mercoledì 8 dicembre 2010

I figli e la paura. Davide Giacalone

Già nelle nostre città i ragazzi non possono più giocare, stiamo attenti a non impedire loro anche di circolare. La cronaca restituisce fatti orribili, ma i genitori non cedano alla paura che porta alla clausura. I mezzi di comunicazione soffiano sul fuoco, alimentano il terrore, qualche volta lo scatenano mettendo in scena lo spettacolo truculento dell’accusa, magari per poi condannare quegli stessi istinti che s’industriano a vellicare. Ma ciascuno di noi si mantenga ragionevole, non ceda al chiasso, consideri che ogni giorno, in ogni parte d’Italia, prende corpo anche la normalità. Che nessuno racconta, o trova interessante.

Nelle città d’un tempo si scendeva liberamente in cortile a giocare, si andava in bicicletta per le strade, si potevano anche fare delle partite di pallone sull’asfalto, scansandosi al sopraggiungere delle macchine. Oggi è inimmaginabile ed è già tanto se si riesce a camminare, visto che i marciapiedi sono invasi da parcheggi di vetture e motorini. I nostri ragazzi li portiamo al tennis o al calcetto, a ginnastica o danza con le macchine, rendendo quasi impossibile l’autogestione del tempo libero. A meno che non sia quello della solitudine elettronica. L’urbanistica ha dimenticato i più giovani. Gli artefici del capolavoro s’atteggiano a pensatori dello spazio. Accanto a ciò, che da solo grida vendetta al cielo, si fanno sventolare gli stendardi della paura.

Capitò anche a noi. Nel 1969 fu rapito, a Viareggio, e dopo tre mesi trovato morto, il piccolo Ermanno Lavorini. Per settimane i “grandi” non parlarono d’altro e per noi “piccoli” scattarono i divieti. Poi passò, tornando la normalità. Avevamo sul collo le briglie lunghe e ancora non avevano inventato quelle senza fili (i telefoni cellulari). Anni dopo, frequentando Vincenzo Muccioli, conobbi la disperazione dei genitori cui i figli erano stati sottratti in maniera ancora più subdola, dalla droga. Erano e sono assai più numerosi, ma raramente fanno notizia. Da genitore ho cercato di non dimenticare i tempi in cui ero figlio. L’esperienza insegna, cose elementari e preziose.

Primo: sapere ascoltare. I genitori possono essere autorevoli anche da muti, ma non utili da sordi. Secondo: se non li conosciamo noi, i nostri figli, chi altro? Terzo: prima si riesce a consegnare responsabilità e meglio è. Non possiamo tenerli nella mano per la vita, quindi meglio affrettarsi a indicare le strisce, dare il buon esempio, insegnare a non fidarsi del proprio diritto. Vale per l’attraversamento della strada, come di tante altre difficoltà. Nessuno è mai restato lontano dalle cadute semplicemente non camminando. Anzi, quelli precipitano. Quarto: un genitore è un genitore, non un amico e compagno dei figli. Aggiungo una cosa che farà storcere la bocca: si veste da genitore, evitando la mutanda in vista per far concorrenza alla figlia e la policromia pacchiana per far vedere quanto si è ancora ragazzi. Patetici, in entrambe i casi. Quinto: i maestri e i professori non sono i nemici e noi non siamo i sindacalisti dei somari. Quando prendevo un brutto voto a scuola la cosa complicata era raccontarlo a casa, ora partono le delegazioni parentali per spiegare ai docenti che i ragazzo è fragile. Così lo riducono in poltiglia.

Sesto: non vanno protetti dal dolore, vanno aiutati ad affrontarlo. Vale la stessa cosa per il pericolo. Mi fermo qui, sia perché trovo ridicoli i decaloghi, sia perché non ho nulla da insegnare. Immagino che anche i miei genitori avevano paura quando mi allontanavo e pensavano, in cuor loro, che me ne sono andato da casa troppo presto (18 anni). Per mia fortuna non hanno fatto pagare a me i loro incubi. Spero lo stesso per i tanti ragazzi che debuttano al mondo.

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