mercoledì 7 novembre 2007

Euro, petrolio e Iva: Bersani non convince. Carlo Stagnaro

Dopo aver speso l’estate ad attaccare le compagnie petrolifere, il ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani sembra essersi persuaso dell’ovvio: che, se i carburanti costano troppo, è soprattutto a causa della fiscalità. Quindi, nel dibattito sulla finanziaria il ministro ha rilanciato una proposta già avanzata con scarso successo l’anno scorso: costruire un meccanismo di accise flessibili che, quando il prezzo dei carburanti supera una certa soglia, si riducano in maniera tale da compensare l’aumento del gettito Iva. L’imposta sul valore aggiunto del 20 per cento, infatti, grava sulla somma tra prezzo industriale e accisa. L’idea non è sbagliata, ma rischia di essere inefficace. In primo luogo, Bersani ritiene che il meccanismo debba scattare quando il barile supera la quota di 71 dollari, ma non dice di quale greggio stia parlando. Specificarlo è essenziale, perché il differenziale tra le varie qualità è molto elevato. Si può scegliere di far riferimento al Brent o al Wti, ma probabilmente la soluzione più corretta sarebbe quella di guardare a un indice come quello proposto dalla rivista specializzata Quotidiano Energia, costituito da un paniere di cui fanno parte i greggi effettivamente importati e lavorati nelle raffinerie italiane. Ciò lascerebbe tuttavia aperto un altro problema: non è possibile, infatti, non tenere conto del cambio euro-dollaro, che ha un impatto assai significativo sul prezzo reale della materia prima, e quindi dei prodotti raffinati, in Italia. Un barile a 100 dollari con l’euro quotato a 1,40 dollari è molto diverso dallo stesso barile con un ipotetico cambio 1:1. In realtà, sarebbe opportuno guardare al valore dei prodotti petroliferi anziché a quello del greggio: del resto, anch’essi sono scambiati sui mercati internazionali e hanno dei riferimenti ben noti, come, per l’Italia, il Platt’s Cif Med.

In ogni caso, occorre piuttosto chiedersi da cosa nasca l’iniziativa di Bersani: non certo dal rapporto relativo tra domanda e offerta globali di petrolio. Semmai, dalla constatazione che i carburanti, in un paese caratterizzato dal livello dei redditi italiano, è semplicemente troppo alto, e che ciò dipende in larga misura dalle tasse. Allora, che l’intervento colpisca direttamente la componente tributaria: per esempio fissando un gettito massimo oltre il quale si ritiene che il prelievo sia eccessivo, e modulando su di esso la variabilità dell’accisa, a prescindere dal motivo per cui viene raggiunto (se cioè dipenda dall’andamento barile o da altre dinamiche). Perfino così, però, ci si espone a un’obiezione: oltre quella soglia, ogni centesimo di aumento del prezzo industriale peserebbe meno del centesimo precedente, in quanto sarebbe sgravato dall’Iva, e quindi l’aumento di prezzo sarebbe meno percepito proprio quando più necessario, ossia quando il prezzo è massimo a indicare che alta è pure la scarsità. Se dunque il problema è il fisco, la soluzione deve essere di natura puramente fiscale: eliminando l’anomalia della tassa sulla tassa e riducendo le accise. Sarebbe un intervento più semplice, diretto ed efficace: e lì è la differenza tra le cose serie e le promesse elettorali. (Libero Mercato)

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