martedì 17 luglio 2012

La sinistra dal Quarto stato al terzo sesso. Marcello Veneziani

Pensate come si è immiserito il dibattito sulle identità e sui principi, se la sinistra, non solo in Italia ma ovunque, eleva la questione delle nozze gay a tema cruciale..

Sul ciclone gay che si è abbattuto sul­la sinistra non sposerò le tesi della Concia e dei suoi acconciatori né della Bindi e dei suoi abbindolatori (io sono più avanti perché mi batto per abolire le nozze etero). Riconosco a loro un tragitto di persona­le coerenza che sfocia nella sostanziale incoerenza di un partito. Quel che mi colpisce è un’altra cosa: pensate come si è immiserito e immin­chionito il dibattito sulle identità e sui principi, se la sinistra, non solo in Italia ma ovunque, eleva la questione delle nozze gay a tema cruciale. Il dibattito delle idee è sceso a livello in­guinale.

Non stiamo parlando di persecuzione dei gay, se espellerli o negare il loro dirit­to di esserlo. Stiamo parlando della batta­glia sulle nozze gay che riguarda una spa­ruta minoranza di una minoranza. L’occidente sprofonda e loro conti­nuano a pettinare le bambole gay.

Non si confrontano sulle cose che af­fliggono la maggioranza degli italiani ma sul rococò del politically correct applica­to al cinque per mille degli italiani gay. Decine di milioni d’italiani interessano loro meno di decine di coppie gay. Detto questo, ai cattolici del Pd rivolgo un plauso e una pernacchia: il primo per la loro coerenza di cattolici, la seconda per la loro incoerenza di scelta politica. La sinistra oggi è quella, passata dalla di­fesa del Quarto Stato a quella del Terzo Sesso, e voi siete i paggetti recalcitranti delle loro nozze. O le Vecchie Zie brontolone (vi stupirà ma ho simpatia per Rosy Bindi; e poi mi­gliora con gli anni, a novant’anni sarà una bonazza). (il Giornale)

giovedì 12 luglio 2012

12 luglio 2012

Berlusconi si ricandida a premier. Angelino Alfano sarà al suo fianco. Fino a questo momento è solo un’indiscrezione. Fonti interne a Villa Feltrinelli riferiscono di un’iniziativa pubblica, forse un discorso del Cavaliere al Lirico, a Milano, replicato per tramite di video-radiodiffusione alla Patria in trepidante attesa. Nove milioni di baionette sono pronte e Sandro Bondi, in tuta da ginnastica, si prepara facendo la sua corsetta quotidiana per le strade del capoluogo lombardo. Un’autocolonna guidata da Fabrizio Cicchitto si dirige verso la Valtellina. E’ l’Italia migliore che saluta la decisione del capo di tornare nell’agone. I traditori, nel frattempo trasferiti a Pescara, hanno appreso attoniti ciò che per adesso è solo una voce. Solo un tonante “presente!” potrà cancellare l’onta dell’infamia. Nessuno teme il tentativo di sbarco delle potenze avverse. “Lo spread”, ha fatto sapere il Silvio, “sarà fermato sul bagnasciuga”.

mercoledì 11 luglio 2012

Giustizia: i conti non tornano. Gianluca Perricone

 
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La questione della riforma del sistema giudiziario italiano non può limitarsi alla responsabilità civile dei giudici: aspetto senza dubbio essenziale (al quale si potrebbe anche aggiungere anche l’eventuale responsabilità nello sperpero di denaro pubblico grazie ad inchieste che, talvolta, rasentano il ridicolo), ma di certo non determinante nel funzionamento di un sistema (quello appunto della giustizia) che si potrebbe definire ‘diversamente efficiente’.
Lasciamo stare, in questa sede, l’aspetto relativo alla responsabilità dei togati perché, nello scorso weekend, si è saputo ad esempio che a Pinerolo (in Piemonte) il ministero della Giustizia ha finanziato con ben 774.685 euro l'ampliamento del palazzo di giustizia, uno di quelli che lo stesso ministero ha inserito l’altro giorno tra i tribunali da sopprimere. Qualche conto, a noi “normali” (o “contribuenti” se più piace…) non torna, così come non quadra quando si progettano nuove carceri mentre si lasciano marcire nell’incuria istituti carcerari già esistenti: no, nel pianeta-giustizia più di un conto non torna.
E che dire, sempre a proposito di notizie dello scorso weekend, del rinvio a settembre del processo con rito abbreviato (in corso a Genova) a carico di dieci persone indagate nell'ambito dell'inchiesta "Maglio 3", ritenute ai vertici della 'ndrangheta in Liguria? Avete saputo il motivo di detta posticipazione? Si è resa necessaria la ricerca di un interprete per tradurre il contenuto delle intercettazioni telefoniche dal calabrese all’italiano. Sì, avete capito bene: dal calabrese all’italiano ed il giudice per le indagini preliminari Silvia Carpanini dovrà nominare direttamente il perito. E intanto i tempi si prolungano.
C’è stato anche un nuovo capitolo delle indagini sulla morte di Yara Gambirasio: sembrerebbe infatti che ora gli investigatori abbiano rivolto la loro attenzione nell'ambito delle amicizie della ragazza e di sua sorella maggiore, Keba. Sono passati 19 mesi dal delitto e la giustizia nostrana, su questa vicenda, sembra non azzeccarne una.
Per fortuna che c’è stata poi la sentenza della Cassazione (altrimenti sarebbe stato veramente un fine-settimana nero) che ha sentenziato che l’espressione «Lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!» è un’esclamazione ritenuta minacciosa e quindi punibile dalla legge. Per stabilirlo ci sono voluti un giudice di pace che aveva assolto il malfattore che aveva pronunciato quella locuzione contro una vicina, un Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno che è ricorso appunto in Cassazione contro la decisione del primo, e infine la Suprema Corte che ha emesso lo strepitoso parere.
Noi, intanto, continuiamo a restare convinti che i conti non tornino proprio. (il Legno Storto)

martedì 10 luglio 2012

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10 luglio 2012

Lasciamo pure perdere i nuovi soldi, anche se dodici milioni di dollari non sono proprio spiccioli, trovati in Svizzera a Massimo Ciancimino. Naturalmente per il giovanotto si tratta di un nuovo guaio ma la sua autorevolezza di “pentito” non ne risentirà poi molto, ridotta com’è. Se mai si crea nuovo lavoro alla procura di Palermo che porta avanti un’indagine per riciclaggio che vede indagato il figlio dell’ex sindaco mafioso. Come faceva notare ieri Chiocci sul Giornale, questo ritrovamento è figlio di un supplemento di indagine imposto dal gip palermitano ai pm che, fosse stato per loro, avrebbero voluto chiuderla qualche mese fa. Ma c’è un’altra storia sulla quale è bene fare attenzione: vi ricordate la guantiera di candelotti di dinamite sepolta nel giardino della sua casa palermitana, con qualche rischio per i condomini, dall’ineffabile personaggio? Se non ve la ricordate più non vi si può biasimare. E’ passato più di un anno. Il caso è semplice, l’esplosivo è stato trovato, periziato e fatto brillare. Eppure in tutto questo tempo nessun pm palermitano ha ancora completato l’istruttoria. Con tutta la buona volontà è difficile pensare solo alla strutturale lentezza della nostra macchina giudiziaria.
di Massimo Bordin

martedì 26 giugno 2012

Coda di paglia. Davide Giacalone

Dovremo essere grati a Nicola Mancino, che inguaiando il Colle ha scatenato un diluvio di articoli pensosi, vergati da costituzionalisti preoccupati e commentatori affranti, sicché, infine, si son trovati a dover sostenere quel che noi scrivevamo solitari: così non si può andare avanti. Leggendoli, dopo un sorriso, trovo conferma di un fatto rilevante: sappiamo tutti benissimo quel che si dovrebbe fare, per raddrizzare l’Italia, ma ogni volta non ci si riesce perché i problemi si preferisce usarli come armi contro gli avversari, piuttosto che risolverli. Speriamo che il rossore quirinalizio, l’affannoso tentativo di minimizzare quel che è gigantesco, propizi il senso di responsabilità, mettendo da parte l’innata italica faziosità.

Ora si mette in dubbio che sia sensato istruire un processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Ora si dice che, ove mai ci sia stata, se ne deve valutare la portata politica, non penale. Ancora non hanno preso abbastanza coraggio, non riescono a mettere nero su bianco il nome di Mario Mori, ancora è troppo forte la vergogna per averlo abbandonato, ma sono sulla buona strada. Noi li aiutiamo da anni. Si facciano tornare alla mente anche il nome di un altro carabiniere, Carmelo Canale: era il braccio destro di Paolo Borsellino e fu abbandonato a un processo, durato anni lunghissimi, in cui lo si accusava di mafia. Lo pronuncino, perché la vergogna odierna non sia onta storica.

Comunque, se ne sono accorti: quel processo non sta in piedi. Ben arrivati. Peccato ci siano riusciti solo perché quello sventurato di Mancino ci ha trascinato dentro la presidenza della Repubblica. Il punto è: non si chiede e non si deve chiedere impunità per nessuno, ma uno Stato che lascia i propri servitori nelle mani dell’accusa penale, che continua nei tribunali la battaglia della mafia, non merita rispetto. I politici che non sono all’altezza di capirlo ne meritano ancora meno. Fa piacere leggerlo, ma era evidente da molti anni, come le nostre parole, nel tempo, dimostrano.

Ora si accorgono che le intercettazioni telefoniche possono essere un piede di porco con il quale si svelle ogni cosa, perché, come giustamente, ma tardivamente e nell’occasione sbagliata, dice Giorgio Napolitano: si tolgono frasi dal contesto, non si chiarisce l’insieme e si specula sulle parole. Peccato che, fin qui, sia stato uno sport nazionale. Praticato da quanti oggi lo rimproverano agli altri. Il che ha un lato divertente: è irresistibilmente ridicolo vedere Repubblica che si scapicolla a sostenere che in tal modo non si possono massacrare le istituzioni. Perbacco, da che pulpito!

Solo che ancora non hanno il coraggio di imboccare la via giusta: non si devono limitare le intercettazioni, che sono strumenti d’indagine e prevenzione, ma si deve cancellarne l’uso giudiziario, quindi il deposito delle trascrizioni e l’immediata pubblicazione sui numerosi mattinali di polizia, quali si sono ridotti a essere i giornali italiani.

Ora dicono che i magistrati devono accertare i reati, non scrivere o riscrivere la storia. Ci sono arrivati dopo avere pubblicato non so quante “verità” dei questurini, non so quante “rivelazioni” provenienti dalle celle, salvo poi nascondere con due righe in cronaca l’unica verità vera: erano boiate. Comunque: ben venuti. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti: le sentenze sociologiche sono abominevoli, la letteratura giudiziaria è deviazionista, la magistratura combattente una violazione del diritto, quindi della legalità.

Ora si dice che, in un così grave momento di crisi, è da irresponsabili indebolire il vertice dello Stato. Quello del governo fu spolpato nel mentre i titoli del nostro debito pubblico finivano sotto attacco. Ma, ancora una volta, non si tratta di non potere o dovere pubblicare quel che emerge, o tacere quel che si pensa, ma di disporre di un sistema giudiziario che liberi in fretta gli innocenti dal sospetto, condannando i colpevoli. Si deve diffondere la cultura del diritto, secondo cui ciascuno è innocente, fino a condanna. (A tal proposito, tra parentesi, avere consentito l’arresto di un senatore, senza che sussista la benché minima esigenza cautelare, è segno di tale incommensurabile viltà, è confessione di una tale chilometrica coda di paglia, che la permanenza di una tale classe politica è nocumento alla Repubblica).

Fin qui questi mali ce li si è tirati dietro, sperano d’annientarci l’avversario. Lo ha fatto la sinistra contro la destra e la destra contro la sinistra. L’ultimo (in ordine di tempo) pugnale ha trafitto l’uomo del Colle. Forse ci siamo: continuare così è suicida. Quel che Napolitano non capì ieri, quando si metteva di traverso, e non capisce oggi, quando cerca di mettersi di sguincio, è che servono le riforme, serve la giustizia, serve il diritto. Non serve a nulla pretendere di salvarsi da soli. Oltre tutto è impossibile.

venerdì 22 giugno 2012

22 giugno 2012

Ora, non vorrei dire. Ma quando ho visto Emma Bonino prendere la parola con quell’aria da maestrina sul tormentato-pensatrice che quasi sempre assume, quando ho sentito che esortava il Senato a votare per l’arresto di Lusi “senza entrare nel merito del problema” perché il problema non era di merito, quando le ho sentito affermare che, essendo contro la carcerazione preventiva di 27 mila (dei quali tutti si impipano) sentiva forte e coerente il dovere civile di farne 27 mila e uno, per poi concludere, dulcis in fundo, che non esisteva possibilità di scorgere alcun fumus persecutionis in qualcosa del cui merito non si era occupata lei, figurarsi quindi se dovevano occuparsene gli altri, be’, mi sono venute le ragadi.

giovedì 21 giugno 2012

L'anticipazione della pena. Gianluca Perricone

Nel suo video-editoriale, il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini, ha esordito con un disgustoso "Giustizia è fatta". Il riferimento di uno degli uomini di punta dello schieramento capitanato dall'ingegner Carlo De Benedetti era relativo al voto con il quale l'aula del Senato ha dato il via libera all'arresto (preventivo) del senatore Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita da mercoledì sera rinchiuso nel carcere di Rebibbia. 
Per Giannini, insomma, la giustizia (consueta "g" volutamente minuscola) sarebbe stata fatta ancor prima di un processo e di una sentenza di condanna. Una giustizia che arresta prima di una sentenza di condanna, può davvero chiamarsi “giustizia”?
L'arresto di Lusi? "Ho sempre detto che senatori e deputati sono uguali agli altri cittadini" ha dichiarato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani vittima evidentemente, al momento dell'improvvida dichiarazione, di un'amnesia sui fatti accertati dalle parti di Sesto San Giovanni. Ma poi il problema è proprio quello che, di certo in maniera involontaria, ha messo in evidenza Bersani: un problema che si chiama carcerazione preventiva. Ed è un problema che non riguarda soltanto i membri della cosiddetta 'casta', ma tutti i cittadini (deputati e senatori compresi). Non si può pensare, cioè, di andare avanti ordinando arresti prima che si svolga un regolare processo (tranne che nei casi di scuola e previsti dalla legge: pericolo di fuga dell'indagato, inquinamento delle prove e reiterazione del reato), magari sperando che l'imputato finisca per dichiarare ciò che pretendono di sentire gli inquirenti e, soprattutto, prima che venga emessa sentenza di condanna definitiva.
Consapevole di non essere particolarmente condiviso dai più, soprattutto in questi periodi, ritengo che proprio Lusi tutti i torti non abbia quando afferma che "il legislatore deve tenere distinta l'autorizzazione alla misura cautelare dall'istituto, ancora non previsto, dell'anticipazione della pena". (il Legno storto)

martedì 19 giugno 2012

Colle solitario. Davide Giacalone

Mario Mori lo hanno lasciato da solo, senza troppo crucciarsene. Come un ostaggio, considerato sacrificabile. Hanno pensato che potesse bastare, che sulle spalle del generale dei Carabinieri, ex capo del Ros, potesse caricarsi l’intero peso del teorema, delle trattative fra lo Stato e la mafia. Poi Nicola Mancino è stato chiamato a testimoniare e s’è sentito improvvisamente solo. Ha avuto paura, perché una cosa è chiara come il sole: se la trattativa ci fu, se era finalizzata a cancellare il carcere duro, il regime di 41 bis, allora tale risultato fu ottenuto, dalla mafia, nel 1993. Quando il governo era presieduto da Carlo Azelio Ciampi e al ministero dell’interno c’era lui: Mancino.

Io non credo al teorema, benché ritengo che un canale di comunicazione ci fu, fra i disonorati e le loro eccellenze. Il guaio è che il teorema doveva servire a fregare Silvio Berlusconi, sicché i vari Mancino, ben vedendone la forzatura, magari si davano di gomito. Come a dire: mica come noi, che alle toghe facciamo le fusa, che abbiamo ceduto a ogni richiesta corporativa, che abbiamo ammorbidito i possibili pericoli nel velluto dei palazzi e fra i cuscini dei salotti, no, il cavaliere pazzo va allo scontro, così attirando inchieste e processi più di quanto lo zucchero attiri le mosche. Il cavaliere, aggiungo io, non so s’è pazzo, di sicuro ha fallito, perché dopo anni di scontri non è riuscito a riformare la giustizia. Ma loro erano dei vili, dei falsi uomini di Stato che pensarono veramente di abbandonare Mori al suo destino, come in passato avevano abbandonato alla tortura altri carabinieri e altri servitori dello Stato, come avevano lasciato solo Carmelo Canale, in questo modo insultando la memoria di Paolo Borsellino. Che, del resto, isolarono e sconfissero già da vivo. Come prima avevano già fatto con Giovanni Falcone. Questi mezzi uomini hanno veramente creduto che potesse pagare Mori, che si potesse veramente continuare a raccontare palle giudiziarie, a dispetto del calendario.

Quindi, quando Mancino fu interrogato, nel 2011, s’attaccò al telefono e chiamò il Quirinale, per reclamare aiuto. E lo fece in modo comico: se resto solo parlo e se parlo escono altri nomi. Povero il nostro irpino, gli altri nomi erano già usciti. Li avevamo pubblicati noi: Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Conso, Adalberto Capriotti, Cesare Curioni. Non sto a ripetere la storia ancora una volta, perché prima o dopo qualche lettore mi tira una scarpa. Abbiamo fatto i nomi parlando al muro. Non so se Mancino li abbia letti, di sicuro non se ne è preoccupato: chi se ne frega, tanto a questi nessuno dà ascolto, mica sono manettari alla moda, mica giocano al piccolo inquisitore, poi sono pure garantisti, non fanno paura a nessuno. Noi, però, mettevamo in fila date e fatti, prima o dopo destinati a venire a galla. Quando li ha visti, quando gliene hanno, in modo colpevolmente tardivo, chiesto conto, Mancino ha avuto paura. S’è sentito solo. Cosa succede se il teorema viene sincronizzato con il calendario? S’è chiesto. Siamo tutti spacciati. Schiacciati dalla viltà e dall’avere taciuto, sperando che il giustizialismo facesse fuori i loro avversari.

Preoccupazioni che hanno fatto breccia presso l’uomo del Colle, che non ha risposto scandalizzato al suo consigliere, Loris D’Ambrosio, cui Mancino si era rivolto. Napolitano non gli ha detto: non si permetta di sottopormi questioni che riguardano l’autonomia della magistratura. Anzi, ha fatto cose che oggi inducono D’Ambrosio a dire: sono vincolato dal segreto, perché c’è l’immunità presidenziale. Che poi, per la precisine, non è affatto immunità, ma irresponsabilità, nel senso che ogni atto presidenziale deve essere avallato e controfirmato dal governo. Questo è scritto nella Costituzione. Ora il presidente fa sapere d’essersi mosso “nei limiti delle sue prerogative”. Sarebbe stato singolare sostenesse il contrario e, del resto, quegli atti furono sollecitati dal presidente emerito del Senato, già vice presidente del Csm. Ciò non di meno è significativo che s’invochi il “coordinamento” proprio dopo che un tale signore avverte di sentirsi solo e di sentirsi indotto a fare nomi. Tanto per dirne una: perché per Mori non si dovevano coordinare?

E la trattativa? Mori e il Ros parlarono con Ciancimino, questo è sicuro. Era il loro lavoro. L’esito di quella stagione è vincente, perché la mafia è stata colpita duramente, il suo braccio militare spezzato, il suo peso politico fiaccato. Mai abbassare la guardia. Questa genia di disonorati va estinta. Ma non c’è motivo d’ignorare i risultati, conseguiti quando al governo c’erano quelli che furono chiamati “ladri”.

Venti anni fa, però, si produssero due buchi neri: a. la complicità di chi isolò e sconfisse Falcone e Borsellino, lasciandoli soli davanti alla morte; b. la debolezza di chi accolse la richiesta di segnali distensivi, di chi prestò orecchio al capo dei cappellani carcerari e accettò di servirsi di un loro uomo, per distrarre i mafiosi dal mettere bombe davanti alle chiese. I malamente, però, vanno cercati fra i colleghi dei due magistrati eliminati e fra gli osannati della nuova stagione, quella dell’“onestà”. Va fatto, come qui ci siamo sforzati, altrimenti si continua a costruire sulle bugie. A proposito: Leoluca Orlando Cascio è il nuovo sindaco di Palermo. Una parola è picca e due sunnu assai.

Mori non può telefonare a nessuno, né nessuno gli risponderebbe. Ma i mondi responsabili di quei due micidiali buchi sono ancora al potere, e si telefonano. Impauriti, perché la trappola armata per schiacciare l’uno, usando un processo senza capo né coda, ha tutta l’aria di star per scattare sulle loro teste. Sicché si dicono, fra di loro, che quel modo d’istruire i processi va fermato. Che le intercettazioni non possono essere usate in questo modo. Che la ragion di Stato richiede anse di riservatezza. Che il protagonismo giudiziario può devastare le istituzioni, se divorzia dalle sentenze. Noi lo sapevamo e scrivevamo già, quindi possiamo vederli annaspare senza sentirci granché tristi.

domenica 10 giugno 2012

Avviso Mancino. Davide Giacalone

Nicola Mancino, ministro degli interni nel biennio 1992-1994, sostiene di non essere stato al corrente di alcuna ipotesi di trattativa fra lo Stato e la mafia. Avendolo detto nel corso di un processo, ove era stato chiamato quale testimone (quindi con l’obbligo di dire la verità e senza la facoltà di tacere), la procura di Palermo gli ha notificato un avviso di garanzia, supponendo il reato di falsa testimonianza. Il fatto sollecita due riflessioni, che ancora una volta segnalano la differenza che c’è fra lo scrivere la storia e il pretendere che sia incisa nelle sentenze.

Non è contestabile che il governo del quale Mancino faceva parte, per mano del ministro della giustizia, Giovanni Conso, su sollecitazione del capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), Capriotti, a sua volta voluto dal presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, decise di togliere dal carcere duro (41 bis) due affollati contingenti di mafiosi. Conso stesso ha ricordato di averlo fatto per porre un freno alle bombe mafiose, che effettivamente cessarono. Che questo sia avvenuto a seguito di una trattativa non è dato sapere, certo qualcuno deve avere avuto elementi per indirizzare Conso in quel modo, e a quel qualcuno altri, non certo dei damerini, devono averlo comunicato. Tutto questo non necessariamente significa che Mancino stia mentendo, perché la trattativa poteva pure essere in corso e lui non esserne informato. La cosa non deporrebbe a suo favore, non solo per l’irrilevanza ministeriale di allora, ma anche perché visti i ministri e le istituzioni che agirono il non fidarsi di Mancino lascia intendere che temevano altro che non la sua formale e documentata opposizione.

Il punto è, però, che Mancino non nega di avere trattato, nega che si sia trattato. Quindi la questione è ben più che processuale, attiene a una pagina decisiva della nostra storia nazionale.

Può l’avviso di garanzia a Mancino, quindi le indagini che seguiranno, aiutarci a scriverla con meno imprecisioni? Ne dubito assai. Primo, perché le indagini saranno la riproposizione di roba già accertata o già inaccertabile. Secondo, perché non ha molto senso accusare il teste Mancino senza accusare il ministro Mancino. Voglio dire: se nega una trattativa esistente il reato contestabile non è falsa testimonianza, ma la trattativa stessa. E se nega una trattativa inesistente l’accusa è solo il riflesso di un teorema, destinato a restare tale.

Una cosa colpisce: Mancino ha avuto tutto dalla vita politica, ha potuto permettersi di essere un esponente della sinistra democristiana, con una forte propensione al clientelismo, per poi ergersi a censore delle vite altrui, eppure neanche nel mentre la sua esperienza volge al termine, nemmeno trovandosi fuori dai giochi, riesce a trovare il coraggio di una ricostruzione men che manieristica e reticente di un’epoca e un mondo che sembra aver partorito un numero eccessivo di smemorati e di nanerottoli.

giovedì 31 maggio 2012

Lo psicologo impazza e straparla nel dopo terremoto, si salvi chi può. Giorgio Israel

Debbo fare una confessione. Da anni occupo metà del tempo a battagliare contro lo scientismo, ma durante la trasmissione di “Porta a Porta” del 29 maggio dedicata al terremoto in Emilia ho sentito emergere un potente rigurgito di scientismo. Era un piacere voluttuoso ascoltare i sismologi, il geologo, l’ingegnere mentre producevano argomentazioni documentate e commenti tecnici che mostravano una consolidata competenza: tanto da far emergere un mai sopito sentimento di fiducia nei confronti dell’“oggettività scientifica”. Poi arriva lo psicologo con l’aria assertiva di chi erudisce un consesso di sprovveduti, e dice che è uno sproposito che gli adulti stiano insieme ai bambini nelle circostanze che seguono al terremoto: i bambini assorbono ansie e paure degli adulti, e quindi è bene che stiano tra loro. Ma sì – ci siamo detti – non è un’idea sbagliata: le famiglie scendono nelle tendopoli, gli adulti comunicano tra di loro preoccupazione, spavento e discutono su come affrontare il futuro, mentre i bambini vengono spediti a scorrazzare e a giocare assieme tra le tende per ritrovare un po’ di spensieratezza. Che idea primitiva!

L’esperto spiega che, per gestire i bambini ci vogliono gli adulti adatti: occorre raccoglierli a gruppi, anzi costituirli in “kinderheim” sotto la guida di uno psicologo. E va bene – ci siamo ancora detti – viviamo nella postmodernità, queste cose non si gestiscono come ai tempi di Checco e Nina quando non esistevano neanche le scuole dell’infanzia. Ben venga lo psicologo che guida le “kinderheim” dei bambini mentre gli adulti, tra di loro, condividono preoccupazione e spavento e progettano il futuro… Eh no! Secondo errore! Lasciare gli adulti a “elaborare” da soli? Ci mancherebbe altro! ha proclamato stentoreo l’esperto. Sarebbe un atto irresponsabile, non ne sono capaci, finirebbero allo sbando. Anche per loro ci vogliono psicologi che li ripartiscano in gruppi, li prendano sotto tutela e gestiscano l’“elaborazione” della loro tragedia. Forse non si ricorda che quando gli italiani, alla fine della Seconda guerra mondiale, si aggiravano tra le rovine dei bombardamenti erano ripartiti a gruppi di trenta guidati da uno psicologo, e per questo trovarono la forza di ricostruire il paese e poi avviare il miracolo economico. Anche la ricostruzione dopo il terremoto del Friuli è stata portentosa perché è stata guidata passo passo da squadre di psicologi.

Ci si chiede se gli psicologi non stiano esagerando: sia detto nell’interesse dell’immagine della categoria. In fin dei conti, non capita ancora che un architetto ti entri in casa d’autorità prescrivendoti come arredarla per il tuo bene psico-fisico, un meccanico ti fermi l’auto con la paletta per controllare il carburatore e neppure un medico ti blocchi mentre cammini per strada per misurarti la pressione; e tu non ti possa rifiutare altrimenti sei un irresponsabile. Invece pare che non si abbia più neppure il diritto di scendere in strada assieme ai vicini di casa noti da trent’anni senza che venga un “esperto” a irreggimentare in gruppi per gestire l’“elaborazione”. Lo psicologo è prescritto d’autorità, non ci si rivolge a lui se si decide di farlo. Abbiamo uno psicologo per ogni azienda e ufficio; ne abbiamo uno per ogni scuola, presto ne avremo uno per classe. Si è approvata una legge per i disturbi di apprendimento per cui le diagnosi dei bambini “disturbati” o “agitati” sono salite da una stima iniziale del 3 per cento al 5 e poi, via via, fino a punte del 15 per cento, tanto che sale la preoccupazione anche in chi ha voluto la legge. Non c’è ambito giudiziario in cui non intervenga lo psicologo (talora con effetti ben esemplificati dalla vicenda di Rignano Flaminio). A quando una legge che imponga lo psicologo di condominio? E una legge che imponga l’intervento dello psicologo, assieme alla polizia stradale, anche per un tamponamento d’auto?

Occorrerebbe anche studiare la figura dello “psicologo di strada” che si aggirerebbe in incognito, con gli occhiali scuri e la barba finta, per studiare i comportamenti della gente e fare rapporto. Ripensandoci, quello provato durante la visione di Porta a Porta non era un rigurgito di scientismo. Perché è difficile pensare a uno scientismo più estremista e pervasivo di questo, condito da un dirigismo che farebbe morire di invidia gli psicologi e i pedagogisti sovietici di ottant’anni fa. Al confronto, lo scientismo del sismologo o dell’ingegnere (ammesso che siano scientisti) è roba da poveri untorelli.

Leggi La paura di Annalena Benini - Leggi Nella terra ferita dei capannoni, dove il lavoro ora è il primo pensiero di Giulia Pompili - Leggi Il terremoto in Emilia? Colpa degli americani. Ecco il peggio del complottismo

domenica 27 maggio 2012

Diritto e Vaticano. Davide Giacalone

E’ ingenuo credere che il Vaticano possa essere condotto attenendosi scrupolosamente ai canoni della trasparenza, che, del resto, non guidano la vita di nessun Paese. Ma è ingenuo anche credere che il mescolarsi di opacità e assenza di diritto costituisca solo la coriacea lega con cui corazzarsi, laddove da quella miscela discende anche una pericolosa fragilità. Gli stati democratici trovano forza nel diritto, anche quando quello si ritorce contro i loro governanti. Gli stati dispotici trovano forza nel chiudersi all’esterno e nell’opprimere all’interno. Il Vaticano non rientra in nessuno di questi due mondi, vivendo la dilaniante crisi di una monarchia assoluta ove il potere del monarca è messo in dubbio dai suoi pochi sudditi. Né si salva per il suo essere teocrazia, laddove alcuni dei crimini celati e protetti gridano vendetta al cospetto del cielo. La sorte di un maggiordomo sarà rivelatrice.

Che sia in lui l’unica falla e l’unico colpevole è cosa che neanche la più asfittica fantasia di un pessimo giallista può credere. Paolo Gabriele, questo il suo nome, oltre tutto, può forse essere responsabile d’avere trafugato qualche carta, non certo di avere ordito la trama di un conflitto che ruota attorno alla banca vaticana, l’Istituto Opere Religiose, la cui storia non brilla per l’esclusivo impegno nelle spese pie. In uno Stato e in condizioni normali si potrebbe dire: attendiamo che la giustizia faccia il suo corso. Qui la cosa è più difficile.

Le autorità vaticane sono corse a comunicare che l’accusato, se verrà condotto a processo, avrà tre gradi di giudizio, come in Italia. Ma posto che l’Italia è patria del diritto e dimora della malagiustizia, c’è da osservare che credere eguali, o anche appena simili, i due sistemi, solo per la triplicità del giudizio, è errore madornale. Essendo il Vaticano uno Stato assoluto l’interesse cui il suo diritto risponde è quello dello Stato stesso, non quello dei cittadini. La Corte d’appello sarà presieduta da Josè Maria Serrano Ruiz, cardinale, sicché dovrà vedersi se, in quel frangente, il suo dovere di servizio alla chiesa s’incarnerà più nel rendere giustizia o nell’uso della giustizia. Cardinale, Raymond Leo Burke, è anche il presidente della cassazione. Può considerarsi normale, visto che siamo in Vaticano, ma non lo è supporre che il giudizio di organi così
composti non sarà guidato dall’interesse che rappresentano.

Si tenga presente, del resto, che proprio nel gennaio scorso, aprendo l’anno giudiziario vaticano, il “promotore di giustizia”, vale a dire una specie di procuratore generale, Nicola Picardi, osservava che: “con le recentissime normative di Benedetto XVI (…) lo Stato Vaticano si è andato progressivamente «autolimitando», sottoponendo, cioè, se stesso al proprio diritto ed oggi finisce così per trasformarsi da Stato apparato a Stato di diritto”. Sicché entro le mura sanno benissimo che lo Stato di diritto, ove mai sia nato, è allo stadio dei vagiti. Né stupisce, visto che lo stesso Picardi, aprendo l’anno giudiziario del 2009, lamentava l’assenza anche solo di un codice civile o penale stampati nero su bianco, laddove, per leggerne il contenuto, doveva farsi un lavoro di ricostruzione tutt’altro che facile. Non esiste uno Stato di diritto le cui leggi non sono accessibili.

Dalla nostra memoria non s’è cancellata la storia delle guardie svizzere, trovate uccise nel 1998: allora la cosa si risolse incolpando un’altra guardia, che provvide a suicidarsi. Un epilogo che, in quanto a fantasia del giallista, concorre con il colpevole incarnato dal maggiordomo.

Tutto questo crea due problemi, uno minore, ma immediato, l’altro più generale. Il primo è: l’Italia ha nulla da dire? La sorte del cittadino Gabriele, che rischia trenta anni di carcere, non può esserci del tutto indifferente. La sovranità territoriale vaticana è presidio della libertà nell’opera di fede, non dell’arbitrio nel diritto. Sarebbe bene che lo Stato italiano chiedesse d’essere presente in tutti i passaggi di quel procedimento, con un proprio collegio d’osservatori. Anche perché, se il maggiordomo fosse colpevole egli sarebbe concorrente con altri cittadini italiani, che non credo consegneremo mai ad uno Stato assoluto. Il secondo è: in questo doloroso passaggio il Vaticano trovi la forza di non offrire il destro a dietrologi e tramisti, scoprendo che aprirsi è un po’ salvarsi. Per scrivere la propria legge fondamentale, datata 7 giugno 1929 (anno difficile assai), il Vaticano chiamò Federico Cammeo, giurista ed ebreo (la moglie morì in un campo di concentramento). Allora trovarono il coraggio, che mancò subito dopo.

giovedì 17 maggio 2012

Modelli. Jena


"Qualcosa sta cambiando, la svolta è a portata di mano". Monti, il modello ideale per tutte le mezze stagioni. (la Stampa)

mercoledì 16 maggio 2012

Imbrogli mafiosi. Davide Giacalone

Al governo Berlusconi non verrà assegnato alcun premio per la lotta alla mafia. Intanto perché non esiste e poi perché riconoscere che fu quel governo, quattro lustri dopo, ad approntare gli strumenti che Giovanni Falcone chiese nel 1991, destinati a colpire i mafiosi nella parte più sensibile del loro disonore, vale a dire nei piccioli, significa bestemmiare nel tempio dell’antimafiologicamente corretto. Da troppo tempo la verità storica e la rappresentazione giudiziaria vanno in direzioni diverse, mentre in tema di mafia si son visti numeri da baraccone: dai nemici di Falcone e Borsellino che se ne proclamano eredi, a quanti s’infastidivano quando scrivevamo che il processo e le condanne al processo per la morte di Paolo Borsellino erano una farsa, salvo poi gioire per il trionfo della giustizia quando in quei verdetti si sono dimostrati rozze manipolazioni.
I ciarlieri dell’antimafia non ci fanno mai mancare le loro verità, oramai rilasciando interviste e tenendo interventi per ogni dove. Sono certo che la grande maggioranza dei cittadini non riesce a distinguere una tesi dall’altra, sicché sintetizzo la ragione di tanto attivismo editoriale e di tanto livore nelle contrapposizioni personali: la carriera. Questi magistrati si sono convinti d’essere divi e si sono autosuggestionati al punto di credere di potere osare la qualunque. Ci sono nomine da ottenere, carriere politiche da promuovere, chiamate alla salvezza patria cui rispondere. Mi rincresce osservarlo in modo ruvido, ma nessuno di loro ha lo spessore di una mezza tacca. Hanno il palcoscenico, però, e s’esibiscono.

Siccome ci avviciniamo all’apice dell’orgia retorica, con l’imminente ricorrere di un ventennio dalla morte di Falcone e Borsellino, e siccome nessun cittadino normale può più capirci nulla e ricordare tutto, magari ciascuno sperando che almeno uno di quegli attori sia qualche cosa di simile a un vero combattente contro la mafia, desidero fornire due stelle fisse, in modo da orientarsi fra i marosi delle bugie e delle mistificazioni. Due temi sui quali misurare la serietà di chi parla.

1. Non credete a nessuno che vi parli di Falcone e Borsellino senza partire dal fatto che furono sconfitti dalla magistratura, non dalla mafia, e senza avvertire che dedicarono l’ultima parte della loro vita ad un’inchiesta, denominata “mafia-appalti”, che immediatamente dopo la loro morte fu archiviata. Non credete a nessuno che vi racconti di verità nascoste senza partire da quella più evidente e scoperta, quindi la più negata e inquinata: la procura di Palermo si mosse contro il disegno investigativo di Falcone e Borsellino, approfittando della loro morte per prevalere in via definitiva.

2. Non credete a quelli che vi lasciano credere che ci sono retroscena inconoscibili e cose indicibili, nel capitolo della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Fornisco i nomi e i cognomi, così vi regolate: chi vi parlerà della trattativa per togliere il carcere duro, vale a dire disapplicare il 41 bis del regolamento carcerario, senza dirvi che a proporlo fu Adalberto Capriotti, dirigente del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), in quel posto voluto da Oscar Luigi Scalfaro, allora presidente della Repubblica, che ricevette quell’indicazione da Cesare Curioni, capo dei cappellani carcerari, quindi dal Vaticano, e lo impose al governo presieduto da Carlo Azelio Ciampi, il quale ancora crede che sia vero il contrario di quel che fece, per essere il tutto sugellato dall’allora ministro della giustizia, Giovanni Conso, chiudendo la partita prima delle elezioni del 1994, quando, pertanto, Berlusconi ancora si occupava d’altro, chi vi parlerà tacendo questo è un volgare imbroglione.

Le storie di mafia sono complicate, ma le bugie dell’antimafia militante sono sfacciate. Invito tutti a onorare il ventennale senza nulla concedere alla retorica bugiarda di quattro carrieristi, ricordando che i due morti di venti anni fa non sarebbero finiti in quel modo se la mafia, e gli interessi economici a quella associati, non avessero potuto contare, con la loro scomparsa, di chiudere una stagione investigativa e processuale. Se la memoria non riparte da quel dolore, se nel riemergere non desta dolore, vuol dire che è solo melassa retorica e bugiarda. Inquinamento delle (evidenti) prove.

giovedì 10 maggio 2012

Le occhiaie di Monti

Voleva trasformare gli italiani, senza sapere che sarebbero stati gli italiani a estenuare lui

Ci siamo abituati quasi subito alla mania dei presidenti per la giovinezza: i ritocchi di Silvio Berlusconi, le palpebre alleggerite di Nicolas Sarkozy, i capelli molto neri di François Hollande, l’imbellimento continuo di Barack Obama, i muscoli di Vladimir Putin. Deve avere a che fare con l’ottimismo: bisogna mostrarsi sempre smaglianti, o comunque avvolti da una speciale brillantezza, talvolta un po’ ridicola, che provi la superiore capacità anche fisica di reggere giornate infinite e grosse decisioni con grosse conseguenze senza borse sotto gli occhi. A Mario Monti, invece, ora la fatica si legge in faccia: in questi mesi di governo qualcosa è cambiato, e la parodia fondata sul robotismo dispotico del premier-preside, incantatorio e identico a qualunque ora del giorno e della notte (con le conferenze stampa sempre in seconda serata, quasi senza sbattere le ciglia, senza sbagliare una sillaba e senza perdere l’occasione di riprendere gli errori dei suoi ministri) è superata. Bisogna guardare le ultime apparizioni di Mario Monti per notare il cedimento al periodaccio, una diversa postura, un nuovo (più stanco) modo di difendere le posizioni del governo, di rinunciare alle battute secche e cattive.

Mentre il presidente del Consiglio spiegava sommessamente, seduto alla Commissione europea che alcune “conseguenze umane” non sono imputabili a chi sta cercando di fare uscire l’economia da questa crisi ma a chi questa crisi ha provocato (tutti hanno pensato ai suicidi, anche se Monti ha precisato che non intendeva affatto i suicidi, e subito si scatenava la guerra orribile delle accuse sui suicidi), era già un’altra persona, con gli occhi più infossati dietro gli occhiali, le pieghe intorno alla bocca più profonde: se non fosse una parola inutilizzabile e offensiva bisognerebbe dire che era più anziano. Invecchiato dalle responsabilità, diverse da quelle di un professore con il gusto per la bocciatura, logorato dalle necessità di smentire, precisare, difendersi dai falchi, guardarsi da chi sogna segretamente di liberarsi più in fretta di lui, ora che le elezioni amministrative hanno offerto nuove speranze.

Mario Monti porta in faccia il segno delle difficoltà, del caos che gli sta intorno, dei giornali che la mattina non gonfiano più, compatti, la sua autostima. Quando disse al Time che voleva “trasformare gli italiani” non sapeva che gli italiani molto più facilmente avrebbero trasformato lui. L’avrebbero stremato, almeno. Monti non è più il robot di Crozza, non è più un preside sentenzioso, è anche un po’ meno Margaret Thatcher nelle movenze (e non corre il rischio di cominciare a correre sul tapis roulant, ma questo dall’inizio). Quando disse “se il paese non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro potremmo anche non restare” era nel pieno dell’entusiasmo, della convinzione di fare le cose giuste ed esprimeva un senso sincero di superiorità. Adesso che l’umanizzazione è completata, forse è meno rasserenante ma più credibile l’immagine di un uomo preoccupato, provato dal compito che gli è stato affidato, segnato dalle cose che accadono e che fanno continuo riferimento alle sue decisioni. Se è vera la frase che l’ipercinetico, instancabile, caricato a molla Nicolas Sarkozy avrebbe pronunciato fra intimi, quella sul sottile piacere di lasciare tutte le grane a un altro e di rituffarsi nella vita vera, ci si chiede come possano, gli altri euforici potentissimi, avere anche la forza di stare tutto quel tempo davanti allo specchio a coprirsi le occhiaie.

mercoledì 9 maggio 2012

Grillo se la ride. I partiti piangono. Mario Sechi

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Il Tempo - La sveglia ai partiti è suonata ieri quando i risultati delle elezioni sono apparsi chiari: il Pdl crolla, il Pd non sta tanto bene, il Terzo Polo è un ectoplasma e il vero vincitore delle amministrative è Beppe Grillo, un comico. Il Movimento 5 Stelle entra nel supermarket della politica e costituisce - piaccia o meno - un’offerta nuova in uno scaffale che agli elettori appare povero di idee. Chiamarla antipolitica, a questo punto, è un errore. Partecipa alle elezioni, elegge i suoi rappresentanti, si sta radicando e istituzionalizzando.

 Durerà? La storia italiana è piena di fenomeni effimeri - primo fra tutti L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini - ma ho la sensazione che M5 sia qualcosa di diverso: parte dal basso, è pop, è web, è altamente distruttivo per tutto ciò che abita ora il Parlamento.

Quello che hanno i grillini manca agli altri: il lanciafiamme. Sintesi: Grillo se la ride, i partiti piangono. Il Pdl è in una crisi profonda. Paga il dazio del passo indietro di Berlusconi, la rottura dell’alleanza con la Lega e l’appoggio al governo Monti che in maniera crescente i suoi elettori percepiscono come il «nemico» a Palazzo Chigi. Il Pd se la cava un po’ meglio, ma con il pericolo dei grillini in avanzata e un’alleanza con Di Pietro e Vendola dai toni surreali. Basterà a salvarlo dallo tsunami? Ne dubito. Siamo all’inizio della polverizzazione del quadro politico, con partiti destinati a diventare sempre più piccoli. Uno scenario in marcia verso quello di Atene, dove l’ingovernabilità è dietro l’angolo. Anche in Italia, come in Francia e in Grecia, ha votato la crisi. Ma mentre a Parigi il sistema presidenziale ha salvato la baracca e ad Atene è il caos, da noi è il limbo. Un’incertezza che ha fatto boccone anche del governo Monti. Mentre l’Europa «fasciocomunista» brucia, l’Italia è tragicomicamente a bagnomaria.

mercoledì 2 maggio 2012

Le irregolarità "fisiologiche" del Concertone del 1° maggio. Alma Pantaleo


Della serie: predicano bene e razzolano male. Si sono spenti poche ore fa i riflettori di un palco, quello del ‘concertone’ del 1°maggio, che ha riunito in piazza San Giovanni a Roma – a detta degli organizzatori – 500 mila persone. Come solitamente avviene ogni anno, tra artisti illustri, pogo, musica e vinello a volontà un must del concerto che celebra la Festa dei lavoratori sono gli appelli e gli slogan. Manco a dirlo, l’edizione 2012 ha avuto come temi centrali crisi, disoccupazione e morti bianche.

Niente di nuovo, considerando la natura dell’evento. Ma tra un Caparezza che rivolge il suo pensiero “agli operai sulla torre” – quelli arroccati da mesi per protesta sulla torre della stazione centrale di Milano – e a quelli che “lottano ogni giorno”, il minuto di silenzio della piazza per ricordare le persone morte sul lavoro, e una Susanna Camusso che tra un’esibizione e l’altra dichiara: Ogni occasione va sfruttata per mettere al centro i temi del lavoro. E questo pubblico di giovani è attento alle questioni del lavoro e ai problemi del paese”, c’è una nota che stona.

Il perché è presto detto. E siamo sicuri che a tutti voi che avete partecipato al ‘concertone’ strideranno le orecchie, e non per le casse a palla. Giovedì scorso un blitz dei carabinieri al cantiere del palco ha fatto venire a galla una sfilza di irregolarità da parte delle ditte che organizzano lo spettacolo: otto prescrizioni penali per mancata osservanza delle misure di tutela della sicurezza dei lavoratori, multe per 10mila euro per rapporti di lavoro irregolari, e – udite, udite – altri 43mila euro di multa sempre per infrazioni in materia di tutele sul posto di lavoro e la denuncia di sei rappresentanti delle aziende. Una roba che farebbe cascare la folta chioma riccia a Caparezza.

Ma oltre alle cifre, a sconvolgere è stata pure la giustificazione che l'organizzazione del Concerto, promosso da Cgil, Cisl e Uil ha dato: “Le irregolarità sono da considerarsi fisiologiche per un cantiere di tali dimensioni”. Fisiologiche?! Ma roba da matti. Proprio loro che glorificano la festa di tutti i lavoratori scadono in contratti irregolari, violazioni della sicurezza sul lavoro, e - come nel caso di un imprenditore di Viareggio che si è beccato una multa di 3mila euro più sospensione (temporanea) dell’attività – nell'impiego in nero di operai addetti al montaggio del palco per la festa del 1° maggio.

A ‘concertone’ finito tiriamo tutti un sospiro di sollievo, visto che è filato tutto liscio. Ma ci chiediamo cosa sarebbe successo, alla luce di quanto emerso dopo i controlli, se si fosse ripetuto quanto già successo recentemente a quei due operai morti mentre stavano allestendo i palchi per i concerti di Jovanotti e Laura Pausini… (l'Occidentale)

lunedì 30 aprile 2012

Maddalena dava a Cesare. Davide Giacalone

Concetti come “notizia di reato” e “obbligatorietà dell’azione penale” valgono solo quando sconfinferano ai signori della procura, altrimenti possono tranquillamente essere considerati al pari della spazzatura. Quella che segue non è la solita (mia) tiritera garantista, ma la denuncia di un reato. Grave. Sebbene resti da stabilire se a commetterlo sia stato Marcello Maddalena o Cesare Romiti.
Leggendo il libro-intervista di Romiti, incalzato da Paolo Madron, Filippo Facci aveva trovato una perla: l’ex capo della Fiat ricorda che quando pubblicò un articolo, sul Corriere della Sera, destinato a sollecitare gli imprenditori a recarsi presso la procura di Milano e confessare, non lo fece spontaneamente, ma su richiesta di Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Escluso che fra i compiti d’ufficio dei procuratori ci sia quello d’indurre i cittadini a scrivere quale che sia cosa, posto che Romiti ha il pudore di non dirlo esplicitamente, ma fu in quel senso costretto, resta il fatto che quel ricordo è rivelatore, benché non sorprendente.

Ho trovato un’altra perla. Questa volta è nera. Secondo quanto racconta Romiti il procuratore di Torino, Marcello Maddalena, in quei giorni caldi in cui le inchieste producevano arresti di massa e qualche suicidio, chiamò il responsabile dell’ufficio legale della Fiat, Ezio Gandini, e gli disse (virgolettato nel libro, quindi frase testuale): “Basta, non si può più andare avanti così, bisogna che le lotte interne finiscano, perché qui ogni giorno arrivano soffiate anonime da parte di alcuni manager interni alla Fiat”. Strane queste soffiate anonime, che vengono da manager. Perché non impiegati, debitori, mitomani? Come faceva Maddalena a sapere che erano manager? Ecco la risposta: Gandini gli chiese da che ambiente arrivavano e lui, serafico, lo informò che i mittenti erano riconducibili all’entourage di Umberto Agnelli. Il che vuol dire, in buona sostanza, che non erano anonime manco per niente.

In tutti questi anni, quando ci lamentavamo d’indagini nate dalle chiacchiere e alimentate con anni d’intercettazioni e spese inutili, ci rispondevano: la procura deve cercare ovunque le notizie di reato, è la legge che impone di non trascurare alcun dettaglio. Bene. Quando rilevavamo o l’accanimento su certi soggetti, o la insensatezza di certe accuse ci rispondevano: la legge impone l’obbligatorietà dell’azione penale, il procuratore non sceglie quali indagini fare, non è lui a decidere chi indagare e chi no, ma si limita ad attenersi alla legge. E va bene. Difatti sono favorevole alla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che è una gran presa in giro. Come anche questi ricordi confermano, perché, di grazia, in quale articolo del codice è previsto che il procuratore chiami il capo dell’ufficio legale dell’azienda sulla quale dovrebbe indagare, chiedendogli di mettere il bavaglio e legare le mani a quei quattro sciamannati di suoi dipendenti che continuano a spedirgli denunce, mettendolo nel grave imbarazzo di dovere dare loro corso? Non c’è, nel codice. Non c’è da nessuna parte.

Se così stanno le cose, però, ci sono due conseguenze: a. Maddalena commise un reato, violando i doveri d’ufficio e informando la parte indagata, addirittura suggerendo un preventivo inquinamento delle prove (che è una delle sole tre ragioni per cui si può mettere in galera un cittadino ancora innocente, vale anche per la procura?); b. la notizia di tale reato è contenuta nel libro e nelle parole di Romiti e, per maggiore sicurezza, qui messa in evidenza. Prego, si proceda.

Naturalmente è possibilissimo che il reato lo abbia commesso Romiti, distorcendo le parole di Maddalena e diffamandolo. Il signor procuratore sa cosa deve fare, in questo caso. Confesso, però, di essere un po’ prevenuto, e avendo letto un meraviglioso libro di Maddalena, nel quale si descriveva con estasi mistica l’arresto degli innocenti e si strologava di processi fatti fuori dai tribunali, so che ha una visione molto personale della legge. Raramente collimante con il diritto. Sicché, fra i due, tendo a credere a Romiti. Ma è solo un problema di gusti e d’estetica, sebbene sia pronto a risponderne ovunque me ne sia chiesto conto.

giovedì 26 aprile 2012

Casa (senza) famiglia. Davide Giacalone

Le vie del fisco sono infinite, ma infide. Si discute da anni, in un Paese che ama i problemi per poterne discettare, escludendo di risolverli prima che cessino d’essere di moda, se riconoscere o meno le coppie di fatto, siano esse mono o multisessuali. Dibattito acceso e ozioso. Alla fine, però, si tassano le famiglie e si agevolano le coppie di non sposati. Accade con l’Imu, ove l’agevolazione prima casa, in una famiglia di moglie, marito e figli, è riconosciuta per una sola abitazione, quindi non solo sale la tassazione, ma si restringe l’esenzione. Se quei due non avessero avuto l’infelice idea di sposarsi potrebbero contare su due detrazioni. Una situazione illogica, che ribalta non solo il dettato costituzionale, ma anche il buon senso.

Da laico, non ho una visione sacrale del matrimonio. Da persona ragionevole so che è socialmente utile agevolare la vita di quanti mettono su famiglia e figli al mondo. Capisco il fascino di far lavorare solo gli extracomunitari e la libidine di prendere all’estero anche i governanti, ma avverto che questa specie di decadenza nobiliare equivale alla cancellazione dell’Italia. Da essere umano inadatto all’odio verso gli altri rispetto le scelte di ciascuno, né trovo alcunché da ridire per quanti, quali che siano il loro gusti sessuali, intendano convivere. Da cittadino che vive in uno stato di diritto, però, pretendo per i loro eventuali figli le stesse tutele che hanno quelli nati da un matrimonio, ma mi rifiuto di assegnare ai conviventi gli stessi privilegi che sono specifici dei coniugi, ove, si badi bene, questi comportino costi per terzi. Quindi: i conviventi si rechino pure in visita in ospedali e carceri (che idea disgraziata della vita!); si dia libertà al morituro di stabilire a chi vuole lasciare i propri beni; ma niente pensioni di reversibilità, tanto per fare un esempio. In sintesi: ciascuno faccia quel che vuole, ma a spese proprie, con tutela per i bambini e con agevolazioni per chi li fa nascere. Ecco, con l’Imu s’è fatto l’esatto contrario, sicché, dopo chiacchiere interminabili, s’è buscato ponente per i levante. Non per scoprire nuove terre, ma per mettere nuove tasse sulla famiglia, da cui le non famiglie sono esentate.

Vorrei sapere cosa ne pensano quegli ipocriti perdigiorno che da decenni ci fanno una capa tanta per spiegare che la famiglia viene prima di tutto e che la famiglia legittima è solo quella del matrimonio, meglio se santificato e, quindi unico, poi, però, collezionano famiglie (ho visto che anche quelli di Comunione e Liberazione si separano, e se non fossi estraneo al ramo direi: non c’è più religione) e, all’occorrenza, votano a favore di chi discrimina negativamente le famiglie. Vorrei proprio sentirli.

Due osservazioni ulteriori. La prima: quei coniugi disgraziati potrebbero avere comprato la seconda casa, in attesa di lasciarla ai figli, proprio mettendo in conto l’agevolazione che la legge consentiva, ove si cambi regime, forse, sarebbe bene far salvo il passato. Lo abbiamo già visto a proposito dello scandaloso tema dell’“abuso di diritto”: pensare di punire chi s’è attenuto alla legge, ma lo ha fatto traendone un vantaggio, è abominevole. La seconda: a me sta bene spostare la pressione fiscale dai redditi ai patrimoni e ai consumi, ma “spostare” non è sinonimo di “sommare”, e se le tasse sulla casa crescono quelle sul reddito devono scendere. E senza fare i furbi, perché questa roba è stata promessa da anni (soprattutto dal centro destra, che ne porta la responsabilità), nel mentre crescevano tutti gli altri tributi.

Infine, è noto che i valori catastali sono spesso irreali, nel senso di troppo bassi, ma è anche vero che noi assistiamo al loro crescere, all’appesantirsi dell’aliquota e del conteggio, al diminuire delle agevolazioni, nel mentre scendono i valori commerciali degli immobili. Il tutto senza che calino neanche le tasse sulla compravendita, per cui è costoso tenere gli immobili, ma anche venderli (male). C’è un’espressione che sintetizza il concentrarsi sulle cifre smarrendo la razionalità: dare i numeri.

lunedì 23 aprile 2012

Caramelle. Gianluca Perricone

 
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Come noto ai più, Crema è in provincia di Cremona, in quella Lombardia che ci ha fin troppo abituato ad azioni giudiziarie alquanto controverse. Meno noto, forse, è il fatto che in quel di Crema gli ambienti giudiziari siano impegnati a seguire un caso che davvero potrebbe finire su tutti i testi di diritto penale delle università italiane, anzi europee: il furto – datato agosto 2010, quasi due anni fa – di un pacchetto di caramelle dal valore (tenetevi forte!!!) ammontante a ben 1euro e 19centesimi. Roba da mettere in ginocchio la già malridotta economia nazionale. 
E – almeno a leggere la cronaca milanese di Repubblica – ad occuparsi della rilevante vicenda sono stati due giudici: insomma “roba grossa”, come scriverebbe Marco Travaglio.
La 24enne romena accusata di cotanto misfatto ha intanto fatto perdere le proprie tracce; insomma si è resa irreperibile ma, come è noto, la nostra giustizia è testarda (dimostrandosi, spesso, sprezzante anche del senso del ridicolo) e va avanti nel proprio corso.
Sempre la cronaca milanese del quotidiano diretto da Ezio Mauro ci ricorda che «la prima udienza risale al gennaio scorso. La successiva è stata celebrata con l'audizione dei due soli testimoni: la commessa del market e l'agente di pubblica sicurezza che formalizzò la denuncia a piede libero». Ad autunno prossimo si svolgerà anche la terza udienza dedicata alla discussione in aula. Alla quale dovrà partecipare anche il difensore d’ufficio della 24enne (il quale, candidamente, ha fatto sapere di non aver mai incontrato la sua cliente né di essere mai riuscito neppure a contattarla) ma non di certo la sua cliente che chissà da dove starà assistendo a questo “processo”. L’avvocato, del resto ha giustamente precisato che «il problema non è tanto il furto in sé, ma se valga la pena di spendere tante energie processuali per un danno da un euro e 19 centesimi. Trattandosi di un reato aggravato e quindi procedibile d'ufficio, però, non è neppure percorribile la via della remissione della querela, magari a seguito del risarcimento».
Verrebbe da chiedersi – e da domandare, soprattutto al Guardasigilli in carica – se sia mai possibile che un Paese possa andare avanti con questo tipo di sistema-giustizia, inteso sia come normative vigenti che come magistrati operanti.
Verrebbe (anzi, viene) spontaneo altresì chiedersi a quanto ammonti il costo di due giudici (che, forse, potevano essere impiegati a giudicare su casi più rilevanti) e quanto possa essere il denaro speso mettere in piedi tre udienze giudiziarie: di certo più di 1,19 euro. (Legno Storto)

giovedì 19 aprile 2012

Ultima chiamata per il Professore. Marcello Veneziani

Italiani, proviamo a metterci nei panni di Monti, anche se lui non si mette nei nostri. Lui ci colpisce selvaggiamente con rozze tasse e accise perché gli invocati tagli,dismissioni e liberalizzazioni non gli sono permessi dal Parlamento e dai partiti, ma anche dalle banche e dalle lobbies.
Mario Monti 
Capisco, però dico: ha un bel cervello, un bell'eloquio e un bel curriculum, se non ha le manopole e le valvole al posto del cuore e del fegato, perché non parla al Paese a reti unificate per dire chiaro e tondo: io vorrei fare questi tagli, abbattere questi costi politici, liberalizzare questi settori e dismettere questi comparti, e domani presento un progetto organico. Se me lo approvano in tempi rapidi e in modo integrale, vado avanti; altrimenti mi ritiro, ma sappiate a questo punto che non è colpa mia quel che succederà. Lo apprezzeremmo tutti, lo sosterremmo in tanti, anche se è tecnico. Una buona democrazia, a mio parere, funziona se un governo è legittimato dal popolo sovrano ma poi decide in piena autonomia e governa senza ricatti. Oggi invece, siamo al contrario: abbiamo un governo non legittimato dal voto ma non in grado di decidere nulla di sostanziale, perché i partiti e le altre caste hanno potere senza avere responsabilità. Col risultato che può accanirsi col popolo sovrano, tassando casa, lavoro e trasporti, ma non con i principali responsabili dello sfascio. Perciò dico: occorre un atto di forza, una svolta netta che metta tutti davanti alle proprie responsabilità: dentro o fuori, salvezza o baratro. Coraggio, Presidente, alle armi. (il Giornale)