giovedì 13 settembre 2007

Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra. il Domenicale

Note a margine del dibattito sugli intellettuali liberali indecisi tra Berlusconi e Veltroni. Aveva ragione Giorgio Gaber quando sfotteva i pensatori engagé e le loro pretese tassonomiche. L’unico distinguo che vale è tra chi è libero e chi no. In ogni caso l’intellettuale, organico o frondista che sia, meglio ancora se autorevole, serve ai partiti perché genera consenso. Cosa da capire anche nel Centrodestra.

Gli intellettuali non servono per vincere le elezioni. Ma per rivincerle, sì. Anche nel Centrodestra

La domanda più giusta è: servono o non servono gli intellettuali al Centrodestra? Meno importante è sapere perché il Centrodestra non è riuscito a catalizzare pensatori e uomini di cultura. Meno importante sapere perché gli intellettuali italiani amano schierarsi a sinistra e anche quelli liberali disdegnano il Centrodestra.
Su questi ultimi quesiti, dopo anni di dibattito, più o meno sono tutti d’accordo. La questione è chiusa, nonostante alcuni autorevoli intellettuali liberali come Piero Ostellino ed Ernesto Galli della Loggia ripetano per accademia – e forse per un ultimo barlume di speranza nei confronti della parte a cui comunque culturalmente appartengono – le loro circostanziate analisi su Forza Italia partito di plastica e sulla Destra incapace di conquistare menti e cuori degli intellettuali.

Vale comunque la pena riassumere brevemente i punti fermi. Nella sua fase iniziale, la Casa delle Libertà è riuscita ad attrarre numerosi intellettuali, perfino da sinistra, offrendo loro laticlavi e posizioni di comando. Ma il primo governo Berlusconi è durato troppo poco per modificare gli assetti sedimentati da cinquant’anni in un mondo culturale sempre più asfittico. Il secondo governo Berlusconi per una serie di errori strategici e per una quasi inconcepibile sudditanza al pensiero di sinistra non è stato in grado di portare a termine la cosiddetta rivoluzione liberale proprio nei settori chiave della cultura e dell’informazione. è inutile continuare con le recriminazioni: le sviste, le scelte di uomini sbagliati nei posti che contavano, una certa disattenzione verso il “culturame”, hanno impedito che l’azione di governo godesse del meritato consenso, o fruisse di ulteriori spinte ideali.

Nonostante i chiari di luna, siamo però convinti che la classe politica di Centrodestra abbia maturato una sufficiente consapevolezza degli sbagli fatti e si stia attrezzando per farne meno.
Va detto che la tesi di un Centrodestra incapace di utilizzare la cultura meriti alcune precisazioni. Alleanza Nazionale, essendo l’evoluzione della vecchia destra post fascista per anni esclusa dai governi e quindi costretta a battagliare sul piano delle idee, porta con sé un forte retaggio culturale, per certi versi addirittura confliggente nella sua variegata molteplicità. La Lega è nata come partito dell’antipolitica e del fare ed è quindi scevra, quasi per statuto, da velleità intellettuali che anzi sono sempre state apertamente criticate. Forza Italia e l’Udc, tutto sommato, incarnano quel blocco liberal popolare, rappresentato per un quarantennio dalla Dc che, dopo aver sopportato le mene dell’intellettualità fascista, guardava con sospetto quella comunista, in apparenza accettandola e sottomettendovi, punendola però nel segreto dell’urna. C’è da ricordare che la Dc beneficiava comunque di un retroterra culturale millenario, quello della tradizione cattolica, assurto a senso comune. I pochi intellettuali liberali italiani hanno invece sempre militato in partiti nicchia o d’élite, stando a destra in quello Liberale o a sinistra in quello Radicale, disdegnando di confrontarsi con i reali problemi del consenso politico.

A partire dalla Resistenza
Ovviamente questa breve analisi andrebbe contestualizzata in uno scenario più vasto che è quello dell’egemonia culturale di sinistra, incentrata dal punto di vista storico su una lettura ideologica della Resistenza comunista come valore fondante della nostra Repubblica. Un valore che nei decenni è stato assunto come pietra angolare attraverso il quale misurare la democraticità delle idee e il loro poter accomodarsi in un giusto consesso democratico.
Superfluo invece ripetere come e perché una pletora di intellettuali, passati direttamente dal fascismo al comunismo, coccolati dalla sinistra abbia ripagato e ripaghi anche oggi in termini di consenso pubblico il proprio padrone. Ed è inutile ripetere la lezioncina sul progetto gramsciano, adottato nel Dopoguerra da Togliatti, dell’importanza della cultura per giungere al potere in una democrazia matura, nell’impossibilità di una vera rivoluzione armata.

Questione di leadership
Torniamo alla domanda cruciale: servono o non servono gli intellettuali al Centrodestra? Per vincere le elezioni, no. Con buona pace di Galli della Loggia e Ostellino, di Piero Melograni o di Antonio Martino, che hanno animato il dibattito sul Corriere delle Sera, Berlusconi è stato in grado di vincere le elezioni due volte prescindendo dall’apporto degli intellettuali e per certi versi anche dei media, compresi quelli della maison. Anzi, si è quasi giovato dell’acredine che il mondo intellettuale engagé gli ha riservato. L’elettore italiano, checché se ne dica, è abbastanza maturo per decidere prescindendo dai diktat dell’intellighenzia nostrana che ha sempre brillato per prona sudditanza alle ideologie aberranti del Novecento.
In questo senso può essere spiegato il disinteresse del Centrodestra nei confronti della cultura e del mondo degli intellettuali, spesso ritenuti inutili filtri al dispiegarsi di una leadership moderna e diretta, bisognosa di operare in campi più tecnici, come l’economia, la finanza, la gestione della cosa pubblica.

Fondamentali per il consenso
Epperò gli intellettuali servono per rivincere le elezioni. Cioè servono a produrre e mantenere un consenso imprescindibile quando si vogliono operare trasformazioni di grande impatto, quali quelle programmate dal Centrodestra e icasticamente riassunte nella formula “rivoluzione liberale”. L’esempio più eclatante fu durante il tentativo di abbassare le tasse operato da Giulio Tremonti: metà del Paese per semplice resistenza ideologica e viscerale attaccamento al pensiero statalista si schierò contro una riforma che in teoria avrebbe dovuto raccogliere il cento per cento dei consensi.
Stessa cosa accadde sul finire della legislatura, quando Berlusconi lamentò la difficoltà di dare visibilità alle riforme portate a compimento. Proprio in questo momento avrebbe fatto gioco poter contare sul consenso che naturalmente producono gli intellettuali, essendo una élite pur piccola che però a cascata, in virtù dei ruoli che occupa (giornali, televisioni, cinema, teatro, scuola, università...), è in grado di indirizzare il pensiero di molti e creare senso comune. Si pensi solo alla fandonia dell’impoverimento dell’Italia, i cui cittadini non ce la facevano più “a tirare la quarta settimana del mese”, artatamente sostenuta da tutti i media e poi archiviata appena diventato presidente del Consiglio Romano Prodi.

È quasi banale ricordare quanto della percezione del mondo che hanno i cittadini comuni giunga filtrata dai mezzi di informazione e dal lavorio degli addetti ai lavori: guarda caso, per la stragrande maggioranza schierati a sinistra. Gli intellettuali in senso lato (professori, scrittori, registi, cantanti, ma anche pubblicitari e comici...) sono i massimi responsabili dell’immaginario collettivo di un Paese, sono loro che determinano il senso di ottimismo o di pessimismo tra gli elettori, loro che contribuiscono a rendere positivo o negativo il giudizio sull’operato di un leader, loro che stabiliscono i paletti entro i quali si forma la cosiddetta opinione pubblica. Per questo motivo una forza politica al governo non può prescindere dagli intellettuali e dalle loro idee. Non può prescindere dal formare e mettere alla prova una propria classe culturale, comunque libera e autorevole. Non può prescindere dal ruolo dei media e delle persone che li dirigono, preferendo gli uomini liberi agli utili idioti, che al massimo tradiscono o risultano nocivi quando servono.

Impegnarsi per la polis
Se dunque la politica ha bisogno degli intellettuali, diverso è capire se gli intellettuali hanno il dovere di mettersi al servizio della politica. In questo senso, può avere ragione Ostellino quando difende il proprio ruolo di pensatore esterno al palazzo, riservandosi la possibilità «di contribuire a migliorare il panorama politico nazionale facendo semplicemente il suo mestiere». Gli esempi storici degli intellettuali organici ai partiti, o sottoposti ad essi, dimostra che l’impegno spesso conduce all’ideologia. E di persone schiave dell’ideologia e dei pregiudizi, incapaci di guardare il reale, di difendere la propria libertà, è pieno il mondo della cultura italiana.
Ma c’è anche il risvolto della medaglia: un intellettuale rischia di diventare arido se non si confronta con un popolo. Rischia di autocommiserarsi nell’angustia della propria torre se evita la politica, poiché il governo della polis è il più alto compito riservato all’intellettuale, e se non ci va lui ci andrà il politico politicante.

Angelo Crespi


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Le radici del consenso

Avesse ragione il signor G.? Lui, Giorgio Gaber da Milano, l’aveva detto, scritto e cantato che non gli piaceva certa politica ridotta a mode e stereotipi. La politica del minestrone: quella in cui tutto va bene purché si stia al governo.
Crediamo che il signor G., ci fosse ancora, riprenderebbe in mano la chitarra e attaccherebbe a gola spiegata quelle sue strofe agrodolci, davanti al panorama che si prospetta per la nuova stagione della politica italiana. Dove la sinistra, per difendersi da se stessa e dai suoi ingovernabili eccessi, si veltronizza in un Partito Democratico annunciato come «una moderna forza riformista maggioritaria», ovvero un corpo d’occupazione parlamentare in cui dovrebbero cospirare tutti coloro che sono interessati a uno status quo consociativo e immodificabile. Insomma, una nuova Balena: e nemmeno più Bianca, ben che vada grigia.

Proprio contro l’ingrigimento della democrazia italiana il signor G. cantava con melodiche parole di fuoco: «Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ ma io dico che la colpa è nostra/ è evidente che la gente è poco seria/ quando parla di sinistra o destra». Ovvero la politica degli stereotipi, dei luoghi comuni, delle convenienze travestite da princìpi. Lui, che di destra certo non era ma nemmeno si riconosceva in una sinistra del genere, attaccava l’ideologia degenerata a modo suo, come soltanto un menestrello disarmato ma intelligente riesce a fare: «Una bella minestrina è di destra/ il minestrone è sempre di sinistra/ tutti i films che fanno oggi son di destra/ se annoiano son di sinistra.../ Le scarpette da ginnastica o da tennis/ hanno ancora un gusto un po’ di destra/ ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate/ è da scemi più che di sinistra». Correva l’anno 2001 quando uscì Destra-Sinistra. In giro c’erano Prodi e D’Alema, mica Togliatti e Nenni. Era il penultimo album della sua vita: quello che Gaber intitolò, col titolo di un’altra canzone, La mia generazione ha perso.

L’attuale dibattito politico-culturale non gli dà torto. Sono settimane di strabismo politico, in cui la maggioranza che governa ha sdoppiato se stessa in un gioco di specchi che sarebbe risibile se non fosse inquietante: al premier reale che traballa s’è affiancato un premier virtuale che straparla, già sicuro di subentrare perché non potrà non vincere il simulacro di elezioni primarie che si sta allestendo per legittimarlo. Noi, visto che perfino il cantautore organico De Gregori storce il naso davanti a simili commediole, scommettiamo che il signor G. strimpellerebbe ancora, con quell’altra sua canzone estrema del 2003, che «io non mi sento italiano».
Ma prendiamola per un momento alla lettera, l’obiezione canticchiata dal signor G. Se la sinistra è un minestrone invadente che occupa tutti gli spazi, democratica riformista progressista ma anche liberale moderata e conservatrice, che spazio rimarrà mai alla destra? E, più precisamente, che spazio di riflessione, di idee, di proposte è possibile elaborare, oggi, in quell’area di riferimento che si è soliti definire “di destra”?

Il dibattito su intellettuali e centrodestra, che rifiorisce tenace sui giornali a ogni prima pioggia d’agosto, quest’anno è approdato a conclusioni perentorie e quasi paradossali. Dalle bocche di un Galli della Loggia, di un Ostellino, di un Severgnini (tutti tranquillamente insediati sulla tolda sedicente bipartisan del Corriere della Sera) viene l’opinione che oggi non sia possibile essere intellettuali, liberali e al contempo di destra. Il “berlusconismo” negherebbe questa possibilità per sottrazione d’aria. Berlusconi, dicono costoro, genera Brambille, non intellettuali. Gl’importa fare e dare spettacolo, non esportare idee e visioni del mondo.

A questo tipo d’obiezione viene da contro-obiettare che fosse anche vera, sarebbe tanto più inaccettabile che “intellettuali liberali” accettino di farsi da parte, e cioè che si pieghino a farsi dettare dalla politica spazi e tempi della loro stessa libertà di pensiero e di parola. Se, come dicono, non si sentono “di sinistra”, com’è possibile che non stiano dove sono sempre stati a parlare, discutere, obiettare? Almeno il signor G. le cantava chiare, quand’era disgustato, senza paura di farsi definire anarchico e senza dare a nessuno la possibilità d’intrupparlo.
Se la “sinistra” veltroniana si stinge e si mimetizza e vola basso per non urtare nessun potenziale elettore, è più necessario che mai che nella “destra” si esalti quel grande margine di autonomia intellettuale che è indispensabile a una politica davvero liberale. Perché, lo sappia e lo veda o no la politica, è il pensiero che orienta e ravviva e genera proposte utili alla vita civile: e non c’è alcun leader politico che possa farne a meno.

Giuseppe Romano

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Io sono un intellettuale!
Nel senso che avrei qualcosa da dire e da fare - e anche bene - nel mio campo.
Ma chi mi contatta?
Nessuno da sinistra, essendo noto che sono di destra;meno che mai da destra.
Escludo che non mi si contatti perché (come certamente pensa chi mi legge ) resto anonimo. L'anonimato è null'altro che il velo dietro cui nascondo la mia notorietà mentre adopero un mezzo di comunicazione che non è , o può non essere, riservato;le mie scarse competenze sull'uso di identità nascoste fanno, poi, il resto.
E' un bel problema, insomma.
Ci sono. Eccome! Epperò... non ci sono.
Sarà mica perchè sono una donna?
E per di più velata?
A proposito di veli.
Bisognerebbe dire alla Santanché che esistono altre tipologie di veli, non meno opprimenti di quello che indossano le donne musulmane: il velo con cui ti coprono gli altri e non per impedire sguardi indiscreti, ma, più vigliaccamente, per nascondere le tue potenzialità; il velo - è il mio - che si è costretti ad indossare perché non si è nelle condizioni di autoproporsi.
Rispetto all'uno, forse, quest'ultimo è il meno vile.
Insomma, vi è ben altro da discutere e la questione non è affatto chiusa.

maurom ha detto...

Bisogna uscire allo scoperto!
Bisogna avere qualcosa da dire e crederci!
Apri un blog, come ho fatto io.
Se hai qulcosa da dire e quello che dici non è aria fritta, avrai i tuoi lettori.
Iscriviti ad un partito, partecipa alle riunioni, fatti ascoltare e vedrai che, se le tue idee sono condivise, avrai il tuo spazio.

L'intellettuale di destra è merce rara, perché ragiona con la propria testa e non si lascia imbrancare: ma essere indipendente è anche la sua forza.

In bocca al lupo!

Anonimo ha detto...

Grazie. Lo farò. E Ti terrò informato.