venerdì 3 dicembre 2010

Suicidio della ragione. Davide Giacalone

Se la danza, macabra e grottesca, attorno alla bara del suicida Mario Monicelli avesse incontrato un osservatore altrettanto bravo e cinico quanto il morto, oggi si troverebbe ad essere cammeo dei nuovi mostri italiani, intontiti dal conformismo e tramortiti dall’omologazione.
Sono laico abbastanza da ritenere la vita faccenda di questo mondo. Ragionevole quanto basta per sapere che il suicidio è parte della vita e che l’omicidio per pietà, che chiamiamo “eutanasia”, si pratica nella penombra del dolore, più che sotto i riflettori della televisione. Da sempre. Sono umano appena il necessario per capire che un novantacinquenne che si butta dal balcone è un disperato, non un coraggioso. Sono stufo oltre il consentito di un’Italia ove la scomparsa delle ideologie comporta l’ideologizzazione di tutto, anche della morte. Sicché non mi trattengo dal dire che un suicidio come quello di Monicelli non si commenta, lo si osserva come fatto compiuto, e se si apre bocca per far uscire il profluvio di sciocchezze che ho sentito, allora non si conti sul cordoglio per garantirsi l’omertà.

Gente come Ettore Scola o Paolo Villaggio hanno voluto rendere omaggio al “coraggio”. Quale coraggio? Monicelli ha vissuto una vita bellissima e straordinaria, dedita a un’arte che gli ha guadagnato (giustamente) ogni privilegio. E’ arrivato ad un’età che molti invidiano e tanti non agguantano. Cosa lo ha spinto a suicidarsi non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Può essere che non gli mancava nulla, tranne la voglia di vivere. Può essere che ha immaginato un’uscita dalla scena non propriamente in punta dei piedi. Ma il coraggio ci vuole per scelte diverse, per vite meno celebrate, per sentimenti meno esibiti.

Può essere coraggioso un suicidio? Sì, può esserlo: quando parla ai vivi e dice quel che, altrimenti, non sarebbe stato possibile dire. Un esempio? Sergio Moroni, che si sparò una fucilata in testa perché fosse letta la sua lettera denuncia ai colleghi parlamentari. Ma il presidente d’Aula, quel giorno, non la lesse. Monicelli non ha parlato ai vivi, ha chiuso il discorso con sé stesso.

Si può “rispettare la scelta”, come ha fatto il Presidente della Repubblica? No. Si può prenderne atto, e punto. Ma annunciare ai vivi che la si rispetta, quindi la si onora, significa dimenticare che il nostro codice penale punisce (articolo 580) anche chi “rafforza l’altrui proposito di suicidio”. Se si prende il cadavere del suicida e lo si alza agli altari della gloria terrena, interpretando il suo gesto come compimento d’un trionfo, il tutto per non ammettere l’ovvio, ovvero la disperazione alimentata dalla solitudine, si compie operazione assai pericolosa. Per disintossicarcene sarà bene riprendere in mano “Il mestiere di vivere”, di Cesare Pavese.

Cosa c’entra Monicelli con l’eutanasia, totem sacro o sacrilego attorno al quale hanno ripreso a dimenarsi le polemiche? Era incapace d’intendere? No. Era incapace di volere e agire? No. Viveva, con dolore, in funzione di una macchina? No. Non ne poteva più, voleva farla finita, sentiva l’attrazione del gesto paterno (anche il padre si suicidò), o non so cos’altro, ma non c’entra nulla l’eutanasia.

Alla vista della bara i presenti hanno intonato “Bella Ciao”. Una canzone che non è partigiana manco per niente, ma che come tale la si canta. E passi, tanto, di quegli anni, si coltivano più i miti e le bugie che non la storia. Il fatto è, però, che Monicelli non fu partigiano, pur avendone l’età, ma continuò a fare il mestiere durante il fascismo, come la stragrande maggioranza degli italiani, e, anzi, si mise al vento dei nuovi stabilimenti cinematografici di Tirrenia, voluti da Benito Mussolini. Poi, però, fu comunista. Comunista uguale partigiano. A gente che pensa ancora di queste castronerie cosa gli vuoi dire, se non che la suprecazzola prematurata ha lo scappellamento a destra?

Il colmo della disgrazia, per un cinico dissacratore, è quello d’essere commemorato dalle prefiche del conformismo, con il luccicone a favore di telecamera. Il massimo del gramo destino è avere guidato all’esibizione tanti interpreti del proprio pensiero, per poi vedersi accompagnati all’ultima buca da un codazzo d’esibizionisti senza alcunché da esibire. Il mio omaggio alla memoria va contropelo, perché non è falso.

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