ieri. Sono anni che viviamo sotto l’incubo di questi personaggi che il mondo del calcio non ha mai avuto il coraggio di emarginare veramente. Quanti sono? Centomila? Cinquantamila? O forse solo ventimila? Comunque troppi. È una vergogna che ogni domenica migliaia di poliziotti - «ricompensati» con quattordici euro lordi - debbano essere sottratti a ben più importanti incarichi per evitare i danni di questi dementi.
Gli ultrà? Via, sciò, fuori dai piedi. Che non entrino mai più, negli stadi. E se sarà necessario fermare il calcio, lo si fermi. Per una volta ha ragione Beppe Grillo: ci ha stufato, questo calcio così stressante, aggressivo, con le sue polemiche che rincoglioniscono. Noi stiamo con la polizia, non c’è neanche bisogno di dirlo. (il Giornale)
Ricapitoliamo i fatti. Ieri mattina, a un autogrill nei pressi di Arezzo, la polizia è intervenuta per sedare una rissa tra automobilisti. Intervento improvvido, anzi maldestro, anzi gravemente colpevole, possiamo anche usare il termine «assassino», visto che un agente ha sparato ad altezza d’uomo contro chi se ne stava già andando. C’è scappato il morto. Solo a dramma consumato s’è saputo che i litiganti erano divisi dal tifo sportivo: juventini contro laziali. Ma per quanto ne sapessero i poliziotti, si poteva trattare anche di tutt’altro: non è stata, insomma, un’operazione di ordine pubblico contro il «tifo organizzato».
Ma anche se lo fosse stata: dalla tragedia di Arezzo gli ultrà di tutta Italia hanno preso pretesto per scatenare una sorta di guerra civile degna d’un Paese sull’orlo di un golpe. Chi sono questi soggetti che hanno costretto otto squadre a non giocare, terrorizzato chi era allo stadio con i bambini, e poi incendiato caserme, ferito poliziotti, sfasciato auto e negozi? Sono singolari personaggi usi a scannarsi fra loro per l’«amore» a una maglia, ma anche a trovarsi solidali quando c’è da abbattere tutto ciò che ai loro occhi appare come l’ordine costituito, di cui lo «sbirro» è il facile simbolo. Ma quale «ordine»: è solo il vivere civile, la pacifica convivenza, la gioia di assistere a una partita di calcio. È tutto questo che hanno in odio.
Il poliziotto che ha sparato va processato e, se risulterà colpevole, condannato e licenziato. Ma che cosa ci fa più paura? La possibilità che una singola persona possa sbagliare o anche impazzire, oppure la presenza in Italia di simili bande? Ecco perché diciamo che i delinquenti sono loro, gli ultrà che ieri hanno messo a ferro e fuoco mezza Italia.
E non solo ieri. Sono anni che viviamo sotto l’incubo di questi personaggi che il mondo del calcio non ha mai avuto il coraggio di emarginare veramente. Quanti sono? Centomila? Cinquantamila? O forse solo ventimila? Comunque troppi. È una vergogna che ogni domenica migliaia di poliziotti - «ricompensati» con quattordici euro lordi - debbano essere sottratti a ben più importanti incarichi per evitare i danni di questi dementi.
Gli ultrà? Via, sciò, fuori dai piedi. Che non entrino mai più, negli stadi. E se sarà necessario fermare il calcio, lo si fermi. Per una volta ha ragione Beppe Grillo: ci ha stufato, questo calcio così stressante, aggressivo, con le sue polemiche che rincoglioniscono. Noi stiamo con la polizia, non c’è neanche bisogno di dirlo. (il Giornale)
domenica 11 novembre 2007
Il decalogo dei pallosi. Orso Di Pietra
“Non ci si può presentare ad un altro amico nostro se non è un terzo a farlo”. Che è una regola da Circolo della Caccia. “Non si guardano mogli di amici nostri”. Che è un consiglio di bon ton di qualsiasi salotto borghese. “Non si fanno comparati con gli sbirri”: Che, se sostituisci il termine “sbirri” con delinquenti, è uno dei requisiti per entrare nell’Arma. “Non si frequentano né taverne, né circoli”. Che è un principio da frati trappisti. “Si ha il dovere di essere sempre disponibile. Anche se c’è la moglie che sta per partorire”. Che è un obbligo da giuramento d’Ippocrate. “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. Che è una pratica tipicamente milanese. “Si deve portare rispetto alla moglie”. Che è un obbiettivo protofemminista. “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. Che è l’equivalente del giuramento dei testimoni in tribunale”. “Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”. Che è un insegnamento da Mosè con la barba. “Niente affiliazione per chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, oppure chi ha tradimenti sentimentali in famiglia o chi ha un comportamento pessimo e non tiene ai valori morali”. Che, sempre sostituendo le “forze dell’ordine” con il termine “cosche”, costituisce un novero di disposizioni buone per chi aspira ad essere assunto in una qualsiasi grande azienda (tranne, ovviamente, il settore sicurezza della Telecom). Insomma, questo decalogo del perfetto mafioso scoperto nel covo del boss Lo Piccolo sembra tratto dal manuale delle giovani marmotte. Il ché è un duro colpo per l”Onorata società”. La mafia non è solo criminale. E’ pure pallosa! (l'Opinione)
venerdì 9 novembre 2007
Intervista a Daniele Capezzone: "Il futuro è il Polo del '94" Dimitri Buffa
Daniele Capezzone si è dimesso dall’incarico di presidente della commissione Attività produttive della Camera. In Italia un politico che si dimetta da qualcosa è il classico uomo che morde il cane. Per questo siamo corsi ad intervistarlo. Lui dice di non averlo di certo fatto, perché glielo avevano chiesto ripetutamente da Radio radicale Marco Pannella ed Emma Bonino anche durante l’ultimo congresso di Padova. Bensì per marcare la distanza dal ticket Visco-Prodi, il funesto binomio politico del “tassa e spendi” all’italiana.
Per i due leader radicali invece Capezzone, con il sorriso sulle labbra, sceglie un altro paragone: “Sono barricati nel bunker di Prodi e assomigliano sempre di più al ministro dell’informazione di Saddam Hussein che si ostinava a dire fino all’ultimo che tutto andava bene”.
Presidente Capezzone, cosa l’ha spinto alle dimissioni dall’incarico alla commissione Attività produttive della Camera e a lasciare anche la Rosa nel pugno?
Data la situazione politica di continuo contrasto con le scelte della maggioranza per me era una scelta dovuta. In un paese normale la cosa non farebbe neanche notizia. Purtroppo viviamo invece in un periodo in cui prevale la tendenza di vecchie e nuove comparse della “casta” di conservare briciole di potere a spese delle proprie convinzioni.
Ad esempio?
Ciascuno affacciandosi alla finestra ne vede diversi, non occorrono miei suggerimenti. Per quel che mi riguarda, sto cercando di rivolgermi anche a un pezzo di opinione pubblica che non segue con continuità la poltica, giovani e non necessariamente giovani, perché vorrei che costoro prendessero in considerazione il fatto che non tutto è “casta” e c’è anche chi continua a volere dare prorità alle convinzioni rispetto alle convenienze o ai piccoli calcoli personali o di parte...
Dimissioni propedeutico-pedagogiche dunque?
Non esageriamo. È un gesto semplicemente logico: da molti mesi io non votavo la fiducia al governo, ho un dissenso pieno sulle scelte di politica economica della maggioranza. Ho cercato di fare il possibile perché le forze cosiddette riformiste della maggioranza si manifestassero, ma nulla è successo. Devo constatare anzi che sembrano invece preferire una umiliazione e una sconfitta costante, a questo punto mi è sembrato giusto marcare un segno di discontinuità e di rottura..
Da questo si deduce che non l’ha entusiasmata molto neanche l’ultima finanziaria?
No assolutamente. E’ stata anzi un atto polticamente molto grave. Giù quella dell’anno scorso era drammaticamente sbagliata, tutta centrata come era sulle tasse. Quest’anno tra i due decreti sul “tesoretto” e la finanziaria l’importo è di 27 miliardi di euro frutto della tassazione, e sono stati quasi tutti mangiati da nuova spesa. Anziché usare le risorse in più o per tagliare le tasse o per tagliare il debito pubblico, continua la politica del tassa e spendi, per tenere viva con il respiratore la maggioranza. Mi dispiace di essere uno dei pochi che sottolinea questa triste realtà.
Padoa Schioppa l’altro giorno nella replica al Senato continuava con la solfa del “noi abbiamo rimesso a posto i conti disastrosi che ci la lasciato in eredità il vecchio governo”. Lei che ne pensa?
Francamente si possono fare molte osservazioni sul precedente esecutivo. Ma il ministro Padoa Schioppa delle due l’una: o ha le idee confuse oppure pensa che ce le abbiamo noi...
Insomma la politica “tassa e spendi” del governo è stata una delle ragioni delle sue dimissioni dalla presidenza della commissione attività produttive della Camera?
Sì, proprio il ticket Prodi- Visco è uno dei motivi.
Quanto invece ha influito la campagna martellante di Pannella da Radio Radicale durante le conversazioni domenicali con il direttore Massimo Bordin nelle quali più volte venivano chieste le dimissioni di Capezzone?
Francamente molto poco. Anche su questo non trovo né particolarmente rilevanti né particolarmente acute le osservazioni e le insinuazioni (e, in alcuni casi, gli insulti) che mi sono stati rivolti. Mi spiace per Marco ed Emma, ma mi pare che siano chiusi nel bunker con Prodi, ricordano, ma lo dico sorridendo, il ministro dell’informazione di Saddam Hussein, quello che diceva che era tutto a posto...
Rotto ormai il rapporto con la Rosa nel Pugno, cosa c’è nel futuro del giovane Capezzone?
Sono diretto e determinato sugli obbiettivi di decidere.net, a partire dal taglio delle tasse che considero la questione principale. Questo network verrà rafforzato, ma non sarà mai un partito o una lista elettorale e resto prontissimo a collaborare e a cercare convergenze con chiunque voglia dirigersi sullo stesso cammino...
Traduzione: c’è in vista un riavvicinamento con la Cdl?
E’ prematuro parlare di questo. Partiamo dai contenuti e dagli obbiettivi.
Cosa dovrebbe cambiare nel sistema politico italiano, perché finisca l’alternanza tra partitocrazie?
Bisognerebbe tornare a parlare di obiettivi comprensibili, come fece il Polo nel lontano 1994.
E’ quello il futuro?
Per ora è un passato rimpianto. Una forza poltica che con coraggio lanciava una sfida per un’alternativa liberale alla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, composta da partiti, sindacati, magistratura e quant’altro. Gli stessi poteri che hanno dominato la scena negli ultimi quasi venti anni. Da lì si dovrebbe ricominciare. (l'Opinione)
Per i due leader radicali invece Capezzone, con il sorriso sulle labbra, sceglie un altro paragone: “Sono barricati nel bunker di Prodi e assomigliano sempre di più al ministro dell’informazione di Saddam Hussein che si ostinava a dire fino all’ultimo che tutto andava bene”.
Presidente Capezzone, cosa l’ha spinto alle dimissioni dall’incarico alla commissione Attività produttive della Camera e a lasciare anche la Rosa nel pugno?
Data la situazione politica di continuo contrasto con le scelte della maggioranza per me era una scelta dovuta. In un paese normale la cosa non farebbe neanche notizia. Purtroppo viviamo invece in un periodo in cui prevale la tendenza di vecchie e nuove comparse della “casta” di conservare briciole di potere a spese delle proprie convinzioni.
Ad esempio?
Ciascuno affacciandosi alla finestra ne vede diversi, non occorrono miei suggerimenti. Per quel che mi riguarda, sto cercando di rivolgermi anche a un pezzo di opinione pubblica che non segue con continuità la poltica, giovani e non necessariamente giovani, perché vorrei che costoro prendessero in considerazione il fatto che non tutto è “casta” e c’è anche chi continua a volere dare prorità alle convinzioni rispetto alle convenienze o ai piccoli calcoli personali o di parte...
Dimissioni propedeutico-pedagogiche dunque?
Non esageriamo. È un gesto semplicemente logico: da molti mesi io non votavo la fiducia al governo, ho un dissenso pieno sulle scelte di politica economica della maggioranza. Ho cercato di fare il possibile perché le forze cosiddette riformiste della maggioranza si manifestassero, ma nulla è successo. Devo constatare anzi che sembrano invece preferire una umiliazione e una sconfitta costante, a questo punto mi è sembrato giusto marcare un segno di discontinuità e di rottura..
Da questo si deduce che non l’ha entusiasmata molto neanche l’ultima finanziaria?
No assolutamente. E’ stata anzi un atto polticamente molto grave. Giù quella dell’anno scorso era drammaticamente sbagliata, tutta centrata come era sulle tasse. Quest’anno tra i due decreti sul “tesoretto” e la finanziaria l’importo è di 27 miliardi di euro frutto della tassazione, e sono stati quasi tutti mangiati da nuova spesa. Anziché usare le risorse in più o per tagliare le tasse o per tagliare il debito pubblico, continua la politica del tassa e spendi, per tenere viva con il respiratore la maggioranza. Mi dispiace di essere uno dei pochi che sottolinea questa triste realtà.
Padoa Schioppa l’altro giorno nella replica al Senato continuava con la solfa del “noi abbiamo rimesso a posto i conti disastrosi che ci la lasciato in eredità il vecchio governo”. Lei che ne pensa?
Francamente si possono fare molte osservazioni sul precedente esecutivo. Ma il ministro Padoa Schioppa delle due l’una: o ha le idee confuse oppure pensa che ce le abbiamo noi...
Insomma la politica “tassa e spendi” del governo è stata una delle ragioni delle sue dimissioni dalla presidenza della commissione attività produttive della Camera?
Sì, proprio il ticket Prodi- Visco è uno dei motivi.
Quanto invece ha influito la campagna martellante di Pannella da Radio Radicale durante le conversazioni domenicali con il direttore Massimo Bordin nelle quali più volte venivano chieste le dimissioni di Capezzone?
Francamente molto poco. Anche su questo non trovo né particolarmente rilevanti né particolarmente acute le osservazioni e le insinuazioni (e, in alcuni casi, gli insulti) che mi sono stati rivolti. Mi spiace per Marco ed Emma, ma mi pare che siano chiusi nel bunker con Prodi, ricordano, ma lo dico sorridendo, il ministro dell’informazione di Saddam Hussein, quello che diceva che era tutto a posto...
Rotto ormai il rapporto con la Rosa nel Pugno, cosa c’è nel futuro del giovane Capezzone?
Sono diretto e determinato sugli obbiettivi di decidere.net, a partire dal taglio delle tasse che considero la questione principale. Questo network verrà rafforzato, ma non sarà mai un partito o una lista elettorale e resto prontissimo a collaborare e a cercare convergenze con chiunque voglia dirigersi sullo stesso cammino...
Traduzione: c’è in vista un riavvicinamento con la Cdl?
E’ prematuro parlare di questo. Partiamo dai contenuti e dagli obbiettivi.
Cosa dovrebbe cambiare nel sistema politico italiano, perché finisca l’alternanza tra partitocrazie?
Bisognerebbe tornare a parlare di obiettivi comprensibili, come fece il Polo nel lontano 1994.
E’ quello il futuro?
Per ora è un passato rimpianto. Una forza poltica che con coraggio lanciava una sfida per un’alternativa liberale alla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, composta da partiti, sindacati, magistratura e quant’altro. Gli stessi poteri che hanno dominato la scena negli ultimi quasi venti anni. Da lì si dovrebbe ricominciare. (l'Opinione)
Sono stato epurato dalla tv degli epurati. Filippo Facci
La Rai mi ha epurato da una trasmissione dedicata agli epurati. Per quanto incredibile, il consiglio di amministrazione della Rai (all'unisono, pare) ieri ha proibito la mia partecipazione ad Annozero intimando a Michele Santoro, ieri, che io neppure m’avvicinassi al cancello di via Teulada. Motivazione ufficiale: una querela sporta ieri mattina dalla Rai ai danni di un mio articolo (rubrica) scritto sul Giornale dell'altro ieri e dedicato giust’appunto alla Rai. Il lato tragicomico è che la puntata di Annozero, ieri sera, partiva dalla figura di Enzo Biagi («Il partigiano Biagi», era il titolo) per riparlare ovviamente del cosiddetto editto bulgaro, dunque di Santoro medesimo, del solito Luttazzi, della censura, di episodi dei quali la mia esclusione, nel suo piccolo, diviene ora esempio mirabile.
Ma non è finita: il colpo di mano della Rai infatti ha anche le sembianze di una sdraiata obbedienza politica. Ieri l'altro, difatti, ventun senatori dell'Unione avevano sottoscritto una lettera pubblica dove se la prendevano col medesimo articoletto del Giornale: «Larga parte del Parlamento italiano si sta comportando come se condividessero l'articolo in tutto e per tutto. Solo così si spiega il continuo susseguirsi di iniziative che hanno sfacciatamente l'unico obiettivo di mortificare la Rai e delegittimare i suoi amministratori». Tra i firmatari, incredibilmente: Antonio Polito, Anna Finocchiaro, Nicola Latorre, Sergio Zavoli, Guido Calvi e Felice Casson. I quali aggiungevano: «Le opinioni pubblicate dal Giornale meriterebbero una querela e una congrua richiesta di danni da parte di chi ne ha titolo». Detto, fatto. Ma ancora: «In termini istituzionali la definizione della Rai come una cloaca e un cancro richiede un’adeguata risposta sia del governo che della Commissione bicamerale», trovandoci di fronte a «una campagna che ha l’evidente obiettivo di distruggere la Rai e favorire la televisione commerciale». Stanno parlando del mio rubrichino dell’altro giorno.
Tanto tuonò che Santoro, mercoledì sera, mi telefonò per dirmi che la Rai stava insistendo affinché non m’invitasse. Disse che m’avrebbe invitato lo stesso purché lasciassi da parte certe espressioni del mio articolo. Comprensibile: si rendeva evidentemente conto della situazione grottesca, un’epurazione da una trasmissione sugli epurati. Il giorno dopo, cioè ieri, la Rai rendeva nota un’azione penale nei confronti miei e del Giornale: "La Rai ha deciso di querelare Filippo Facci per le espressioni usate nell’articolo pubblicato dal Giornale", dove "si definiva la Rai come una cloaca da ripulire". Non solo, a esser precisi: "Penso che il canone vada abolito, penso che la Rai andrebbe privatizzata al cento per cento, o in alternativa fare servizio pubblico al cento per cento". Diceva essenzialmente questo, l’articolo. Roba forte.
Nel pomeriggio altre telefonate: Santoro mi disse che il Cda della Rai gli aveva proibito per iscritto d’invitarmi, e che dunque era con le spalle al muro. Mi disse che aveva insistito con Claudio Cappon, il direttore generale, e con il presidente Claudio Petruccioli. «Mi hanno rovinato la trasmissione», sono state le parole di Santoro. Gli ho creduto. In serata, infine, l’imbarazzata ed ultima nota della Rai: «Facci non potrà partecipare alla puntata di Annozero in base alle regole aziendali che escludono la presenza, in trasmissioni Rai, di soggetti che hanno contenziosi legali aperti con l’Azienda». Perfetto. L’invito ad Annozero è preesistente alla querela, non viceversa: in sostanza significa che per liberarsi di chicchessia, perlomeno in Rai, basta querelarlo. Non lo rivedi più sino al terzo grado di giudizio, quando Santoro condurrà Annodecimo. Complimenti a tutti. (il Giornale)
Ma non è finita: il colpo di mano della Rai infatti ha anche le sembianze di una sdraiata obbedienza politica. Ieri l'altro, difatti, ventun senatori dell'Unione avevano sottoscritto una lettera pubblica dove se la prendevano col medesimo articoletto del Giornale: «Larga parte del Parlamento italiano si sta comportando come se condividessero l'articolo in tutto e per tutto. Solo così si spiega il continuo susseguirsi di iniziative che hanno sfacciatamente l'unico obiettivo di mortificare la Rai e delegittimare i suoi amministratori». Tra i firmatari, incredibilmente: Antonio Polito, Anna Finocchiaro, Nicola Latorre, Sergio Zavoli, Guido Calvi e Felice Casson. I quali aggiungevano: «Le opinioni pubblicate dal Giornale meriterebbero una querela e una congrua richiesta di danni da parte di chi ne ha titolo». Detto, fatto. Ma ancora: «In termini istituzionali la definizione della Rai come una cloaca e un cancro richiede un’adeguata risposta sia del governo che della Commissione bicamerale», trovandoci di fronte a «una campagna che ha l’evidente obiettivo di distruggere la Rai e favorire la televisione commerciale». Stanno parlando del mio rubrichino dell’altro giorno.
Tanto tuonò che Santoro, mercoledì sera, mi telefonò per dirmi che la Rai stava insistendo affinché non m’invitasse. Disse che m’avrebbe invitato lo stesso purché lasciassi da parte certe espressioni del mio articolo. Comprensibile: si rendeva evidentemente conto della situazione grottesca, un’epurazione da una trasmissione sugli epurati. Il giorno dopo, cioè ieri, la Rai rendeva nota un’azione penale nei confronti miei e del Giornale: "La Rai ha deciso di querelare Filippo Facci per le espressioni usate nell’articolo pubblicato dal Giornale", dove "si definiva la Rai come una cloaca da ripulire". Non solo, a esser precisi: "Penso che il canone vada abolito, penso che la Rai andrebbe privatizzata al cento per cento, o in alternativa fare servizio pubblico al cento per cento". Diceva essenzialmente questo, l’articolo. Roba forte.
Nel pomeriggio altre telefonate: Santoro mi disse che il Cda della Rai gli aveva proibito per iscritto d’invitarmi, e che dunque era con le spalle al muro. Mi disse che aveva insistito con Claudio Cappon, il direttore generale, e con il presidente Claudio Petruccioli. «Mi hanno rovinato la trasmissione», sono state le parole di Santoro. Gli ho creduto. In serata, infine, l’imbarazzata ed ultima nota della Rai: «Facci non potrà partecipare alla puntata di Annozero in base alle regole aziendali che escludono la presenza, in trasmissioni Rai, di soggetti che hanno contenziosi legali aperti con l’Azienda». Perfetto. L’invito ad Annozero è preesistente alla querela, non viceversa: in sostanza significa che per liberarsi di chicchessia, perlomeno in Rai, basta querelarlo. Non lo rivedi più sino al terzo grado di giudizio, quando Santoro condurrà Annodecimo. Complimenti a tutti. (il Giornale)
giovedì 8 novembre 2007
Lettera al Foglio
Al direttore - Le scrivo a proposito del tema della sicurezza e dei rumeni oggetto della puntata di Otto e Mezzo di ieri sera. Non ho potuto fare a meno di indignarmi, nonostante io sia un moderato, cattolico, liberale. Mi sono indignato perché un ministro dell’attuale governo non può non sapere che già il decreto legislativo n. 30 del 2007 (si veda anche la circ. 19 6.4.2007 del ministero dell’Interno) consente a un cittadino dell’Unione di soggiornare in Italia per più di tre mesi se, alternativamente: 1) è lavoratore autonomo o subordinato; 2) svolge attività di studio o di formazione; 3) dimostra comunque di disporre per sé e i propri familiari di risorse economiche sufficienti per non gravare sull’assistenza sociale. Chi non ha questi requisiti può, anzi, deve essere allontanato. Non è razzismo, ma il presupposto per una integrazione “possibile”. Altra questione è l’allontanamento per motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza già previsto nel predetto decreto e ora inasprito, probabilmente oltre i limiti costituzionali, con il decreto legge 181/2007. Anche la destra non può non sapere che in Italia sono vigenti queste norme, e non può non sapere che il problema non è l’inasprimento ma l’effettività. Per tutto questo mi indigno. E mi domando: chi ci allontanerà da tanta demagogia e incompetenza? Grazie e perdoni lo sfogo.
Francesco Scalabrelli, via Web
Risposta del Direttore
Ma lei pretende di semplificare le questioni ed esercitare poteri esecutivi e amministrativi per risolvere problemi sociali? Ma è pazzo? Non usa, da noi. Il problema è sempre un altro. Non lo sapeva?
Francesco Scalabrelli, via Web
Risposta del Direttore
Ma lei pretende di semplificare le questioni ed esercitare poteri esecutivi e amministrativi per risolvere problemi sociali? Ma è pazzo? Non usa, da noi. Il problema è sempre un altro. Non lo sapeva?
Legambiente rilancia i pregiudizi sul nucleare. Carlo Stagnaro
Nel ventesimo anniversario del referendum che sancì l'abbandono dell'atomo da parte dell'Italia, Legambiente pubblica un rapporto - "I problemi irrisolti del nucleare a vent'anni dal referendum" - che rilancia con convinzione quella scelta. Il dossier è senza dubbio ben confezionato e contiene utili spunti di riflessione. La sensazione, però, è che si tratti di un documento molto unilaterale, teso ad affermare dei pregiudizi più che affrontare un problema. Fin dalla prima pagina, infatti, esso si contraddistingue per il tono assertivo e l'espressione di alcuni giudizi di valore francamente discutibili. Per esempio, lo studio attacca dicendo che "l'Italia può vantarsi di essere stato il primo paese industrializzato ad uscire dal nucleare. Solo alla fine degli anni '90 verrà seguita dalla Germania con la definizione di una exit strategy dalla produzione di energia elettrica dall'atomo entro il 2020, e più recentemente dalla Spagna". A ben guardare, il nostro paese non ha proprio nulla di cui vantarsi: ha sostenuto il costo (considerevole) della realizzazione di quattro impianti e poi li ha chiusi senza trarne alcun beneficio. Né è vero che Germania e Spagna abbiano imboccato la medesima via: hanno manifestato l'intenzione più o meno (meno) credibile di sostituire il nucleare con altre fonti man mano che le centrali esistenti arriveranno a fine vita, ma nessuno ha mai pensato di smantellarle prima. Allo stesso modo, gli autori del rapporto - Laura Biffi, Stefano Ciafani, Stefano Generali, Simonetta Grechi e Lucia Venturi - ironizzano sul fatto che il nucleare contribuisce, a livello globale, "solo" per il 15 per cento della produzione elettrica, una quota destinata a scendere al 13 per cento nel 2030. Non sembrano rendersi conto che il 15 per cento è tantissimo, ma soprattutto non colgono l'ironia involontaria di chi sostiene le fonti rinnovabili, certo meno importanti dell'atomo e con meno prospettive, in termini di contributo assoluto, a causa delle loro irrisolte inefficienza e inaffidabilità.
La parte centrale dello studio riguarda invece i presunti limiti di questa tecnologia. Da un lato, si afferma che "non esistono le garanzie necessarie per l'eliminazione del rischio di incidente nucleare e conseguente contaminazione radioattiva". Ma tali garanzie non sussistono mai, dacché il rischio per definizione non può essere eliminato. Esso può semmai essere ridotto a un livello accettabile. Nel caso dell'atomo, se c'è un'accusa che non può essere rivolta è proprio questa: vista la complessità degli impianti, le misure di sicurezza sono tali e tante da consentire una vita tranquilla a chi abita nei pressi. Lo dimostra, indirettamente, lo stesso dossier di Legambiente: la lista degli incidenti avvenuti negli ultimi 50 anni è molto lunga, ma - se si escludono quelli connessi al nucleare militare, che è cosa affatto diversa dal nucleare civile - si riduce in misura sensibile. Soprattutto, Legambiente ricorda solo tre incidenti letali: a Leningrado nel 1974-75 ("tre morti accertati"); nell'Oklahoma il 6 gennaio 1986 ("un operaio muore"); e, naturalmente, Chernobyl, che fu un capolavoro di incuria e inefficienza sovietica. Se è vero che ogni vittima è una tragedia, è ugualmente vero che il bilancio di sei decenni di nucleare non è così nero.
Anche sulle scorie e sul decommissioning, Legambiente ciurla nel manico: le soluzioni tecniche per confinare la radioattività ci sono. Come dimostra la vicenda di Scanzano Jonico - dove non si riuscì a creare un sito nazionale di stoccaggio dei residui radioattivi, provenienti sia dalle ex centrali, sia dai processi ospedalieri - i problemi sono largamente di natura politica. Su un solo punto il rapporto solleva una questione reale: "il basso costo del kWh da nucleare è dovuto esclusivamente all'intervento dello Stato nella chiusura del ciclo del combustibile nucleare e al non tener in conto il problema e i costi, stranamente considerati esterni, dello smaltimento definitivo delle scorie e dello smantellamento delle centrali" (andrebbe anche ricordato che i costi amministrativi fanno lievitare parecchio tempi e costi degli impianti). In ogni caso, se il problema è economico, spetta al mercato farsene carico. E' probabile, per esempio, che alcune caratteristiche dell'energia atomica - come la stabilità e prevedibilità dei costi, o il suo essere adeguata a soddisfare il carico elettrico di base - la rendano comunque interessante all'interno di un portafoglio diversificato e bilanciato di impianti e tecnologie, per delle utilities che devono competere su un mercato libero. Comunque, ammesso e non concesso che l'energia nucleare sia più cara di quanto non riconoscano i suoi sostenitori, non si vede perché da ciò dovrebbe derivare un orientamento politico ostile all'atomo o addirittura un suo divieto.
La verità è che, conveniente o no, l'unico modo per massimizzare i costi (compresi quelli ambientali, tuttora irrisolti a causa di una regolamentazione ottusa) e minimizzare i benefici è quello realizzare centrali e poi chiuderle immediatamente. Come ha fatto l'Italia compiendo un gesto di cui Legambiente si vanta. (l'Occidentale)
La parte centrale dello studio riguarda invece i presunti limiti di questa tecnologia. Da un lato, si afferma che "non esistono le garanzie necessarie per l'eliminazione del rischio di incidente nucleare e conseguente contaminazione radioattiva". Ma tali garanzie non sussistono mai, dacché il rischio per definizione non può essere eliminato. Esso può semmai essere ridotto a un livello accettabile. Nel caso dell'atomo, se c'è un'accusa che non può essere rivolta è proprio questa: vista la complessità degli impianti, le misure di sicurezza sono tali e tante da consentire una vita tranquilla a chi abita nei pressi. Lo dimostra, indirettamente, lo stesso dossier di Legambiente: la lista degli incidenti avvenuti negli ultimi 50 anni è molto lunga, ma - se si escludono quelli connessi al nucleare militare, che è cosa affatto diversa dal nucleare civile - si riduce in misura sensibile. Soprattutto, Legambiente ricorda solo tre incidenti letali: a Leningrado nel 1974-75 ("tre morti accertati"); nell'Oklahoma il 6 gennaio 1986 ("un operaio muore"); e, naturalmente, Chernobyl, che fu un capolavoro di incuria e inefficienza sovietica. Se è vero che ogni vittima è una tragedia, è ugualmente vero che il bilancio di sei decenni di nucleare non è così nero.
Anche sulle scorie e sul decommissioning, Legambiente ciurla nel manico: le soluzioni tecniche per confinare la radioattività ci sono. Come dimostra la vicenda di Scanzano Jonico - dove non si riuscì a creare un sito nazionale di stoccaggio dei residui radioattivi, provenienti sia dalle ex centrali, sia dai processi ospedalieri - i problemi sono largamente di natura politica. Su un solo punto il rapporto solleva una questione reale: "il basso costo del kWh da nucleare è dovuto esclusivamente all'intervento dello Stato nella chiusura del ciclo del combustibile nucleare e al non tener in conto il problema e i costi, stranamente considerati esterni, dello smaltimento definitivo delle scorie e dello smantellamento delle centrali" (andrebbe anche ricordato che i costi amministrativi fanno lievitare parecchio tempi e costi degli impianti). In ogni caso, se il problema è economico, spetta al mercato farsene carico. E' probabile, per esempio, che alcune caratteristiche dell'energia atomica - come la stabilità e prevedibilità dei costi, o il suo essere adeguata a soddisfare il carico elettrico di base - la rendano comunque interessante all'interno di un portafoglio diversificato e bilanciato di impianti e tecnologie, per delle utilities che devono competere su un mercato libero. Comunque, ammesso e non concesso che l'energia nucleare sia più cara di quanto non riconoscano i suoi sostenitori, non si vede perché da ciò dovrebbe derivare un orientamento politico ostile all'atomo o addirittura un suo divieto.
La verità è che, conveniente o no, l'unico modo per massimizzare i costi (compresi quelli ambientali, tuttora irrisolti a causa di una regolamentazione ottusa) e minimizzare i benefici è quello realizzare centrali e poi chiuderle immediatamente. Come ha fatto l'Italia compiendo un gesto di cui Legambiente si vanta. (l'Occidentale)
mercoledì 7 novembre 2007
Euro, petrolio e Iva: Bersani non convince. Carlo Stagnaro
Dopo aver speso l’estate ad attaccare le compagnie petrolifere, il ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani sembra essersi persuaso dell’ovvio: che, se i carburanti costano troppo, è soprattutto a causa della fiscalità. Quindi, nel dibattito sulla finanziaria il ministro ha rilanciato una proposta già avanzata con scarso successo l’anno scorso: costruire un meccanismo di accise flessibili che, quando il prezzo dei carburanti supera una certa soglia, si riducano in maniera tale da compensare l’aumento del gettito Iva. L’imposta sul valore aggiunto del 20 per cento, infatti, grava sulla somma tra prezzo industriale e accisa. L’idea non è sbagliata, ma rischia di essere inefficace. In primo luogo, Bersani ritiene che il meccanismo debba scattare quando il barile supera la quota di 71 dollari, ma non dice di quale greggio stia parlando. Specificarlo è essenziale, perché il differenziale tra le varie qualità è molto elevato. Si può scegliere di far riferimento al Brent o al Wti, ma probabilmente la soluzione più corretta sarebbe quella di guardare a un indice come quello proposto dalla rivista specializzata Quotidiano Energia, costituito da un paniere di cui fanno parte i greggi effettivamente importati e lavorati nelle raffinerie italiane. Ciò lascerebbe tuttavia aperto un altro problema: non è possibile, infatti, non tenere conto del cambio euro-dollaro, che ha un impatto assai significativo sul prezzo reale della materia prima, e quindi dei prodotti raffinati, in Italia. Un barile a 100 dollari con l’euro quotato a 1,40 dollari è molto diverso dallo stesso barile con un ipotetico cambio 1:1. In realtà, sarebbe opportuno guardare al valore dei prodotti petroliferi anziché a quello del greggio: del resto, anch’essi sono scambiati sui mercati internazionali e hanno dei riferimenti ben noti, come, per l’Italia, il Platt’s Cif Med.
In ogni caso, occorre piuttosto chiedersi da cosa nasca l’iniziativa di Bersani: non certo dal rapporto relativo tra domanda e offerta globali di petrolio. Semmai, dalla constatazione che i carburanti, in un paese caratterizzato dal livello dei redditi italiano, è semplicemente troppo alto, e che ciò dipende in larga misura dalle tasse. Allora, che l’intervento colpisca direttamente la componente tributaria: per esempio fissando un gettito massimo oltre il quale si ritiene che il prelievo sia eccessivo, e modulando su di esso la variabilità dell’accisa, a prescindere dal motivo per cui viene raggiunto (se cioè dipenda dall’andamento barile o da altre dinamiche). Perfino così, però, ci si espone a un’obiezione: oltre quella soglia, ogni centesimo di aumento del prezzo industriale peserebbe meno del centesimo precedente, in quanto sarebbe sgravato dall’Iva, e quindi l’aumento di prezzo sarebbe meno percepito proprio quando più necessario, ossia quando il prezzo è massimo a indicare che alta è pure la scarsità. Se dunque il problema è il fisco, la soluzione deve essere di natura puramente fiscale: eliminando l’anomalia della tassa sulla tassa e riducendo le accise. Sarebbe un intervento più semplice, diretto ed efficace: e lì è la differenza tra le cose serie e le promesse elettorali. (Libero Mercato)
In ogni caso, occorre piuttosto chiedersi da cosa nasca l’iniziativa di Bersani: non certo dal rapporto relativo tra domanda e offerta globali di petrolio. Semmai, dalla constatazione che i carburanti, in un paese caratterizzato dal livello dei redditi italiano, è semplicemente troppo alto, e che ciò dipende in larga misura dalle tasse. Allora, che l’intervento colpisca direttamente la componente tributaria: per esempio fissando un gettito massimo oltre il quale si ritiene che il prelievo sia eccessivo, e modulando su di esso la variabilità dell’accisa, a prescindere dal motivo per cui viene raggiunto (se cioè dipenda dall’andamento barile o da altre dinamiche). Perfino così, però, ci si espone a un’obiezione: oltre quella soglia, ogni centesimo di aumento del prezzo industriale peserebbe meno del centesimo precedente, in quanto sarebbe sgravato dall’Iva, e quindi l’aumento di prezzo sarebbe meno percepito proprio quando più necessario, ossia quando il prezzo è massimo a indicare che alta è pure la scarsità. Se dunque il problema è il fisco, la soluzione deve essere di natura puramente fiscale: eliminando l’anomalia della tassa sulla tassa e riducendo le accise. Sarebbe un intervento più semplice, diretto ed efficace: e lì è la differenza tra le cose serie e le promesse elettorali. (Libero Mercato)
Le mummie del comunismo. Paolo Guzzanti
Quella che è passata alla storia come la «Rivoluzione d’Ottobre» fu in realtà un colpo di Stato militare, un golpe contro il primo governo e il primo libero parlamento del popolo russo, per di più di tendenze socialdemocratiche. Da quel colpo di Stato nacquero stragi ed esecuzioni di massa. Il grande filosofo inglese Bertrand Russell (socialista) corse a Mosca per celebrare il mito della rivoluzione, ma Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, gli fece fare un giro turistico fra i lampioni cui erano stati appesi migliaia di «borghesi». Russell, nauseato, tornò a Londra.Già in Italia si cantava un inno che diceva «E noi farem come la Russia, e noi farem come Lenìn». Lenin aprì i primi campi di concentramento e il suo successore Stalin li moltiplicò dedicandosi anche alla produzione di carestie artificiali che portarono alla morte deliberata sei milioni di contadini. Il suo motto era: «Se c’è un uomo, c’è un problema. Niente uomo, niente problema». Gli storici russi calcolano oggi fra i venti e gli ottanta milioni i morti civili del colpo di Stato bolscevico e del suo sviluppo.
Ieri il comunista italiano Oliviero Diliberto ha così proposto di portare in Italia la mummia di Lenin che molti russi vorrebbero seppellire insieme al loro passato. Poi Diliberto ha avvertito che la sua era una battuta cimiteriale, ma ha garantito che la rivoluzione d’ottobre fu un grande evento liberatorio per l’intera umanità. L’umanità infatti, dalla Cambogia di Pol Pot alla Germania, a Cuba, Cina, Corea, non ha fatto che abbeverarsi a quella fonte di libertà da cui spillarono milioni di litri di sangue. Ebbro dunque del liquore di Dracula, l’ineffabile Diliberto si è precipitato a brindare a Josif Vassarionovic Dzugasvili, meglio noto come Stalin («Acciaio»), dalle nostre parti ribattezzato come «Baffone»: un noto criminale che distrusse il proprio esercito sterminandone gli ufficiali prima di allearsi con Hitler con cui varò la seconda guerra mondiale incamerando mezza Polonia, gli Stati Baltici e mezza Finlandia, restando però malissimo quando il suo compagno di merende di Berlino fece quel che tutti, tranne Stalin, avevano previsto e cioè invadere l’Urss devastandola.
Poi gli aiuti massicci americani e l’eroismo del soldato russo capovolsero la situazione, ma Stalin fece ammazzare in proprio non meno di un milione di innocenti, fra cui decine di comunisti italiani in esilio, esecuzioni controfirmate da Palmiro Togliatti detto Ercoli. Diliberto ieri ha urlato di gioia per Stalin a Mosca e ha applaudito persino il messaggio del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko. In fondo, pensiamoci, lo scambio si potrebbe fare: noi ci prendiamo l’ormai innocua salma di Lenin e in cambio gli diamo Diliberto, finalmente a casa sua. (il Giornale)
Ieri il comunista italiano Oliviero Diliberto ha così proposto di portare in Italia la mummia di Lenin che molti russi vorrebbero seppellire insieme al loro passato. Poi Diliberto ha avvertito che la sua era una battuta cimiteriale, ma ha garantito che la rivoluzione d’ottobre fu un grande evento liberatorio per l’intera umanità. L’umanità infatti, dalla Cambogia di Pol Pot alla Germania, a Cuba, Cina, Corea, non ha fatto che abbeverarsi a quella fonte di libertà da cui spillarono milioni di litri di sangue. Ebbro dunque del liquore di Dracula, l’ineffabile Diliberto si è precipitato a brindare a Josif Vassarionovic Dzugasvili, meglio noto come Stalin («Acciaio»), dalle nostre parti ribattezzato come «Baffone»: un noto criminale che distrusse il proprio esercito sterminandone gli ufficiali prima di allearsi con Hitler con cui varò la seconda guerra mondiale incamerando mezza Polonia, gli Stati Baltici e mezza Finlandia, restando però malissimo quando il suo compagno di merende di Berlino fece quel che tutti, tranne Stalin, avevano previsto e cioè invadere l’Urss devastandola.
Poi gli aiuti massicci americani e l’eroismo del soldato russo capovolsero la situazione, ma Stalin fece ammazzare in proprio non meno di un milione di innocenti, fra cui decine di comunisti italiani in esilio, esecuzioni controfirmate da Palmiro Togliatti detto Ercoli. Diliberto ieri ha urlato di gioia per Stalin a Mosca e ha applaudito persino il messaggio del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko. In fondo, pensiamoci, lo scambio si potrebbe fare: noi ci prendiamo l’ormai innocua salma di Lenin e in cambio gli diamo Diliberto, finalmente a casa sua. (il Giornale)
lunedì 5 novembre 2007
Nell'aumentare i salari le aziende sono più veloci dei sindacati. Giuliano Cazzola
Cominciano ad essere parecchie le aziende che concedono unilateralmente dei miglioramenti salariali ai propri dipendenti come "acconti" sui futuri aumenti contrattuali. E naturalmente a fare notizia – a partire dalla Fiat – sono soltanto le ditte più conosciute.
C’è da presumere, tuttavia, che altre aziende, magari meno note e site in prevalenza nella ricca e laboriosa provincia padana, abbiano seguito l’esempio di quelle più grandi. Le erogazioni non sono eclatanti al pari dei duecento euro netti che un piccolo imprenditore pastaio delle Marche ha riconosciuto a ciascuno dei suoi quindici dipendenti (sopportando un costo lordo di 360 euro). Si tratta in generale di un assegno mensile di qualche decina di euro (da 30 a 44), sui quali è facile fare dell’ironia (nel caso della Fiat si è evocata l’immagine dei "trenta denari"), dimenticando che un importo siffatto non è di molto inferiore ad una delle rate periodiche in cui solitamente viene suddiviso l’incremento retributivo contrattato nei rinnovi.
Col solito andazzo dei media questi casi vengono a volta sopravvalutati nel loro significato, mentre altre volte li si tratta con eccessiva superficialità.
Sicuramente non siamo vicini ad una svolta epocale nel campo delle relazioni industriali; guai, però, a non cogliere la contraddizione tra una evidente propensione delle aziende a riconoscere degli aumenti contrattuali ai loro dipendenti e l’evidente difficoltà dei soggetti collettivi nel procedere fisiologicamente ai rinnovi dei contratti nazionali.
Del comportamento delle aziende vanno date diverse spiegazioni: da quelle più banali (come il proposito di ammorbidire gli scioperi nella propria realtà e di lavorare il più possibile) a quelle maggiormente qualificate sul piano politico (come la volontà di richiamare l’esigenza di nuove prassi negoziali).
In sostanza, però, emerge la presenza di un malessere nei confronti di regole e comportamenti che non sono più in grado di risolvere i problemi. Sembra invece da escludere l’esistenza di un disegno antisindacale che si concretizzerebbe nel tentativo di dialogare direttamente con i lavoratori, scavalcando le organizzazioni sindacali.
Le imprese che hanno dato l’avvio alla pratica degli acconti sono troppo organiche alla Confindustria per concepire un progetto di emarginazione dei sindacati. Cgil, Cisl e Uil e Confindustria si tengono insieme: simul stabunt, simul cadent.
Il giorno in cui gli imprenditori fossero in grado di risolvere i problemi con i propri dipendenti, anche in viale dell’Astronomia potrebbero chiudere i battenti.
L’impressione più forte, dunque, è quella di una situazione che si sfarina, nella quale ognuno è costretto a fare da sé non per scelta politica, ma per costrizione, dal momento che i grandi soggetti detentori della rappresentanza collettiva non sembrano più capaci di dare risposte adeguate ai problemi. Anzi, si direbbe che sono proprio le aziende a sentirsi più sole.
E’ veramente singolare che il leader degli industriali privati, ormai giunto alla scadenza del mandato, non spenda da tempo una sola parola per tentare un bilancio della sua gestione della Confindustria, ma si comporti, invece, come un Grillo in doppiopetto assistito da gostwriters ben educati, che non usano le parolacce. Se dovesse giudicare, con onestà, la propria stagione a viale dell’Astronomia, Luca Cordero di Montezemolo potrebbe soltanto riconoscere di aver collezionato fallimenti su tutta la linea.
Il programma che lo contrappose ad Antonio D’Amato era di una semplicità estrema: mai più contro la Cgil. Invece, gli è riuscito soltanto di dare confidenzialmente del tu a Guglielmo Epifani. Di riforme della contrattazione neppure l’ombra.
Ma anche sul versante sindacale ci sarebbe da ridire. Le aziende che erogano miglioramenti di stipendio unilaterali sono in prevalenza metalmeccaniche. Se non ci fossero in ballo questioni più serie, verrebbe voglia di suggerire alla Fiom - un’organizzazione sempre pronta a manifestare insieme a tutti i "movimenti" e a giudicare inadeguate e compromissorie le intese approvate da oltre l’80% dei lavoratori e pensionati che hanno partecipato al referendum sul protocollo del 23 luglio – di dedicare maggiore attenzione ai lavoratori rappresentati, a partire dai concreti problemi della loro busta paga, oppressa da un prelievo fiscale e contributivo che è solo l’altra faccia della medaglia di una spesa pubblica in libera uscita, del cui incremento sono certamente responsabili anche le forze politiche e sindacali.
E’ ormai urgente, poi, prendere atto che il sistema delle relazioni industriali non funziona più. Occorre spostare il peso della contrattazione a livello decentrato e realizzare una forte detassazione delle voci che, a livello aziendale, remunerano la produttività e favoriscono la competizione. Solo così il sindacato potrà tornare al suo mestiere. (l'Occidentale)
C’è da presumere, tuttavia, che altre aziende, magari meno note e site in prevalenza nella ricca e laboriosa provincia padana, abbiano seguito l’esempio di quelle più grandi. Le erogazioni non sono eclatanti al pari dei duecento euro netti che un piccolo imprenditore pastaio delle Marche ha riconosciuto a ciascuno dei suoi quindici dipendenti (sopportando un costo lordo di 360 euro). Si tratta in generale di un assegno mensile di qualche decina di euro (da 30 a 44), sui quali è facile fare dell’ironia (nel caso della Fiat si è evocata l’immagine dei "trenta denari"), dimenticando che un importo siffatto non è di molto inferiore ad una delle rate periodiche in cui solitamente viene suddiviso l’incremento retributivo contrattato nei rinnovi.
Col solito andazzo dei media questi casi vengono a volta sopravvalutati nel loro significato, mentre altre volte li si tratta con eccessiva superficialità.
Sicuramente non siamo vicini ad una svolta epocale nel campo delle relazioni industriali; guai, però, a non cogliere la contraddizione tra una evidente propensione delle aziende a riconoscere degli aumenti contrattuali ai loro dipendenti e l’evidente difficoltà dei soggetti collettivi nel procedere fisiologicamente ai rinnovi dei contratti nazionali.
Del comportamento delle aziende vanno date diverse spiegazioni: da quelle più banali (come il proposito di ammorbidire gli scioperi nella propria realtà e di lavorare il più possibile) a quelle maggiormente qualificate sul piano politico (come la volontà di richiamare l’esigenza di nuove prassi negoziali).
In sostanza, però, emerge la presenza di un malessere nei confronti di regole e comportamenti che non sono più in grado di risolvere i problemi. Sembra invece da escludere l’esistenza di un disegno antisindacale che si concretizzerebbe nel tentativo di dialogare direttamente con i lavoratori, scavalcando le organizzazioni sindacali.
Le imprese che hanno dato l’avvio alla pratica degli acconti sono troppo organiche alla Confindustria per concepire un progetto di emarginazione dei sindacati. Cgil, Cisl e Uil e Confindustria si tengono insieme: simul stabunt, simul cadent.
Il giorno in cui gli imprenditori fossero in grado di risolvere i problemi con i propri dipendenti, anche in viale dell’Astronomia potrebbero chiudere i battenti.
L’impressione più forte, dunque, è quella di una situazione che si sfarina, nella quale ognuno è costretto a fare da sé non per scelta politica, ma per costrizione, dal momento che i grandi soggetti detentori della rappresentanza collettiva non sembrano più capaci di dare risposte adeguate ai problemi. Anzi, si direbbe che sono proprio le aziende a sentirsi più sole.
E’ veramente singolare che il leader degli industriali privati, ormai giunto alla scadenza del mandato, non spenda da tempo una sola parola per tentare un bilancio della sua gestione della Confindustria, ma si comporti, invece, come un Grillo in doppiopetto assistito da gostwriters ben educati, che non usano le parolacce. Se dovesse giudicare, con onestà, la propria stagione a viale dell’Astronomia, Luca Cordero di Montezemolo potrebbe soltanto riconoscere di aver collezionato fallimenti su tutta la linea.
Il programma che lo contrappose ad Antonio D’Amato era di una semplicità estrema: mai più contro la Cgil. Invece, gli è riuscito soltanto di dare confidenzialmente del tu a Guglielmo Epifani. Di riforme della contrattazione neppure l’ombra.
Ma anche sul versante sindacale ci sarebbe da ridire. Le aziende che erogano miglioramenti di stipendio unilaterali sono in prevalenza metalmeccaniche. Se non ci fossero in ballo questioni più serie, verrebbe voglia di suggerire alla Fiom - un’organizzazione sempre pronta a manifestare insieme a tutti i "movimenti" e a giudicare inadeguate e compromissorie le intese approvate da oltre l’80% dei lavoratori e pensionati che hanno partecipato al referendum sul protocollo del 23 luglio – di dedicare maggiore attenzione ai lavoratori rappresentati, a partire dai concreti problemi della loro busta paga, oppressa da un prelievo fiscale e contributivo che è solo l’altra faccia della medaglia di una spesa pubblica in libera uscita, del cui incremento sono certamente responsabili anche le forze politiche e sindacali.
E’ ormai urgente, poi, prendere atto che il sistema delle relazioni industriali non funziona più. Occorre spostare il peso della contrattazione a livello decentrato e realizzare una forte detassazione delle voci che, a livello aziendale, remunerano la produttività e favoriscono la competizione. Solo così il sindacato potrà tornare al suo mestiere. (l'Occidentale)
domenica 4 novembre 2007
Il Nobel ci ripensa:"L'effetto serra? Un bluff". Nino Materi
«L’effetto serra è un bluff»; «Il pianeta non si sta riscaldando»; «I ghiacciai non si stanno sciogliendo»; «Le previsioni meteo sono inattendibili»; «La colpa dell’inquinamento non è dell’uomo». Firmato, professor John R. Christy, direttore dell’Earth System Science Center dell’Università dell’Alabama. Un colpo mortale per i professionisti della «difesa della Terra» che, sui fantasmi dell’emergenza ambientale, hanno costruito le fortune politiche ed economiche.
Ma ora il professor Christy ci ha ripensato, diventando il primo Nobel «pentito». Una circostanza che, se da una parte lo farà entrare nella storia, dall’altra lo ha reso inviso ai suoi colleghi dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), la commissione Onu premiata dall’Accademia di Svezia insieme con Al Gore per avere denunciato i rischi di un’«apocalisse» prossima ventura, effetto dell’incombente global warming. Così il professor Christy ha deciso di fare outing. Dalla prima pagina del Wall Street Journal, il suo dietrofront ha gettato nello sconforto le folte schiere dei catastrofisti planetari. Christy il Nobel non l’ha vinto da solo ma grazie al lavoro di squadra dell’Ipcc di cui è un illustre componente: un organismo composto da un migliaio di cervelloni internazionali, determinatissimi nel sostenere che l’uomo sta andando dritto verso il baratro.
Le conclusioni a cui è giunto l’Ipcc non collimano però esattamente con le teoria di Christy. Di qui la clamorosa decisione dello scienziato americano: restituire la «sua» quota di Nobel ai parrucconi della commissione norvegese. Non si tratta di un capriccio, anzi le motivazioni sono serissime: «Sono certo che la maggior parte dei miei colleghi all’Ipcc storcerà la bocca ma non vedo né una catastrofe imminente né la “pistola fumante” che provi la responsabilità inequivocabile dell’uomo per gli aumenti di temperatura che registriamo. Al contrario; quel che si vede sono attivisti e, purtroppo, scienziati pronti a saltare a conclusioni affrettate e ad attribuire qualsiasi anomalia climatica alla fantomatica apocalisse da global warming prossima ventura. Presentare qualsiasi fenomeno conseguente come il risultato dell’attività umana probabilmente li fa sentire più a loro agio».
«Forse la tendenza a dare la colpa di tutto all’uomo è dovuta al fatto che non abbiamo visto di cosa fosse capace il nostro clima prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla Terra - dichiara Christy sul Wall Street Journal -. In realtà il livello dei mari cresce e diminuisce da sempre. La calotta artica si è sciolta altre volte». E poi: «In un recente reportage della Cnn sul “pianeta in pericolo” non si fa altro che parlare dello scioglimento dei ghiacci artici. Non si dice nulla, però, di quelli dell’Antartico, dove il mese scorso è stato raggiunto il massimo storico di congelamento dei mari». Un perpetuarsi di luoghi comuni che comporta un enorme spreco di risorse economiche: «Se anche riducessimo della metà le emissioni degli Stati Uniti, entro il 2020 le temperature scenderebbero in misura infinitesimale. Quel che spendiamo per ridurre così marginalmente il global warming porterebbe benefici da 50 a 200 volte superiori se ci concentrassimo sulla sanità, la prevenzione dell’Aids e la depurazione delle acque del continente africano».
Del resto Christy è in buona compagnia. Anche Tim Ball infatti, professore di Geografia dell’Università di Winnipeg, è convinto che «il riscaldamento globale - ammesso che esista - non è causato dalle attività umane, ma è un fenomeno naturale». A smentire le responsabilità della «società dei consumi» sono pure gli studi di Patrick Michaels, professore dell’Università della Virginia, Dipartimento di Scienze Ambientali: «Nel periodo tra 1905 e 1940, in cui il mondo occidentale viveva le guerre e le crisi economiche con un arretramento dello sviluppo industriale e quindi con miseria, povertà e poche attività umane nei confronti dell’ambiente, la temperatura mondiale è aumentata notevolmente. Invece tra 1940 e 1975, periodo di boom economico con lo sviluppo industriale più importante di sempre, la temperatura è diminuita».
Infine - a proposito dell’autorevolezza dell’Ipcc - va segnalata l’annotazione del professor Paul Reiter: «Si crede che all’interno dell’Ipcc operino i migliori studiosi del pianeta che l’Onu ha messo insieme per studiare il clima. In realtà, spulciando i curricula, si scopre che moltissimi di loro non sono scienziati».
L’ideale per attribuirgli un meritatissimo Nobel. (il Giornale)
Ma ora il professor Christy ci ha ripensato, diventando il primo Nobel «pentito». Una circostanza che, se da una parte lo farà entrare nella storia, dall’altra lo ha reso inviso ai suoi colleghi dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), la commissione Onu premiata dall’Accademia di Svezia insieme con Al Gore per avere denunciato i rischi di un’«apocalisse» prossima ventura, effetto dell’incombente global warming. Così il professor Christy ha deciso di fare outing. Dalla prima pagina del Wall Street Journal, il suo dietrofront ha gettato nello sconforto le folte schiere dei catastrofisti planetari. Christy il Nobel non l’ha vinto da solo ma grazie al lavoro di squadra dell’Ipcc di cui è un illustre componente: un organismo composto da un migliaio di cervelloni internazionali, determinatissimi nel sostenere che l’uomo sta andando dritto verso il baratro.
Le conclusioni a cui è giunto l’Ipcc non collimano però esattamente con le teoria di Christy. Di qui la clamorosa decisione dello scienziato americano: restituire la «sua» quota di Nobel ai parrucconi della commissione norvegese. Non si tratta di un capriccio, anzi le motivazioni sono serissime: «Sono certo che la maggior parte dei miei colleghi all’Ipcc storcerà la bocca ma non vedo né una catastrofe imminente né la “pistola fumante” che provi la responsabilità inequivocabile dell’uomo per gli aumenti di temperatura che registriamo. Al contrario; quel che si vede sono attivisti e, purtroppo, scienziati pronti a saltare a conclusioni affrettate e ad attribuire qualsiasi anomalia climatica alla fantomatica apocalisse da global warming prossima ventura. Presentare qualsiasi fenomeno conseguente come il risultato dell’attività umana probabilmente li fa sentire più a loro agio».
«Forse la tendenza a dare la colpa di tutto all’uomo è dovuta al fatto che non abbiamo visto di cosa fosse capace il nostro clima prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla Terra - dichiara Christy sul Wall Street Journal -. In realtà il livello dei mari cresce e diminuisce da sempre. La calotta artica si è sciolta altre volte». E poi: «In un recente reportage della Cnn sul “pianeta in pericolo” non si fa altro che parlare dello scioglimento dei ghiacci artici. Non si dice nulla, però, di quelli dell’Antartico, dove il mese scorso è stato raggiunto il massimo storico di congelamento dei mari». Un perpetuarsi di luoghi comuni che comporta un enorme spreco di risorse economiche: «Se anche riducessimo della metà le emissioni degli Stati Uniti, entro il 2020 le temperature scenderebbero in misura infinitesimale. Quel che spendiamo per ridurre così marginalmente il global warming porterebbe benefici da 50 a 200 volte superiori se ci concentrassimo sulla sanità, la prevenzione dell’Aids e la depurazione delle acque del continente africano».
Del resto Christy è in buona compagnia. Anche Tim Ball infatti, professore di Geografia dell’Università di Winnipeg, è convinto che «il riscaldamento globale - ammesso che esista - non è causato dalle attività umane, ma è un fenomeno naturale». A smentire le responsabilità della «società dei consumi» sono pure gli studi di Patrick Michaels, professore dell’Università della Virginia, Dipartimento di Scienze Ambientali: «Nel periodo tra 1905 e 1940, in cui il mondo occidentale viveva le guerre e le crisi economiche con un arretramento dello sviluppo industriale e quindi con miseria, povertà e poche attività umane nei confronti dell’ambiente, la temperatura mondiale è aumentata notevolmente. Invece tra 1940 e 1975, periodo di boom economico con lo sviluppo industriale più importante di sempre, la temperatura è diminuita».
Infine - a proposito dell’autorevolezza dell’Ipcc - va segnalata l’annotazione del professor Paul Reiter: «Si crede che all’interno dell’Ipcc operino i migliori studiosi del pianeta che l’Onu ha messo insieme per studiare il clima. In realtà, spulciando i curricula, si scopre che moltissimi di loro non sono scienziati».
L’ideale per attribuirgli un meritatissimo Nobel. (il Giornale)
I turisti del crimine. Salvatore Scarpino
L’emigrazione romena ha creato un’accresciuta aggressività criminale – un’emergenza, come s’usa dire – oltre che in Italia, anche in Germania, Francia, Inghilterra. Ovunque i campi rom sono diventati centri di malaffare e d’irraggiamento di violenze diffuse. Agli schemi operativi dei nomadi, spesso dediti ai furti (un tempo di cavalli, oggi di auto e moto) e allo sfruttamento della mendicità organizzata, si è affiancato il talento di criminali romeni che nomadi non sono e che trovano meno rischioso operare in nazioni più ricche e più lassiste della loro terra d’origine.Nel nostro Paese ormai i romeni sono al primo posto nelle statistiche su omicidi, violenze sessuali, rapine.
Nei primi sei mesi del 2007 - dopo che col primo gennaio scorso si è allargata l’Unione Europea e si sono, quindi, aperte le frontiere – in Romania, invece, si è registrata una sensibile riduzione della criminalità: furti e scippi calati del 26 per cento, pressoché scomparse le rapine, in calo anche le violenze sessuali. Miracolo a Bucarest? No, molto più semplicemente la Romania ha risolto il problema della sua criminalità esportandola. A bandito che fugge ponti d’oro. Ci sono fondati motivi per ritenere che le autorità rumene, pur menando vanto di una severità coi delinquenti superiore alla nostra, abbiano favorito l’esodo, magari dimenticando che qualcuno dei «turisti» aveva dei conti da regolare con la giustizia del suo Paese. Come Nicolae Romulus Mailat, il massacratore di Tor di Quinto. È legittimo sospettare che poliziotti e amministratori delle province romene abbiano sospinto i cattivi verso le frontiere, come si fa coi tonni quando li si induce a istradarsi verso la tonnara, solo che in questo caso le vittime siamo noi.
È accaduto spesso che in terre d’emigrazione si registrasse questa selezione alla rovescia, per liberarsi dei soggetti ritenuti più pericolosi per l’ordinata convivenza. Per questo sono difficili e d’incerta efficacia i patti che si stringono coi governi dei disperati che premono alle frontiere dell’Europa.
Gli esempi storici non mancano. Anche la Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro ritenne conveniente anni fa scaricare, con regolare visto, sulle coste della Florida legioni di ladri, ruffiani, spacciatori di droga, autori di violenze sessuali. Va detto, pure l’Italia di fine Ottocento, durante l’epopea dolorosa di «Partono i bastimenti», agevolò l’esodo di mafiosi e criminali. In tanti paesini del Mezzogiorno i cattivi soggetti ottennero dal sindaco la «fede di buona condotta», indispensabile per il rilascio dei passaporti. E fedine penali immacolate che li ponevano al riparo da provvedimenti d’espulsione nei Paesi di destinazione.
L’investigatore italo-americano Joseph Petrosino, che a New York era impegnato nella lotta alla Mano nera e alla mafia, intuì l’esistenza di questo scellerato accordo non scritto fra guardie e ladri e s’imbarcò per Palermo. Voleva mettere le mani sui certificati originali del casellario giudiziario di alcuni mafiosi che spadroneggiavano a New York. Voleva dimostrare che erano entrati negli Usa giurando il falso sulla loro condizione; l’accertamento avrebbe reso possibili le espulsioni. Sappiamo come finì: la sera del 12 marzo 1909, nella piazza Marina di Palermo, il poliziotto fu ucciso con tre palle di pistola.
Se la storia può insegnare qualcosa, in questa fase occorre intensificare le pressioni sulle autorità romene, perché stringano i freni e si tengano in casa certi soggetti che proprio da esportazione non sono. Sarebbe anche opportuna una collaborazione più stretta a livello dei ministeri dell’Interno. A Bucarest vadano i nostri Petrosino, con un duplice compito: primo, non farsi ammazzare; secondo, smascherare i malviventi che si mescolano ai tanti romeni desiderosi soltanto di lavorare in pace. (il Giornale)
Nei primi sei mesi del 2007 - dopo che col primo gennaio scorso si è allargata l’Unione Europea e si sono, quindi, aperte le frontiere – in Romania, invece, si è registrata una sensibile riduzione della criminalità: furti e scippi calati del 26 per cento, pressoché scomparse le rapine, in calo anche le violenze sessuali. Miracolo a Bucarest? No, molto più semplicemente la Romania ha risolto il problema della sua criminalità esportandola. A bandito che fugge ponti d’oro. Ci sono fondati motivi per ritenere che le autorità rumene, pur menando vanto di una severità coi delinquenti superiore alla nostra, abbiano favorito l’esodo, magari dimenticando che qualcuno dei «turisti» aveva dei conti da regolare con la giustizia del suo Paese. Come Nicolae Romulus Mailat, il massacratore di Tor di Quinto. È legittimo sospettare che poliziotti e amministratori delle province romene abbiano sospinto i cattivi verso le frontiere, come si fa coi tonni quando li si induce a istradarsi verso la tonnara, solo che in questo caso le vittime siamo noi.
È accaduto spesso che in terre d’emigrazione si registrasse questa selezione alla rovescia, per liberarsi dei soggetti ritenuti più pericolosi per l’ordinata convivenza. Per questo sono difficili e d’incerta efficacia i patti che si stringono coi governi dei disperati che premono alle frontiere dell’Europa.
Gli esempi storici non mancano. Anche la Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro ritenne conveniente anni fa scaricare, con regolare visto, sulle coste della Florida legioni di ladri, ruffiani, spacciatori di droga, autori di violenze sessuali. Va detto, pure l’Italia di fine Ottocento, durante l’epopea dolorosa di «Partono i bastimenti», agevolò l’esodo di mafiosi e criminali. In tanti paesini del Mezzogiorno i cattivi soggetti ottennero dal sindaco la «fede di buona condotta», indispensabile per il rilascio dei passaporti. E fedine penali immacolate che li ponevano al riparo da provvedimenti d’espulsione nei Paesi di destinazione.
L’investigatore italo-americano Joseph Petrosino, che a New York era impegnato nella lotta alla Mano nera e alla mafia, intuì l’esistenza di questo scellerato accordo non scritto fra guardie e ladri e s’imbarcò per Palermo. Voleva mettere le mani sui certificati originali del casellario giudiziario di alcuni mafiosi che spadroneggiavano a New York. Voleva dimostrare che erano entrati negli Usa giurando il falso sulla loro condizione; l’accertamento avrebbe reso possibili le espulsioni. Sappiamo come finì: la sera del 12 marzo 1909, nella piazza Marina di Palermo, il poliziotto fu ucciso con tre palle di pistola.
Se la storia può insegnare qualcosa, in questa fase occorre intensificare le pressioni sulle autorità romene, perché stringano i freni e si tengano in casa certi soggetti che proprio da esportazione non sono. Sarebbe anche opportuna una collaborazione più stretta a livello dei ministeri dell’Interno. A Bucarest vadano i nostri Petrosino, con un duplice compito: primo, non farsi ammazzare; secondo, smascherare i malviventi che si mescolano ai tanti romeni desiderosi soltanto di lavorare in pace. (il Giornale)
sabato 3 novembre 2007
Sicurezza: il bluff di Veltrodi. Carlo Panella
L'ircocervo che governa il paese (Veltroni più Prodi fa Veltrodi)ha lanciato il suo ennesimo ''effetto annuncio''. Tutti a cantarne le lodi -Foglio incluso, purtroppo- e nessuno a guardare cosa hanno deciso. Siccome non hanno deciso quasi nulla, finirà esattamente come il decreto Bersani sulle liberalizzazioni, se non peggio.
I fatti parlano: Veltroni tiene aperto da anni quel covo di associazioni a delinquere e di violenza che è l'accampamento Rom di Tor di Quinto. Par dare un' idea di cosa significhi questo livello di irresponsabilità fornisco una piccola statistica personale: la mia famiglia ha subito in due anni il furto di due macchine e nel mio palazzo vi sono stati quattro furti negli appartamenti in un anno. Sempre, assolutamente sempre, la polizia ci ha detto: ''Sono stati quelli di Tor di Quinto''. E non ha fatto nulla, perché o si sbaraccava il pseudo campo Rom, o era impossibile controllare alcunché nel suo dedalo di sporcizia e umanità varia. Da anni, prima Rutelli e poi Veltroni hanno rifiutato tutte le richieste dei cittadini (e di An) per chiudere quella vergongna. Nulla.
Il cancro è metastatizzato e ora ci è scappato il morto, Veltroni allora fa il viso dell'allarme e fa -male- quello che avrebbe dovuto fare nel 2001, sei anni fa. Chiuso il campo, impone il decreto ma, come spiega Mantovano, è un decreto inutile perché si limita a spostare dalle scrivanie di Amato a quelle dei prefetti il problema. I prefetti infatti, non sono affatto dotati da questo decreto dei poteri effetivi e dei mezzi per espellere gli indesiderati. C'é scritto che devono farlo. Ma -piccolo particolare- non c'è scritto come.
Per questo Rifondazione ha dato il via libera: è un decreto tanto decisionista all'apparenza, quanto vuoto nella sostanza.Veltrodi comincia proprio bene.... (blog Carlo Panella)
I fatti parlano: Veltroni tiene aperto da anni quel covo di associazioni a delinquere e di violenza che è l'accampamento Rom di Tor di Quinto. Par dare un' idea di cosa significhi questo livello di irresponsabilità fornisco una piccola statistica personale: la mia famiglia ha subito in due anni il furto di due macchine e nel mio palazzo vi sono stati quattro furti negli appartamenti in un anno. Sempre, assolutamente sempre, la polizia ci ha detto: ''Sono stati quelli di Tor di Quinto''. E non ha fatto nulla, perché o si sbaraccava il pseudo campo Rom, o era impossibile controllare alcunché nel suo dedalo di sporcizia e umanità varia. Da anni, prima Rutelli e poi Veltroni hanno rifiutato tutte le richieste dei cittadini (e di An) per chiudere quella vergongna. Nulla.
Il cancro è metastatizzato e ora ci è scappato il morto, Veltroni allora fa il viso dell'allarme e fa -male- quello che avrebbe dovuto fare nel 2001, sei anni fa. Chiuso il campo, impone il decreto ma, come spiega Mantovano, è un decreto inutile perché si limita a spostare dalle scrivanie di Amato a quelle dei prefetti il problema. I prefetti infatti, non sono affatto dotati da questo decreto dei poteri effetivi e dei mezzi per espellere gli indesiderati. C'é scritto che devono farlo. Ma -piccolo particolare- non c'è scritto come.
Per questo Rifondazione ha dato il via libera: è un decreto tanto decisionista all'apparenza, quanto vuoto nella sostanza.Veltrodi comincia proprio bene.... (blog Carlo Panella)
Quando Prodi esultava per l'invasione romena. Maria Giovanna Maglie
La faccia dura di questi giorni che fa gridare i giornali amici un po’ senza pudore alla nuova era, alla forza di un uomo che è riuscito a smuovere perfino Amato e Prodi dai loro infiniti minuetti con comunisti e simili, si aggiunge alle mille facce di Zelig Veltroni, non in contraddizione con le altre che sono venute prima e a quelle che seguiranno, ma in armonia. La faccia giusta al momento giusto, cioè un momento dopo quello in cui ci sarebbe voluto un po’ di coraggio per dire «così non si va avanti», e battere il pugno sul tavolo. Per intenderci, un momento dopo il massacro di Giovanna Reggiani, un tale trauma che anche il sindaco di Roma ha compreso di avere mano libera per la sua nuova interpretazione. Se così non fosse, se fosse vero che il partito democratico ha trovato il suo Giancarlo Gentilini (il sindaco «sceriffo» di Treviso), ci sarebbe risposta alle seguenti domande basate sui fatti dell’ultimo anno.
Perché il feroce Veltroni non ha speso una parola nel dicembre del 2006 alla pericolosa decisione del suo governo di escludere qualsiasi moratoria nella libera circolazione dei cittadini romeni? Perché non ha mai chiesto l’applicazione, o almeno rivelato sdegnato ai suoi elettori che esiste una direttiva Ue, la 38/2004, che consente l’espulsione di cittadini comunitari che non abbiano un reddito adeguato? Perché non ha protestato quando il governo ha chiuso tre Cpt per l’identificazione dei clandestini (a Ragusa, a Brindisi e a Crotone), protestando che così agendo le espulsioni sarebbero diminuite e la capitale sarebbe stata inevitabilmente invasa? O quando hanno eliminato il visto d’ingresso per i soggiorni brevi, sostituendolo con una semplice autocertificazione, spiegando che se non conosci la persona che entra per tre mesi non sai nemmeno dove e come ritrovarlo se poi rimane? Perché hanno trasformato lo strumento civile dell’asilo in un lasciapassare per tutti? Queste domande avrebbe dovuto fare Walter Veltroni al governo, anche solo da sindaco, anche prima di diventare capo del Partito democratico, anche se non aveva i poteri. Invece ci ha storditi con cerimonie dove esibisce la faccia Zelig pacioccona e comunica che dialogo e accoglienza hanno reso Roma la città più vivibile d’Europa.
Io non so se Roma sia mai stata la città più vivibile, temo che i ghost writer si siano lasciati prendere la mano in quella occasione, ma certo è sempre stata un posto accogliente e indifferente, con poche regole rigide e un’aria da «scansate marziano che me impalli la camera», che funzionava anche con i nuovi arrivati da sud ed est. Non è più così, Roma è piena di spostati, di droga, nei quartieri non si dorme la notte. Roma è sporca e piena di baracche, nascoste praticamente ovunque. Qualche baraccopoli il sindaco l’ha fatta smantellare, a ritmo di telecamere e cronisti, e di «ciao Monica, ciao Gianni, avete visto che cosa importante che abbiamo fatto oggi, dolorosa ma necessaria», ma se poi nessuno si interessa di seguire il percorso degli sfollati, l’operazione è del tutto inutile.
Quando, al Lingotto, Veltroni è stato intronato, cioè nell’occasione migliore possibile in autorevolezza e visibilità, che ha detto? Il testo è prezioso, prontamente trasformato in libro da Rizzoli. Cito. «Chi viene qui per lavorare deve essere accolto a braccia aperte, ma chi viene per fare del male agli altri deve essere assicurato alla giustizia senza se e senza ma». «La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, non è di destra né di sinistra, e il governo deve fare di tutto per garantirla. Integrazione, multiculturalismo e sicurezza stanno insieme, e insieme cadono». Acqua fresca, quelle frasi meravigliose che, come ha spiegato in un’intervista recente a Panorama il numero 1 degli scrittori di Veltroni, «se non servono quella volta, le ricicli la prossima». Mercoledì pomeriggio, quando il massacro di Giovanna Reggiani gli è arrivato sul tavolo, Veltroni ha sentito il fiato della paura sul collo, non quello del bene comune. E ieri, in collegamento con la tv romena Pro Tv, è sbottato: «Dall’1 gennaio di quest’anno il flusso migratorio, non appena i romeni sono diventati cittadini europei, è diventato non più sopportabile per le città del nostro Paese e credo non solo per esse. C’è una prevalenza assoluta di reati compiuti da cittadini romeni. È un problema che insieme le autorità romene e quelle italiane devono saper affrontare». Sempre un momento dopo.
Non dico che ce ne siano molti altri migliori di lui, l’Italia è malata e ce lo ripetiamo fino alla nausea, ma per l’uomo del destino, faccia gentile o faccia feroce, c’è un giudizio spietato proprio dei suoi amici democratici americani. New York Times, inserto dei libri, Ingrid D. Rowland: «È triste constatare che la Roma del 2007 è un posto meno sicuro e meno piacevole da vivere (e visitare) di quanto lo fosse cinque o sei anni fa. Droghe e violenza sono adesso più evidenti che negli “anni di piombo” degli anni ’70 e ’80... Roma è ora nelle mani di un sindaco la cui vocazione è altrove. Volenteroso e pronto a dare spettacolo... Servirebbe a Roma un sindaco con la vocazione e l’umiltà di fare quanto non fa notizia ma è comunque essenziale: pavimentazione, sorveglianza, pulizie, riparazioni...». (il Giornale)
Perché il feroce Veltroni non ha speso una parola nel dicembre del 2006 alla pericolosa decisione del suo governo di escludere qualsiasi moratoria nella libera circolazione dei cittadini romeni? Perché non ha mai chiesto l’applicazione, o almeno rivelato sdegnato ai suoi elettori che esiste una direttiva Ue, la 38/2004, che consente l’espulsione di cittadini comunitari che non abbiano un reddito adeguato? Perché non ha protestato quando il governo ha chiuso tre Cpt per l’identificazione dei clandestini (a Ragusa, a Brindisi e a Crotone), protestando che così agendo le espulsioni sarebbero diminuite e la capitale sarebbe stata inevitabilmente invasa? O quando hanno eliminato il visto d’ingresso per i soggiorni brevi, sostituendolo con una semplice autocertificazione, spiegando che se non conosci la persona che entra per tre mesi non sai nemmeno dove e come ritrovarlo se poi rimane? Perché hanno trasformato lo strumento civile dell’asilo in un lasciapassare per tutti? Queste domande avrebbe dovuto fare Walter Veltroni al governo, anche solo da sindaco, anche prima di diventare capo del Partito democratico, anche se non aveva i poteri. Invece ci ha storditi con cerimonie dove esibisce la faccia Zelig pacioccona e comunica che dialogo e accoglienza hanno reso Roma la città più vivibile d’Europa.
Io non so se Roma sia mai stata la città più vivibile, temo che i ghost writer si siano lasciati prendere la mano in quella occasione, ma certo è sempre stata un posto accogliente e indifferente, con poche regole rigide e un’aria da «scansate marziano che me impalli la camera», che funzionava anche con i nuovi arrivati da sud ed est. Non è più così, Roma è piena di spostati, di droga, nei quartieri non si dorme la notte. Roma è sporca e piena di baracche, nascoste praticamente ovunque. Qualche baraccopoli il sindaco l’ha fatta smantellare, a ritmo di telecamere e cronisti, e di «ciao Monica, ciao Gianni, avete visto che cosa importante che abbiamo fatto oggi, dolorosa ma necessaria», ma se poi nessuno si interessa di seguire il percorso degli sfollati, l’operazione è del tutto inutile.
Quando, al Lingotto, Veltroni è stato intronato, cioè nell’occasione migliore possibile in autorevolezza e visibilità, che ha detto? Il testo è prezioso, prontamente trasformato in libro da Rizzoli. Cito. «Chi viene qui per lavorare deve essere accolto a braccia aperte, ma chi viene per fare del male agli altri deve essere assicurato alla giustizia senza se e senza ma». «La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, non è di destra né di sinistra, e il governo deve fare di tutto per garantirla. Integrazione, multiculturalismo e sicurezza stanno insieme, e insieme cadono». Acqua fresca, quelle frasi meravigliose che, come ha spiegato in un’intervista recente a Panorama il numero 1 degli scrittori di Veltroni, «se non servono quella volta, le ricicli la prossima». Mercoledì pomeriggio, quando il massacro di Giovanna Reggiani gli è arrivato sul tavolo, Veltroni ha sentito il fiato della paura sul collo, non quello del bene comune. E ieri, in collegamento con la tv romena Pro Tv, è sbottato: «Dall’1 gennaio di quest’anno il flusso migratorio, non appena i romeni sono diventati cittadini europei, è diventato non più sopportabile per le città del nostro Paese e credo non solo per esse. C’è una prevalenza assoluta di reati compiuti da cittadini romeni. È un problema che insieme le autorità romene e quelle italiane devono saper affrontare». Sempre un momento dopo.
Non dico che ce ne siano molti altri migliori di lui, l’Italia è malata e ce lo ripetiamo fino alla nausea, ma per l’uomo del destino, faccia gentile o faccia feroce, c’è un giudizio spietato proprio dei suoi amici democratici americani. New York Times, inserto dei libri, Ingrid D. Rowland: «È triste constatare che la Roma del 2007 è un posto meno sicuro e meno piacevole da vivere (e visitare) di quanto lo fosse cinque o sei anni fa. Droghe e violenza sono adesso più evidenti che negli “anni di piombo” degli anni ’70 e ’80... Roma è ora nelle mani di un sindaco la cui vocazione è altrove. Volenteroso e pronto a dare spettacolo... Servirebbe a Roma un sindaco con la vocazione e l’umiltà di fare quanto non fa notizia ma è comunque essenziale: pavimentazione, sorveglianza, pulizie, riparazioni...». (il Giornale)
venerdì 2 novembre 2007
The Corrier of the sera. Christian Rocca
Oggi il Corriere della Sera pubblica due pagine affiancate di pacata informazione sull'America, un ritratto fedelissimo di ciò che accade negli Stati Uniti, cioè in una terra di mafiosi, fondamentalisti, froci, nazisti e apocalittici annientatori dell'umanità
Titoli:
"Usa i 'pizzini' di Rumsfeld"
"La setta antigay che ringrazia Dio per i soldati morti"
"Scandalo gay, deputato repubblicano si dimette"
"Stati Uniti, i cappi appesi per sfregio – Ritorna l'odio
in stile Ku Klux Klan"
"Morto Tibbets, sganciò l'atomica su Hiroshima"
Titoli:
"Usa i 'pizzini' di Rumsfeld"
"La setta antigay che ringrazia Dio per i soldati morti"
"Scandalo gay, deputato repubblicano si dimette"
"Stati Uniti, i cappi appesi per sfregio – Ritorna l'odio
in stile Ku Klux Klan"
"Morto Tibbets, sganciò l'atomica su Hiroshima"
La verità zingara va detta tutta. Proviamoci. il Foglio
Una donna trucidata, e salta la bugia consolatoria sul nomadismo stanziale.
Avete detto zingari? Figurati, è quasi reato. Tutt’al più li si poteva indicare così ai primi del Novecento, quando sciamavano dall’Ungheria o dalla Romania con le loro orchestrine per allietare i tabarin asburgici al suono dei violini tzigani. Ma quelli erano zingari autentici, come venivano riandavano. Erano pittoreschi e sensuali, devoti alla loro “musica strana fatta di smagamento di esaltazione e di gioia” (Evelino Leonardi, scienziato, negli anni Trenta del secolo scorso). Erano cosmopoliti e irriducibili a ogni integrazione. Il miglior saluto che si potesse ricevere da un gitano era: “Desidero lunga vita ai vostri cavalli”. La peggiore offesa che si potesse fargli era insidiare una donna della sua famiglia: la zingara non ama darsi al “gahno”, allo straniero. Oggi la cattiva coscienza occidentale utilizza soltanto il termine rom, cercando di nobilitare l’appellativo in nome di un paradossale antirazzismo che punta sull’identificazione etnica per non ammettere l’incomprensione fra civiltà.
La signora Giovanna Reggiani, martedì notte a Tor di Quinto, non deve essersi posta certi problemi lessicali mentre veniva sbranata da un mostro che in periferia si chiama ancora zingaro e nel centro storico rom, senza essere più né l’uno né l’altro. Barbaro, questo è il termine appropriato, nel senso classico di straniero che non pronuncia la lingua culturale del paese ospite. Barbaro. E sono in tanti a meritarsi il nome, nove su dieci nelle baracche delle città italiane che testimoniano la fine della transumanza e l’inizio di un nomadismo stanziale e predatorio che rifiutiamo di comprendere. Fatica a farsene una ragione perfino il premier romeno Calin Popescu Tariceanu, sebbene sappia che il timbro ufficiale del proprio stato sul passaporto dell’aggressore non è incidentale. Adesso da Bucarest arrivano in Italia tre poliziotti “per aiutare i colleghi italiani nell’indagine” e come minimo c’è da sperare che i tre gendarmi provengano dalla Securitate. Perché in questa orribile storia c’entra pure il comunismo sovietizzante dell’est europeo: i barbari sono una deiezione della peggiore Romania sopravvissuta allo spettro comunista (che reprimeva ma conteneva anche gli sciami), ed entrata in Europa nel 2007 insieme con la Bulgaria senza che l’Italia reclamasse un’ombra di moratoria per limitare gli accessi. Walter Veltroni dà la colpa al precedente governo di centrodestra, che poteva agire e non lo ha fatto quando si decise l’allargamento dell’Unione nel 2001. Eppure sei mesi fa il viceministro dell’Interno, Marco Minniti dei Ds, anticipava al Foglio una pericolosa emergenza dovuta ai romeni. Era meglio anticipare al Foglio o anticipare i romeni? Quanto alla Bulgaria, è sufficiente passare per Sofia o per Plovdiv. Lì i così detti zingari indossano casacche arancioni e spazzano le strade tutti i giorni. Un prodigio del post comunismo.
Avete detto zingari? Figurati, è quasi reato. Tutt’al più li si poteva indicare così ai primi del Novecento, quando sciamavano dall’Ungheria o dalla Romania con le loro orchestrine per allietare i tabarin asburgici al suono dei violini tzigani. Ma quelli erano zingari autentici, come venivano riandavano. Erano pittoreschi e sensuali, devoti alla loro “musica strana fatta di smagamento di esaltazione e di gioia” (Evelino Leonardi, scienziato, negli anni Trenta del secolo scorso). Erano cosmopoliti e irriducibili a ogni integrazione. Il miglior saluto che si potesse ricevere da un gitano era: “Desidero lunga vita ai vostri cavalli”. La peggiore offesa che si potesse fargli era insidiare una donna della sua famiglia: la zingara non ama darsi al “gahno”, allo straniero. Oggi la cattiva coscienza occidentale utilizza soltanto il termine rom, cercando di nobilitare l’appellativo in nome di un paradossale antirazzismo che punta sull’identificazione etnica per non ammettere l’incomprensione fra civiltà.
La signora Giovanna Reggiani, martedì notte a Tor di Quinto, non deve essersi posta certi problemi lessicali mentre veniva sbranata da un mostro che in periferia si chiama ancora zingaro e nel centro storico rom, senza essere più né l’uno né l’altro. Barbaro, questo è il termine appropriato, nel senso classico di straniero che non pronuncia la lingua culturale del paese ospite. Barbaro. E sono in tanti a meritarsi il nome, nove su dieci nelle baracche delle città italiane che testimoniano la fine della transumanza e l’inizio di un nomadismo stanziale e predatorio che rifiutiamo di comprendere. Fatica a farsene una ragione perfino il premier romeno Calin Popescu Tariceanu, sebbene sappia che il timbro ufficiale del proprio stato sul passaporto dell’aggressore non è incidentale. Adesso da Bucarest arrivano in Italia tre poliziotti “per aiutare i colleghi italiani nell’indagine” e come minimo c’è da sperare che i tre gendarmi provengano dalla Securitate. Perché in questa orribile storia c’entra pure il comunismo sovietizzante dell’est europeo: i barbari sono una deiezione della peggiore Romania sopravvissuta allo spettro comunista (che reprimeva ma conteneva anche gli sciami), ed entrata in Europa nel 2007 insieme con la Bulgaria senza che l’Italia reclamasse un’ombra di moratoria per limitare gli accessi. Walter Veltroni dà la colpa al precedente governo di centrodestra, che poteva agire e non lo ha fatto quando si decise l’allargamento dell’Unione nel 2001. Eppure sei mesi fa il viceministro dell’Interno, Marco Minniti dei Ds, anticipava al Foglio una pericolosa emergenza dovuta ai romeni. Era meglio anticipare al Foglio o anticipare i romeni? Quanto alla Bulgaria, è sufficiente passare per Sofia o per Plovdiv. Lì i così detti zingari indossano casacche arancioni e spazzano le strade tutti i giorni. Un prodigio del post comunismo.
giovedì 1 novembre 2007
Vergognarsi dei propri governanti. Ida Magli
Non possiamo fare altro. Vergognarci. Il degrado di tutte le istituzioni, ivi compresa la Magistratura, il continuo parlare soltanto di se stessi, dei propri interessi, dei propri partiti, da parte dei politici; la loro incapacità, ormai diventato un tratto dominante del loro carattere, della loro personalità, di ricordarsi che il potere gli è stato dato dal popolo italiano, sono giunti ormai al limite finale. Noi italiani, gente comune, non possiamo fidarci di nessun partito, di nessun politico, neanche di quelli che occupano le massime cariche istituzionali e che avrebbero come unico dovere quello di garantire almeno le regole formali. Invece non lo fanno, e non si accorgono neanche di non farlo. Sarebbe sufficiente riflettere al fatto che sono stati cambiati i partiti che reggono il governo attuale senza dimissionare il governo stesso, per comprendere che viviamo nella illegittimità politica. La nascita del Partito Democratico, infatti, non è stato un cambiamento di nome, sommando i due maggiori partiti che erano stati eletti nelle ultime votazioni politiche con a capo Romano Prodi e che gli hanno dato il diritto di formare il Governo. E’ stato costituito un nuovo Partito, eletto con nuove, anomale votazioni, con un nuovo programma e un nuovo leader, tanto che diversi parlamentari si trovano oggi privi del partito nel quale erano stati eletti, mentre Veltroni, attuale Sindaco di Roma, funziona ormai come un secondo capo del governo accanto a Prodi. Tutto questo nel silenzio generale da parte degli organismi preposti al controllo della legittimità democratica.
Assistiamo ogni giorno alla caricatura della democrazia, e ad un tale ottundimento etico da parte dei parlamentari da suscitare un vero e proprio sgomento nei cittadini. Abbiamo perfino un Presidente della Repubblica Italiana il quale disprezza se stesso e la nazione di cui è il Capo. Ripete, infatti, ogni giorno che l’Italia da se stessa non può e non sa fare nulla, e invoca di continuo gli stranieri, le istituzioni europee, affinché ci sostituiscano: l’Italia non sa e non può difendersi dalla immigrazione, non sa e non può controllare i propri confini, non sa e non può lavorare senza gli immigrati; e senza i loro ottimi cervelli “si bloccherebbe”. Ma non basta: abbiamo un Capo dello Stato che arriva perfino ad indottrinare i bambini affinché si ribellino alle autorità, sventolando la bandiera dell’Europa e cantando l’inno tedesco, bandiera e inno che sono stati aboliti proprio perché ogni Popolo appartenente alla comunità europea non ha voluto rinunciare ai propri. Tragico destino dell’Italia: avere montagne di morti inutili, sempre traditi e calpestati dai governanti.
Adesso, però, non ne possiamo più. Tranne quei pochi che sono irretiti dai rituali della politica o perché ancora vi credono, oppure perché sperano di ottenerne qualche vantaggio per la loro attività o per la propria carriera, la maggior parte della gente “normale”, quella che non supera lo stipendio o la pensione mensile dei 1300 euro, quella che tutte le mattine si alza e va al lavoro, quella che ama la propria patria, la propria famiglia, la propria lingua, la propria religione, l’arte, la musica, la bellezza della terra d’Italia, adesso dice: basta.
Mi arrivano sempre più spesso le esortazioni a formare un Partito degli Italiani, o almeno un movimento che abbia come suo primo scopo la salvezza della civiltà italiana, mettendo fine in modo assoluto e definitivo all’immigrazione e all’opera di distruzione della identità italiana che è ormai con tutta evidenza l’unico scopo dei nostri politici.Sebbene mi sia soffermata più volte sui motivi che rendono difficile l’attuazione di questo progetto, cercherò di esporre nel modo più conciso e più chiaro la situazione.Per limitare immediatamente e nel modo più semplice e meno costoso l’immigrazione basterebbe che il governo sospendesse l’adesione dell’Italia al trattato di Schengen e ripristinasse le norme che chiudono i confini agli stranieri, anche se appartenenti alla comunità europea. Proprio oggi Prodi sbandiera come un atto di forza, deciso in seguito al terribile episodio della signora aggredita e ridotta in fin di vita a Roma da un romeno, avere autorizzato i prefetti ad allontanare dal territorio gli stranieri pericolosi. Decisioni ridicole! Costosissime ed inutili!
Per quanto riguarda l’immigrazione da paesi dell’Africa e del Medio Oriente, ci dobbiamo convincere che il nostro farli giungere in Italia non è un atto di bontà o di compassione, ma piuttosto complicità nelle loro sofferenze. Noi possiamo aiutarli soltanto se rimarranno nella loro patria (i motivi di questa affermazione li ho già esposti molte volte e rinvio i lettori, perciò, agli articoli presenti nel sito su questo argomento e ai libri “Omaggio agli Italiani" e “Il mulino di Ofelia”). Comunque, questi motivi possono essere riassunti in uno solo: la religione islamica tiene lontani i maschi dal lavoro della terra e questa è la causa fondamentale della loro povertà. Noi, come ho detto, siamo complici delle loro sofferenze proprio perché ubbidiamo ai politici d’Europa che hanno proibito qualsiasi giudizio sulle religioni e in particolar modo sull’islamismo.
In ogni caso una cosa deve essere ben chiara: senza fermare immediatamente l’invasione del nostro territorio da parte degli stranieri, quale che sia la loro provenienza, l’Italia, la sua indipendenza, la sua civiltà, sono perdute.So bene che molti di coloro che mi leggono, e anche alcuni di quelli che mi scrivono, pensano che saremmo più forti se lavorassimo insieme agli altri paesi d’Europa. Non posso ricominciare a spiegare in questo breve articolo il fatto che viceversa l’unione europea è stata voluta dai governanti proprio per distruggere l’Europa, l’indipendenza dei suoi Stati e l’occupazione del territorio da parte dei musulmani. Se non volete credere a quello che dico e che scrivo da tanti anni, vi prego di guardare ai fatti: ci troviamo come ci troviamo da quando si è incominciato a mettere in atto il trattato di Maastricht, ossia dall’attuazione della moneta unica, e in quel trattato c’è scritto appunto che le differenze fra le Nazioni non debbono più esistere, i confini non debbono più esistere, le lingue non debbono più esistere; e che la guida politica dell’Europa è assunta dagli economisti e dalla Banca Centrale, residente a Francoforte, testimone e suddita del primato tedesco.
L’unione europea è un progetto di distruzione dell’Europa, non di costruzione. Ammesso che all’inizio qualcuno dei governanti fosse in buona fede, si trattava comunque di una persona, come spesso accade a coloro che sono forniti di troppo potere, che fantasticava dietro ad un progetto allucinatorio, dettato dall’ignoranza e dalla presunzione. Distruggere le culture significa distruggere i popoli. Infatti la nostra società è ormai una società patologica, priva di una meta, priva di logica e di buon senso.
Dunque noi potremo salvarci soltanto se agiremo subito, pensando esclusivamente agli interessi dell’Italia, sapendo che in questo modo agiamo anche nell’interesse di ogni singolo popolo, perché soltanto con un proprio territorio, con la propria lingua, con i propri costumi, con la propria religione, con la propria sensibilità e intelligenza, un popolo può essere e mantenersi “Popolo”. Se qualcuno, in Europa, vorrà imitarci, lo farà e ce ne sarà grato. Noi, però, dobbiamo cominciare da soli, senza aspettare l’aiuto di nessuno.
Vengo alle questioni pratiche. Mi si chiede di formare un partito o un movimento per la salvezza della civiltà italiana. Questo è esattamente il compito che si è prefisso, fin dall’inizio, l’associazione degli Italiani Liberi. Io ho fatto molti tentativi e ormai so, con assoluta certezza, che occorrono molti soldi e molta organizzazione. Cose che io non possiedo e che, almeno finora, nessuno mi ha offerto. Ho scritto migliaia di pagine: sono stanca anche di scrivere sempre le stesse cose.
Dunque lascio la parola ai lettori. Cosa propongono di concreto? E per concreto intendo: persone, organizzazioni, denaro. Io posso garantire una cosa sola: che sotto i miei occhi nessuno ruberà. (Italiani Liberi)
Assistiamo ogni giorno alla caricatura della democrazia, e ad un tale ottundimento etico da parte dei parlamentari da suscitare un vero e proprio sgomento nei cittadini. Abbiamo perfino un Presidente della Repubblica Italiana il quale disprezza se stesso e la nazione di cui è il Capo. Ripete, infatti, ogni giorno che l’Italia da se stessa non può e non sa fare nulla, e invoca di continuo gli stranieri, le istituzioni europee, affinché ci sostituiscano: l’Italia non sa e non può difendersi dalla immigrazione, non sa e non può controllare i propri confini, non sa e non può lavorare senza gli immigrati; e senza i loro ottimi cervelli “si bloccherebbe”. Ma non basta: abbiamo un Capo dello Stato che arriva perfino ad indottrinare i bambini affinché si ribellino alle autorità, sventolando la bandiera dell’Europa e cantando l’inno tedesco, bandiera e inno che sono stati aboliti proprio perché ogni Popolo appartenente alla comunità europea non ha voluto rinunciare ai propri. Tragico destino dell’Italia: avere montagne di morti inutili, sempre traditi e calpestati dai governanti.
Adesso, però, non ne possiamo più. Tranne quei pochi che sono irretiti dai rituali della politica o perché ancora vi credono, oppure perché sperano di ottenerne qualche vantaggio per la loro attività o per la propria carriera, la maggior parte della gente “normale”, quella che non supera lo stipendio o la pensione mensile dei 1300 euro, quella che tutte le mattine si alza e va al lavoro, quella che ama la propria patria, la propria famiglia, la propria lingua, la propria religione, l’arte, la musica, la bellezza della terra d’Italia, adesso dice: basta.
Mi arrivano sempre più spesso le esortazioni a formare un Partito degli Italiani, o almeno un movimento che abbia come suo primo scopo la salvezza della civiltà italiana, mettendo fine in modo assoluto e definitivo all’immigrazione e all’opera di distruzione della identità italiana che è ormai con tutta evidenza l’unico scopo dei nostri politici.Sebbene mi sia soffermata più volte sui motivi che rendono difficile l’attuazione di questo progetto, cercherò di esporre nel modo più conciso e più chiaro la situazione.Per limitare immediatamente e nel modo più semplice e meno costoso l’immigrazione basterebbe che il governo sospendesse l’adesione dell’Italia al trattato di Schengen e ripristinasse le norme che chiudono i confini agli stranieri, anche se appartenenti alla comunità europea. Proprio oggi Prodi sbandiera come un atto di forza, deciso in seguito al terribile episodio della signora aggredita e ridotta in fin di vita a Roma da un romeno, avere autorizzato i prefetti ad allontanare dal territorio gli stranieri pericolosi. Decisioni ridicole! Costosissime ed inutili!
Per quanto riguarda l’immigrazione da paesi dell’Africa e del Medio Oriente, ci dobbiamo convincere che il nostro farli giungere in Italia non è un atto di bontà o di compassione, ma piuttosto complicità nelle loro sofferenze. Noi possiamo aiutarli soltanto se rimarranno nella loro patria (i motivi di questa affermazione li ho già esposti molte volte e rinvio i lettori, perciò, agli articoli presenti nel sito su questo argomento e ai libri “Omaggio agli Italiani" e “Il mulino di Ofelia”). Comunque, questi motivi possono essere riassunti in uno solo: la religione islamica tiene lontani i maschi dal lavoro della terra e questa è la causa fondamentale della loro povertà. Noi, come ho detto, siamo complici delle loro sofferenze proprio perché ubbidiamo ai politici d’Europa che hanno proibito qualsiasi giudizio sulle religioni e in particolar modo sull’islamismo.
In ogni caso una cosa deve essere ben chiara: senza fermare immediatamente l’invasione del nostro territorio da parte degli stranieri, quale che sia la loro provenienza, l’Italia, la sua indipendenza, la sua civiltà, sono perdute.So bene che molti di coloro che mi leggono, e anche alcuni di quelli che mi scrivono, pensano che saremmo più forti se lavorassimo insieme agli altri paesi d’Europa. Non posso ricominciare a spiegare in questo breve articolo il fatto che viceversa l’unione europea è stata voluta dai governanti proprio per distruggere l’Europa, l’indipendenza dei suoi Stati e l’occupazione del territorio da parte dei musulmani. Se non volete credere a quello che dico e che scrivo da tanti anni, vi prego di guardare ai fatti: ci troviamo come ci troviamo da quando si è incominciato a mettere in atto il trattato di Maastricht, ossia dall’attuazione della moneta unica, e in quel trattato c’è scritto appunto che le differenze fra le Nazioni non debbono più esistere, i confini non debbono più esistere, le lingue non debbono più esistere; e che la guida politica dell’Europa è assunta dagli economisti e dalla Banca Centrale, residente a Francoforte, testimone e suddita del primato tedesco.
L’unione europea è un progetto di distruzione dell’Europa, non di costruzione. Ammesso che all’inizio qualcuno dei governanti fosse in buona fede, si trattava comunque di una persona, come spesso accade a coloro che sono forniti di troppo potere, che fantasticava dietro ad un progetto allucinatorio, dettato dall’ignoranza e dalla presunzione. Distruggere le culture significa distruggere i popoli. Infatti la nostra società è ormai una società patologica, priva di una meta, priva di logica e di buon senso.
Dunque noi potremo salvarci soltanto se agiremo subito, pensando esclusivamente agli interessi dell’Italia, sapendo che in questo modo agiamo anche nell’interesse di ogni singolo popolo, perché soltanto con un proprio territorio, con la propria lingua, con i propri costumi, con la propria religione, con la propria sensibilità e intelligenza, un popolo può essere e mantenersi “Popolo”. Se qualcuno, in Europa, vorrà imitarci, lo farà e ce ne sarà grato. Noi, però, dobbiamo cominciare da soli, senza aspettare l’aiuto di nessuno.
Vengo alle questioni pratiche. Mi si chiede di formare un partito o un movimento per la salvezza della civiltà italiana. Questo è esattamente il compito che si è prefisso, fin dall’inizio, l’associazione degli Italiani Liberi. Io ho fatto molti tentativi e ormai so, con assoluta certezza, che occorrono molti soldi e molta organizzazione. Cose che io non possiedo e che, almeno finora, nessuno mi ha offerto. Ho scritto migliaia di pagine: sono stanca anche di scrivere sempre le stesse cose.
Dunque lascio la parola ai lettori. Cosa propongono di concreto? E per concreto intendo: persone, organizzazioni, denaro. Io posso garantire una cosa sola: che sotto i miei occhi nessuno ruberà. (Italiani Liberi)
mercoledì 31 ottobre 2007
Ogm, una "tesi controcorrente". Raffaele Cazzola Hofmann
A cura dell’Istituto Bruno Leoni arriva in Italia il volume “Il cibo di Frankenstein” degli studiosi americani Gregory Conko e Henry I. Miller. La tesi sostenuta è che il “mito” del cibo biologico è fasullo e che opporsi al cibo Ogm significa da una parte danneggiare l’alimentazione dei Paesi in via di sviluppo, dall’altra foraggiare il protezionismo agricolo europeo.
Va controcorrente il volume “Il cibo di Frankenstein” (Lindau, 26 euro) appena pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni. Scritto da Gregory Conko, direttore per la sicurezza alimentare del Competitive Enterprise Institute, e da Henry I. Miller, ricercatore della californiana Hoover Institution, il libro cerca di confutare quelli che gli autori considerano i troppi luoghi comuni sugli organismi geneticamente modificati (Ogm). Conko e Miller sostengono che contrastare lo sviluppo degli Ogm è un’operazione insensata sia sul piano squisitamente alimentare, sia su quello economico.
A livello alimentare, secondo gli autori del libro, sono ormai molti e qualitativamente importanti gli studi che dimostrano come quello del cibo biologico sia più che altro un “mito” da sfatare. Il punto di partenza della tesi di Conko e Miller - secondo Norman E. Borlaug, professore presso l’International Agriculture Texas University e autore della prefazione del volume - è che appare impossibile nutrire più di 6 miliardi di persone (una parte consistente dei quali vive nei Paesi in via di sviluppo) con la sola agricoltura biologica.
Ma l’approccio ideologico e spesso antiamericano fa sì che anche in Paesi che hanno una necessità disperata di cibo per sfamare popolazioni povere e sottoalimentate - dall’Angola allo Zimbabwe - rifiutino gli aiuti degli Stati Uniti con la motivazione che essi contengono grano gene-spliced. Il presidente dello Zambia, Levy Mwanawasa, ha detto che “è meglio morire di fame piuttosto che ingerire qualcosa di tossico”. Ma di tossico, negli Ogm, c’è ben poco secondo Conko e Miller. Che anzi rilanciano: “Più di 2.250 varietà di cereali, frumento, riso, zucchine e fagioli sottoposte a mutazione sono state introdotte nella seconda metà del secolo scorso”. Ormai, aggiungo gli autori, “queste colture crescono in oltre cinquanta Paesi del mondo”.
Sul piano economico l’opinione del volume pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni è che essere contro gli Ogm non per ragioni scientifiche ma per motivi ideologici provoca danni incalcolabili sia ai Paesi in via di sviluppo (le colture gene-spliced sono resistenti ai parassiti e quindi non richiedono “cure” a base di pesticidi costose e poco accessibili), sia a quelli ricchi che perdono una grande occasione per eliminare le sovvenzioni statali ai coltivatori di prodotti biologici.
Sarebbe soprattutto il Vecchio continente, per così dire, a darsi la zappa sui piedi: “C’è stato un annullamento dei test sperimentali sugli organismi gene-spliced in Europa. Da un picco piuttosto modesto di 264 esperimenti nel 1997 - scrivono Conko e Miller - si è scesi a soli 35 nel 2002 e a 2 nel primo trimestre del 2003”.
In Italia la politica è tendenzialmente contraria agli Ogm. Eppure sono molti gli scienziati di fama che sostengono il contrario. Si parla di nomi celebri come quelli di Garattini, Bonicelli, Dulbecco e Levi-Montalcini che sette anni fa sottoscrissero un manifesto-denuncia contro il divieto di ricerca sugli Ogm. Oggi la questione è stata rilanciata da un gruppo di ricercatori e addetti del settore italiani.
Sono loro i promotori del progetto salmone.org secondo cui “a sostenere la validità e la sicurezza delle ricerche sugli Ogm si sono schierate in questi anni la Ue, la Fao, l’Onu, l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare”. (Confronto)
Va controcorrente il volume “Il cibo di Frankenstein” (Lindau, 26 euro) appena pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni. Scritto da Gregory Conko, direttore per la sicurezza alimentare del Competitive Enterprise Institute, e da Henry I. Miller, ricercatore della californiana Hoover Institution, il libro cerca di confutare quelli che gli autori considerano i troppi luoghi comuni sugli organismi geneticamente modificati (Ogm). Conko e Miller sostengono che contrastare lo sviluppo degli Ogm è un’operazione insensata sia sul piano squisitamente alimentare, sia su quello economico.
A livello alimentare, secondo gli autori del libro, sono ormai molti e qualitativamente importanti gli studi che dimostrano come quello del cibo biologico sia più che altro un “mito” da sfatare. Il punto di partenza della tesi di Conko e Miller - secondo Norman E. Borlaug, professore presso l’International Agriculture Texas University e autore della prefazione del volume - è che appare impossibile nutrire più di 6 miliardi di persone (una parte consistente dei quali vive nei Paesi in via di sviluppo) con la sola agricoltura biologica.
Ma l’approccio ideologico e spesso antiamericano fa sì che anche in Paesi che hanno una necessità disperata di cibo per sfamare popolazioni povere e sottoalimentate - dall’Angola allo Zimbabwe - rifiutino gli aiuti degli Stati Uniti con la motivazione che essi contengono grano gene-spliced. Il presidente dello Zambia, Levy Mwanawasa, ha detto che “è meglio morire di fame piuttosto che ingerire qualcosa di tossico”. Ma di tossico, negli Ogm, c’è ben poco secondo Conko e Miller. Che anzi rilanciano: “Più di 2.250 varietà di cereali, frumento, riso, zucchine e fagioli sottoposte a mutazione sono state introdotte nella seconda metà del secolo scorso”. Ormai, aggiungo gli autori, “queste colture crescono in oltre cinquanta Paesi del mondo”.
Sul piano economico l’opinione del volume pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni è che essere contro gli Ogm non per ragioni scientifiche ma per motivi ideologici provoca danni incalcolabili sia ai Paesi in via di sviluppo (le colture gene-spliced sono resistenti ai parassiti e quindi non richiedono “cure” a base di pesticidi costose e poco accessibili), sia a quelli ricchi che perdono una grande occasione per eliminare le sovvenzioni statali ai coltivatori di prodotti biologici.
Sarebbe soprattutto il Vecchio continente, per così dire, a darsi la zappa sui piedi: “C’è stato un annullamento dei test sperimentali sugli organismi gene-spliced in Europa. Da un picco piuttosto modesto di 264 esperimenti nel 1997 - scrivono Conko e Miller - si è scesi a soli 35 nel 2002 e a 2 nel primo trimestre del 2003”.
In Italia la politica è tendenzialmente contraria agli Ogm. Eppure sono molti gli scienziati di fama che sostengono il contrario. Si parla di nomi celebri come quelli di Garattini, Bonicelli, Dulbecco e Levi-Montalcini che sette anni fa sottoscrissero un manifesto-denuncia contro il divieto di ricerca sugli Ogm. Oggi la questione è stata rilanciata da un gruppo di ricercatori e addetti del settore italiani.
Sono loro i promotori del progetto salmone.org secondo cui “a sostenere la validità e la sicurezza delle ricerche sugli Ogm si sono schierate in questi anni la Ue, la Fao, l’Onu, l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare”. (Confronto)
Intervista a Corrado Carnevale, giudice di Cassazione: "Non pagano mai gli errori che fanno". Dimitri Buffa
Quale è quella categoria di dipendenti pubblici italiani, anzi quella casta, che va in televisione per fare carriera facendo pubblicità al proprio lavoro e che non paga mai il fio anche solo economico dei propri errori? L’indovinello non è di quelli della Sfinge: si tratta dei magistrati. Questo emerge dal ritratto che fa di loro il giudice Corrado Carnevale, ritornato in Cassazione dopo anni di esilio decretato proprio da altri magistrati.
Dottor Carnevale che idea si è fatto della singolar tenzone tra Mastella e De Magistris?
Diciamo che se i motivi addotti dal ministro per il trasferimento del pm sono quelli che ho letto sui giornali mi sembra esserci poca sostanza. Se dovessimo trasferire tutti i giudici che rilasciano interviste l’Italia avrebbe bisogno di nuove linee ferroviarie dedicate apposta ai magistrati che vanno da un distretto di corte d’appello all’altro.
E la violazione del segreto istruttorio?
E’ un’altra ipocrisia, così fan tutti. Non esiste atto favorevole all’accusa che finisca in mano a un giornalista che non sia stato passato dal magistrato che vi aveva interesse. E quando invece l’atto porta punti alla difesa si può stare sicuri che è stato il difensore dell’imputato, il quale però non ha obblighi penali, ma solo deontologici.
Ma come mai adesso i magistrati si fanno anche la guerra tra di loro, come si è visto proprio nel caso di De Magistris e in quello della Forleo?
Non bastava la lotta contro i politici?Evidentemente no. In questa rincorsa al potere molto può la gelosia reciproca: quello va in televisione e io no? E io allora lo indago, lo metto sotto inchiesta. Magari così sembrerà paradossale, ma il meccanismo mentale è questo.
Lei ovviamente pensa tutto il male possibile di questi suoi colleghi che, invece di rivolgersi in silenzio alle autorità giudiziarie competenti per difendere il proprio lavoro, la propria onorabilità e la propria sicurezza, fanno comizi in tv?
Non c’è dubbio che io non li ammiri. Anche perché trasmettono un messaggio altamente diseducativo a chi li guarda, cioè quello che in Italia, se ti capita qualcosa, o vai in tv e la denunci aizzando le piazze mediatiche oppure soccombi. Con un corollario: e cioè che delle autorità costituite non ci si può fidare. E questo messaggio quando promana da un magistrato è altamente devastante.
Non c’è anche la voglia di apparire per fare carriera?
Questo è il lato inconfessabile e cinico di tutta la vicenda. Un giudice che non riesce a vendere bene la propria inchiesta neanche esiste. In tv c’è la scorciatoia magica, ad esempio per diventare capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, da ex procuratori della repubblica, con il vantaggio economico che comporta ricevere un’indennità pensionabile, oltre al lauto stipendio, pari solo a quella che percepisce anche il capo della polizia. Ma questo Stella e Rizzo si sono dimenticati di scriverlo quando hanno fatto il libro sulla Casta...
Se è per questo si sono dimenticati in genere della casta dei magistrati...
Appunto, con l’unica eccezione di Calabrò, che però non è di certo il solo a cumulare incarichi extra giudiziari molto remunerati.
E questa storia che tutti si sentono delegittimati?
E’ un’altra stupidaggine: la verità è che in Italia, non esistendo la magistratura elettiva come negli Stati Uniti, i singoli magistrati sono legittimati solo da un concorso pubblico che bene o male sono riusciti a passare. E sottolineo quel “bene” e quel “male”, perché certo non si tratta mica di concorsi molto diversi da quelli che fanno gli altri dipendenti pubblici, raccomandazioni scandali e favoritismi compresi.
Per cui la grande occasione persa è stata quella di non dare attuazione al referendum dei radicali dell’epoca di Tortora che aveva abolito la norma della legge sulle guarentigie del magistrato che di fatto impediva qualunque richiesta di risarcimento per colpa grave?
Sì quella fu la grande occasione mancata dalla classe politica italiana, che si illudeva di blandire la categoria, quasi di comprarsela, con quel provvedimento legislativo che ha caricato in capo allo Stato ogni eventuale, molto eventuale, risarcimento, e che ha fatto anche la fortuna della compagnia di assicurazioni della moglie di un collega di Milano...
Questa ce la deve raccontare..
E’ una storia che gli addetti ai lavori conoscono benissimo. Era da poco passato il referendum ma non era ancora stata varata la legge di Vassalli che di fatto lo vanificò. Cominciarono ad arrivare sulle nostre scrivanie molte proposte da parte di compagnie di assicurazioni che avevano intuito un nuovo possibile business. Tra esse la più vantaggiosa fu quella che ci pervenne da parte della agenzia della moglie di un nostro collega di Milano di cui taccio il nome per carità di patria. Era un’offerta molto favorevole perché il premio era basso e tutti si precipitarono a stipularla. Io no. Perché ero e rimango un giudice di principi veri, quelli del diritto, non di principi declamati. Fatto sta che la signora fece un affare enorme...
Perché?
Perché se è vero che i premi sembravano bassi rispetto al rischio, negli anni l’agenzia della signora non ha mai dovuto, sottolineo mai, mettere mano al portafoglio perché non un solo “sinistro” è mai capitato di dovere liquidare. D’altronde la legge varata da Vassalli prevede che prima di accedere allo stesso rimborso dello stato bisogna prima passare un incomprensibile vaglio di ammissibilità che nell’85% dei casi non viene oltrepassato e io posso dirlo con certezza visto che prima di andare per la prima volta in pensione, la prossima sarà nel 2013, alla prima civile della Cassazione mi occupavo proprio di ricorsi abbastanza disperati contro questa griglia da forche caudine. Ma anche quando si arrivava al riconoscimento del danno e al risarcimento da parte dello Stato, mai quest’ultimo ha ritenuto di rivalersi sulla categoria dei magistrati.
Oppure dovrei chiamarla forse casta? Sia come sia. Oggi tutti vorrebbero il portafoglio clienti di quella signora”.
Tutto ciò naturalmente alla faccia della retorica sul conflitto di interessi?
Già, proprio così. Alla sua faccia. (l'Opinione)
Dottor Carnevale che idea si è fatto della singolar tenzone tra Mastella e De Magistris?
Diciamo che se i motivi addotti dal ministro per il trasferimento del pm sono quelli che ho letto sui giornali mi sembra esserci poca sostanza. Se dovessimo trasferire tutti i giudici che rilasciano interviste l’Italia avrebbe bisogno di nuove linee ferroviarie dedicate apposta ai magistrati che vanno da un distretto di corte d’appello all’altro.
E la violazione del segreto istruttorio?
E’ un’altra ipocrisia, così fan tutti. Non esiste atto favorevole all’accusa che finisca in mano a un giornalista che non sia stato passato dal magistrato che vi aveva interesse. E quando invece l’atto porta punti alla difesa si può stare sicuri che è stato il difensore dell’imputato, il quale però non ha obblighi penali, ma solo deontologici.
Ma come mai adesso i magistrati si fanno anche la guerra tra di loro, come si è visto proprio nel caso di De Magistris e in quello della Forleo?
Non bastava la lotta contro i politici?Evidentemente no. In questa rincorsa al potere molto può la gelosia reciproca: quello va in televisione e io no? E io allora lo indago, lo metto sotto inchiesta. Magari così sembrerà paradossale, ma il meccanismo mentale è questo.
Lei ovviamente pensa tutto il male possibile di questi suoi colleghi che, invece di rivolgersi in silenzio alle autorità giudiziarie competenti per difendere il proprio lavoro, la propria onorabilità e la propria sicurezza, fanno comizi in tv?
Non c’è dubbio che io non li ammiri. Anche perché trasmettono un messaggio altamente diseducativo a chi li guarda, cioè quello che in Italia, se ti capita qualcosa, o vai in tv e la denunci aizzando le piazze mediatiche oppure soccombi. Con un corollario: e cioè che delle autorità costituite non ci si può fidare. E questo messaggio quando promana da un magistrato è altamente devastante.
Non c’è anche la voglia di apparire per fare carriera?
Questo è il lato inconfessabile e cinico di tutta la vicenda. Un giudice che non riesce a vendere bene la propria inchiesta neanche esiste. In tv c’è la scorciatoia magica, ad esempio per diventare capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, da ex procuratori della repubblica, con il vantaggio economico che comporta ricevere un’indennità pensionabile, oltre al lauto stipendio, pari solo a quella che percepisce anche il capo della polizia. Ma questo Stella e Rizzo si sono dimenticati di scriverlo quando hanno fatto il libro sulla Casta...
Se è per questo si sono dimenticati in genere della casta dei magistrati...
Appunto, con l’unica eccezione di Calabrò, che però non è di certo il solo a cumulare incarichi extra giudiziari molto remunerati.
E questa storia che tutti si sentono delegittimati?
E’ un’altra stupidaggine: la verità è che in Italia, non esistendo la magistratura elettiva come negli Stati Uniti, i singoli magistrati sono legittimati solo da un concorso pubblico che bene o male sono riusciti a passare. E sottolineo quel “bene” e quel “male”, perché certo non si tratta mica di concorsi molto diversi da quelli che fanno gli altri dipendenti pubblici, raccomandazioni scandali e favoritismi compresi.
Per cui la grande occasione persa è stata quella di non dare attuazione al referendum dei radicali dell’epoca di Tortora che aveva abolito la norma della legge sulle guarentigie del magistrato che di fatto impediva qualunque richiesta di risarcimento per colpa grave?
Sì quella fu la grande occasione mancata dalla classe politica italiana, che si illudeva di blandire la categoria, quasi di comprarsela, con quel provvedimento legislativo che ha caricato in capo allo Stato ogni eventuale, molto eventuale, risarcimento, e che ha fatto anche la fortuna della compagnia di assicurazioni della moglie di un collega di Milano...
Questa ce la deve raccontare..
E’ una storia che gli addetti ai lavori conoscono benissimo. Era da poco passato il referendum ma non era ancora stata varata la legge di Vassalli che di fatto lo vanificò. Cominciarono ad arrivare sulle nostre scrivanie molte proposte da parte di compagnie di assicurazioni che avevano intuito un nuovo possibile business. Tra esse la più vantaggiosa fu quella che ci pervenne da parte della agenzia della moglie di un nostro collega di Milano di cui taccio il nome per carità di patria. Era un’offerta molto favorevole perché il premio era basso e tutti si precipitarono a stipularla. Io no. Perché ero e rimango un giudice di principi veri, quelli del diritto, non di principi declamati. Fatto sta che la signora fece un affare enorme...
Perché?
Perché se è vero che i premi sembravano bassi rispetto al rischio, negli anni l’agenzia della signora non ha mai dovuto, sottolineo mai, mettere mano al portafoglio perché non un solo “sinistro” è mai capitato di dovere liquidare. D’altronde la legge varata da Vassalli prevede che prima di accedere allo stesso rimborso dello stato bisogna prima passare un incomprensibile vaglio di ammissibilità che nell’85% dei casi non viene oltrepassato e io posso dirlo con certezza visto che prima di andare per la prima volta in pensione, la prossima sarà nel 2013, alla prima civile della Cassazione mi occupavo proprio di ricorsi abbastanza disperati contro questa griglia da forche caudine. Ma anche quando si arrivava al riconoscimento del danno e al risarcimento da parte dello Stato, mai quest’ultimo ha ritenuto di rivalersi sulla categoria dei magistrati.
Oppure dovrei chiamarla forse casta? Sia come sia. Oggi tutti vorrebbero il portafoglio clienti di quella signora”.
Tutto ciò naturalmente alla faccia della retorica sul conflitto di interessi?
Già, proprio così. Alla sua faccia. (l'Opinione)
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