giovedì 2 dicembre 2010

Permanenza pasoliniana. Davide Giacalone

La radice di certe rivolte studentesche è reazionaria, anche se crede d’essere rivoluzionaria. Vive d’ideologie un tanto al chilo, scimmiotta un comunismo mitologico, canta “Bella ciao”, ignorando tutto della guerra civile italiana. Pier Paolo Pasolini vide gli scontri di Valle Giulia, a Roma, il primo marzo del 1968, e non ebbe dubbi: stava dalla parte dei poliziotti. Che c’entra, ci si domanderà, con le cose dei nostri giorni. Assai più di quel che s’immagina.
Allora come oggi furono i docenti (anche in quel caso di architettura) a istigare gli studenti. Furono loro a organizzare i seminari dell’occupazione, loro ad opporsi alla scelta del rettore, che chiamò la polizia. Contro le forze dell’ordine si scatenò la battaglia in piazza. Ne fu protagonista la sinistra studentesca? Così vuole la leggenda, ma diversa è la realtà. A quegli scontri presero parte Stefano Delle Chiaie e i suoi camerati, fascisti dichiarati e violenti.

Pasolini utilizzò il linguaggio di quei tempi (nessuno sfugge al linguaggio dei propri tempi) e riconobbe nei poliziotti i figli dei “poveri”, mentre sul volto dei contestatori ritrovò i tratti “ricchi” delle loro famiglie. La differenza passava tra il lavoro come mezzo per soddisfare i bisogni primari, da una parte, e, dall’altra, la volontà di dominio, affrancatasi dai bisogni materiali. L’unità di misura era la classe, in un metro che non m’è mai piaciuto, non ho mai usato e che, ora, non s’usa più. L’intuizione pasolinina non è attuale (come si dice spesso delle cose che non si capiscono), è permanente.

Veniamo ai nostri giorni. L’università vissuta come mezzo di promozione personale e sociale, come strumento per aspirare ad una vita migliore e più ricca (perché l’aspetto economico è normale, naturale, non demoniaco), non può che essere selettiva e meritocratica. Vale per gli studenti, ma vale anche per i professori. Chi non è capace se ne vada, e i controlli siano reali, efficaci. Gli studi saranno impartiti e terminati dai migliori, in tal senso preparati ad affrontare le arti e le professioni. Contro questa visione del mondo si muove la vasta paccottiglia che pretende di celebrare le messe culturali, salvo collocarsi in fondo alle graduatorie mondiali della conoscenza. Contro la selezione ed il merito si muovono legioni di ricercatori e cattedratici, osannati da studenti cui la pappa è garantita in famiglia. A loro non interessa che l’università sia un ascensore sociale, perché già vivono ai piani alti. Anzi, è bene che l’ascensore si guasti e che la socializzazione avvenga nella crapula, non nel reddito.

A questo ceppo se ne accompagna e somma un altro, che crede d’essere idealistico ed è solo zotico. Suppone che la Cultura, quella vera e maiuscola, per essere libera e creativa debba essere incontaminata dalla realtà degli interessi, del mercato, del lavoro. Pensano che la cultura sia quella delle signorine d’un tempo, costrette a studiare pianoforte nel mentre sognavano d’essere violate dal garzone. Sicché danno vita a concetti farseschi: no alla presenza degli estranei, non alla privatizzazione dell’università. Tanquilli, ma chi volete che ve la compri? Perde quattrini a rotta di collo e produce pochi laureati, perché molti se ne vanno stufi d’essere presi in giro. L’odio verso la cultura del lavoro è l’altra faccia della medaglia di una genia adusa ad avere reddito senza cultura.

Siccome tutto questo produce una società che, da tre lustri, perde competitività, giustamente si scende in piazza per conservarla e tenersela stretta. Poi via tutti, all’happy hour.

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