giovedì 22 luglio 2010

L'eroismo di Mangano e l'ipocrisia dei finiani. Giancarlo Perna

Siamo in pieno tormentone su «Mangano eroe». Vittorio Mangano è un mafioso pluriomicida, morto da un decennio, che negli anni ’70 - prima di farsi assassino - fu stalliere ad Arcore. A dargli dell’eroe, a più riprese, è stato Marcello Dell’Utri per suoi personalissimi motivi. Ogni volta che lo dice si scatena la corsa per prendere le distanze dal recidivo senatore. È diventato un gioco di società. Se vuoi il lasciapassare tra le élite democraticamente corrette devi dire scandalizzato che no, Mangano non è un eroe, ma un mafioso assassino che merita la damnatio memoriae. L’ultimo che si è piegato al rito popolare è stato Gianfranco Fini alla commemorazione palermitana di Paolo Borsellino nel diciottesimo anniversario della strage. In sostanza, «Mangano eroe» è una cartina di tornasole. Se neghi a gran voce l’eroismo come Fini, sei promosso e applaudito. Se invece taci o azzardi un «ma», sei fuori dal consorzio umano.
Quello che colpisce in questa semplificazione è che tanti fingono di non capire quello che Dell’Utri ha veramente voluto dire. Si tappano le orecchie e ottundono i cervelli per accreditarsi antimafiosi a 24 carati e ostracizzare il senatore. Eppure la cosa è semplicissima. Dell’Utri è grato al mafioso, e ci tiene donchisciottescamente a farlo sapere, per la lealtà che ha dimostrato nei suoi confronti. Già condannato all’ergastolo e roso da un cancro terminale, Mangano ha rifiutato di dire ai magistrati, che glielo chiedevano con insistenza, la magica parolina secondo cui Dell’Utri e, per li rami, il Cav, fossero due coppole. Se ne avesse fatto i nomi, Mangano sarebbe tornato a casa per morire nel suo letto risparmiandosi le sofferenze della malattia in cella. Invece, pur di non mentire, non è sceso a patti ed è morto male. In questo atteggiamento, il senatore ha visto dell’eroismo. Si può discutere la parola, ma non negare l’abnegazione e, nella circostanza, il senso di verità dell’ex stalliere. Tra i Pm che volevano fargli dire il falso profittando della malattia e il rifiuto di Mangano a cedere, il meno prossimo all’inferno è lui.
Chiariamo. Dell’Utri non considera il defunto un eroe in generale ma - come ha precisato - «il mio eroe». Non ne ha lodato la carriera criminale, i furti, le estorsioni, gli omicidi. Ha solo reso omaggio al gesto estremo, il migliore di una vita sciagurata, in cui - una volta tanto - il mafioso ha preferito non danneggiare altri piuttosto che incassare per sé un vantaggio.
Da parte del senatore un atto di liberale umanità. Sapere riconoscere alcune virtù anche in chi è pessimo, è prova di intelligenza laica. Solo una mentalità medievale vede nel peccatore il male assoluto a prescindere. La realtà è diversa. Tra i filibustieri c’è chi è perfido sempre e chi ha lampi di riscatto. Differenziare è prova di razionalità. Se Mangano, al complesso dei suoi delitti, avesse aggiunto la menzogna su Dell’Utri e Berlusconi, sarebbe stato peggiore di quanto era già stato. Perché non dirlo anche a costo di una forzatura semantica in favore di un delinquente incallito?
L’appellativo di eroe si riserva in genere agli uomini nobili, ai coraggiosi, ai cavalieri senza macchia. Talvolta però, presi dall’enfasi, i politici si allargano. Di recente, il vetero comunista Nichi Vendola ha anche lui assunto nell’empireo degli eroi, Carlo Giuliani, il ragazzo del G8 di Genova che, prima di essere ucciso, scaraventò una bombola di estintore sulla testa di un carabiniere. E che dire dell’eroicizzazione e dello spreco di elogi per Adriano Sofri, definitivamente condannato per l’omicidio Calabresi? Se la sinistra trova dei motivi per innalzare le figure complessive di questi scialbi campioni, perché fa fuoco e fiamme se Dell’Utri esalta il gesto di lealtà - e quello solo - del mafioso in punto di morte? Per il solito e logoro motivo: ciò che ritiene legittimo per sé diventa un abominio se è fatto da altri.
La tecnica ex comunista è sempre la stessa. Demonizzare quello che, di volta in volta, è il suo nemico. Adesso sono la mafia e i berlusconiani. Due mondi distantissimi ma che, grazie ai polveroni alzati e mai diradati dalle toghe, sono stati accomunati. La frase di Dell’Utri, volutamente equivocata, è presa a pretesto per «mascariare» il senatore, il Cav e la sua cerchia. Con un triplice effetto: annichilire l’avversario, accreditarsi come puri, far passare chi non si allinea - perfino nel linguaggio - per mammasantissima.
La complicità dei finiani non stupisce. Mettersi nel solco della sinistra è un’assicurazione sulla vita. Nelle piazze, nei tribunali, con la stampa. È comunque singolare che uomini che hanno sofferto sulla propria pelle l’ottusità dell’ostracismo usino oggi gli stessi sistemi. Ci fu un tempo in cui essere fascisti, neofascisti o solo neutrali non dava scampo. I missini erano subumani e - si diceva - «uccidere un fascista non è reato». Ai saloini - i ragazzi di Salò - non si riconoscevano né ragioni, né ideali. Erano irredimibili e, alla stregua di Mangano, rinchiusi per sempre nel girone infernale. Inconcepibile che un missino avesse un’anima, un sussulto, un lato decente. Era fascista e basta. Come un mafioso è un mostro, a meno che non collabori, un missino si salvava solo con l’abiura e il rinnegamento di sé. A nulla valeva che fosse galantuomo, generoso, rispettoso delle leggi. L’etichetta prevaleva su tutto. O sei antifascista dichiarato o sei fascista. E per essere antifascista non potevi neanche essere liberale o dc. Dovevi per forza stare a sinistra.
La novità è che ora, in tema di mafia, i finiani fanno agli altri quello che fu fatto a loro. O te la prendi con Dell’Utri e urli che Mangano non è un eroe o sei reietto. L’esempio è Fabio Granata. Più zelante di Di Pietro, il noto immobiliarista, l’ex rautiano si è trasformato in buttafuori nella cerimonia per Paolo Borsellino, stilando un elenco di indesiderati. «Sarebbe bello - ha detto - non dovere scorgere qualche presenza stonata: ...chi ha appassionatamente solidarizzato con condannati per mafia (chi di grazia?, ndr), esaltatori di mafiosi eroici (Dell’Utri, ndr), ecc... Tutti questi hanno perduto per sempre il diritto di parola». Fantastico. A Granata per decenni hanno messo la mordacchia perché fascista. Ora, che con Fini è entrato nel salotto buono, la mette lui. Come dire: la voglia di menare il manganello è dura a morire. (il Giornale)

martedì 20 luglio 2010

Professione fratello. Filippo Facci

In effetti è strano. L’altro ieri - alle 9 del mattino di una domenica di luglio, con il solleone che già spaccava le pietre e marciava verso i 40 gradi, con il mare e le spiagge che attendevano frementi - la società civile di Palermo non ha avuto l'insopprimibile desiderio di accalcarsi in una marcia in salita di due ore diretta al castello di Utveggio sul Monte Pellegrino, e questo nonostante a calamitare la ressa ci fosse un comizio del fratello di Paolo Borsellino. É inspiegabile. C'era il fratello ma neppure la sorella, Rita. A meno che sia tutta «disinformazione strumentale alla fiaccolata della destra» come ha denunciato Salvatore Borsellino: i giornali infatti hanno scritto che c'erano al massimo 100 persone, ma - ha precisato lui - in realtà erano almeno 200. Tutti a sventolare la spettacolare cazzata dell'«agenda rossa di Paolo Borsellino», questo mito che non si sa neppure se esista, se il magistrato l'avesse con sé quando fu ucciso, se fu trafugata o solo persa, se ci fossero su appunti giudiziari o la formazione della Lazio, niente, zero, aria: eppure l'hanno fatta diventare «la scatola nera della Seconda Repubblica» (Marco Travaglio) o bene che vada «il motivo per cui Paolo è stato ucciso» (Rita Borsellino). Marce, manifestazioni: tutta roba che va comunque incoraggiata. L'immensa folla delle agende rosse, domenica, ha osservato un minuto di silenzio: deve osservarlo ancora. E ancora. E ancora. (Libero)

La P3 è una montatura ma scoperchia la casta della magistratura. Tiziana Maiolo

Se avessero intercettato un po’ di esponenti politici di sinistra nel periodo in cui a Milano sono stati nominati Edmondo Bruti Liberati (di Magistratura democratica) alla carica di Procuratore capo e Alfonso Marra a quella di Presidente della Corte d’appello, gli inquirenti ne avrebbero sentite delle belle. Avrebbero seguito in diretta tutta quanta la trattativa. Politica.

Qualche magistrato romano potrebbe anche venire a fare una passeggiatina nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, dove anche i pregiati marmi degli anni trenta hanno occhi, orecchie e anche bocca. E parlano, oh se parlano. E dicono che, come è sempre accaduto, anche quelle due nomine sono state il frutto di uno scambio politico. Noi vi votiamo Bruti, voi ci votate Marra. Uno di destra, uno di sinistra. E allora?

Non c’è bisogno di smascherare “cricche” o risibili P3 per sapere che la casta-magistratura, divisa in correnti sindacali agguerrite e spesso tra loro feroci più di quelle dei partiti, è un organismo politico.

Della politica rispecchia le ideologie (ormai un po’ sbiadite anche tra i magistrati ), della politica ha il cinismo e anche l’abitudine all’intrallazzo. Qualcuno può credere che quando vengono nominati a importanti ruoli dirigenziali i magistrati di sinistra non ci siano telefonate e trattative politiche? Che molti magistrati non abbiano anche più o meno espliciti contatti con esponenti di partito? Nella società delle corporazioni non esistono vergini.

Allora, se il Csm dovesse decidere il trasferimento del presidente Marra, applichi almeno quel sano principio che dice simul stabunt, simul cadent e trasferisca anche Bruti Liberati.

Ma la cosa migliore, la più saggia sarebbe che restassero ambedue al loro posto. Con quel sano realismo politico di cui certo non difettano gli stessi esponenti del Consiglio superiore. A partire dal vice presidente Mancino, che conosce (e non lo nega) da quarant’anni il signor Lombardi, uno degli arrestati per la fantomatica P3, e non nega neppure il fatto che quest’ultimo gli abbia parlato ben due volte della posizione del dottor Marra. Ma dichiara sprezzante “ma volete che io dessi retta a un geometra?” Ora le questioni sono due: la prima è che Mancino Marra l’ha votato (sicuramente perché se lo meritava) e la seconda che Lombardi geometra lo è sempre stato. Oppure quando lo frequentava negli ambienti democristiani Mancino, Lombardi aveva tre lauree e solo dopo, quando ha cominciato a frequentare esponenti del centro destra è diventato geometra?

Tutta questa storia del coinvolgimento di magistrati in un’inchiesta che comunque fa acqua da tutte le parti puzza molto di resa dei conti nelle mura dei palazzi di giustizia. I magistrati di sinistra affilano le armi e cercano di buttar fuori gli altri. C’era stato a Roma un unico magistrato “rosso”, Francesco Misiani (che purtroppo non c’è più) che aveva avuto il coraggio di denunciare quel che succedeva nella sinistra in toga. Poi il silenzio. E la guerra continua sempre nello stesso modo, con le intercettazioni e le inchieste.

Le radici di quel che sta succedendo oggi, sono antiche. Hanno origine nel concetto stesso di magistratura, una casta privilegiata e corporativa disposta a tutto (scioperi, manifestazioni, interviste a go-go) purché non si cambi nulla del loro status quo.

Non lo stipendio (generoso) non i ruoli. Eppure se anche nel nostro ordinamento, come nei paesi di diritto anglosassone, esistessero solo i giudici, la casta sarebbe già sgretolata. E la dialettica sarebbe tutta spostata nella competizione tra avvocati dell’accusa e avvocati della difesa. E sarebbe processuale più che politica.

Purtroppo di queste riforme radicali, come anche dell’abolizione della finta obbligatorietà dell’azione penale, dell’abolizione dei reati associativi (che servono ad arrestare senza che ci siano fatti criminosi) e altre cosucce del codice Rocco non si parla più. E in ogni caso non si riuscirebbe a realizzarle, perché partirebbero i cannoni della casta-magistratura, appoggiata dalla sinistra e dagli sfasciacarrozze del presidente Fini.

Così finirà che i conti interni alla magistratura metteranno ai margini persone per bene come Marra (o some il procuratore aggiunto di Milano Nicola Cerrato), poi l’inchiesta sulla presunta P3 finirà in niente (a scommetterci sopra ci sarebbe da diventare ricchi), ma intanto il risultato politico sarà stato raggiunto. (l'Occidentale)

giovedì 15 luglio 2010

Gli impegni di Bersani. Orso Di Pietra

La notizia che più ha colpito nella giornata di ieri non è stata quella sulla retata dei trecento affiliati alla ’ndrangheta arrestati non in Aspromonte ma in Lombardia. Neppure quella della totale indifferenza con cui la libera stampa nazionale ha reagito alla sentenza con cui magistrati milanesi hanno definito il generale Ganzer un narcotrafficante ed alla decisione dei vertici della Benemerita e del governo di confermare fiducia e ruolo all’alto ufficiale. Non parliamo poi della stretta di mano a Trieste di Napolitano con i suoi colleghi presidenti di Croazia e Slovenia che non ha minimamente scosso nessuno. E tanto meno del calo di consenso di Obama o della nave libica guidata dal figlio di Gheddafi che cerca rogna con gli israeliani. La notizia con la scossa è che Pierluigi Bersani, in visita negli Stati Uniti, ha esaurito il tradizionale shopping tra la Quinta Strada e la Madison, effettuato il giro in battello di Manhattan, salutato la statua della Libertà ed, infine, è andato al cimitero di Arlington a visitare le tombe dei fratelli Kennedy. Insomma, ha avuto ciò che in Italia non gli capita mai di avere: una giornata ricca di impegni! (l'Opinione)

mercoledì 14 luglio 2010

Zero, ovvero il peso specifico del Pd. Filippo Ferri

La fine della cosiddetta Prima Repubblica non ha significato soltanto la fine dei partiti, ma anche la fine delle idee, la fine della politica. Quel momento di crisi ha generato un vuoto che ancora non è stato colmato. Ne è controprova l'imbarbarimento culturale della classe politica e la degenerazione dei toni del dibattito politico, ridotto sempre più a uno scambio di insulti e accuse, o a un insieme di "chiacchiere da bar". La verità è che il dibattito politico - come veniva inteso una volta - oggi non esiste più. Questo male assoluto affligge tutte le formazioni politiche. Anche la Lega Nord ne è afflitta, ma è quella che ne patisce meno, grazie alla sua ottima ramificazione territoriale e al suo pragmatismo, spesso rozzo, ma efficace perché di grande impatto sui cittadini. L'Italia dei valori fa dell'antipolitica il proprio manifesto, e pertanto se ne giova; si tratta, però, di un serbatoio che prima o poi si esaurirà - è inevitabile - e allora il partito dell'ex poliziotto dovrà fare i conti con la propria inesistenza politica o, in alternativa, con la propria natura fascistoide. Anche il Pdl è afflitto dal "vuoto delle idee"; pur essendo da quella parte, non nascondo che spesso rabbrividisco di fronte alla povertà intellettuale di alcuni esponenti - anche di spicco - del partito del Cavaliere. Tuttavia, il Pdl, in questo senso, è salvato soprattutto dalla presenza dei riformisti, gli unici in grado di esprimere un indirizzo politico chiaro e riconoscibile. Il partito, però, che in assoluto è più colpito dalla "nullità politica" è il Partito democratico: rifugio degli ex comunisti mai pentiti e dei cattolici illiberali, il Pd è il "partito del nulla", politicamente inteso. Non ha la legittimità storica e politica di chiamarsi socialista o socialdemocratico, né la capacità di dettare una linea alternativa credibile. Un episodio emblematico è accaduto in queste settimane di protesta contro la legge sulle intercettazioni. Uno slogan va di gran moda tra i manifestanti, in particolare tra quelli del Pd: "Intercettateci tutti". Solo una mente seriamente compromessa dall'odio ideologico o personale può partorire un simile abominio. Solo degli individui d'infinita ignoranza e di spaventosa inciviltà possono pronunciare tale slogan. "Intercettateci tutti" è una delle frasi più incolte e contrarie alla Costituzione che l'opposizione abbia mai inventato. E soprattutto è una frase antidemocratica come poche. Essa svela la vera natura che già abbiamo compreso dell'Idv e mette a nudo il peso specifico del Partito democratico: zero. Come fanno i giovani che aderiscono al partito di Bersani a non rendersi conto dell'imbarazzante assurdità del loro comportamento? Come è possibile chiamarsi "Partito democratico", e allo stesso urlare "intercettateci tutti", lo slogan più dittatoriale che esista? Questa gente vorrebbe per caso una nuova Ddr, o una nuova Urss, o un nuovo Reich, dove la Stasi, il Kgb, la Gestapo ascoltavano e spiavano tutto e tutti? La loro contraddittorietà è talmente macroscopica da generare ilarità e scherno. La verità è che questa è la miserevole situazione della "sinistra" (che "vera" sinistra non è!) italiana: i relitti di ideologie sconfitte dalla Storia, che meschinamente hanno tentato di vincere con vie antidemocratiche e che anche così hanno fallito, sono confluite in un soggetto senza tradizione, senza cultura, senza identità. Si chiamano democratici, ma non lo sono. Si dicono di sinistra, ma provate a chiedere loro cosa significhi e vi risponderanno o con un'idiozia da salotto tv, o con un fantasma comunista, o con l'odio per Berlusconi. In natura qualsiasi corpo, per quanto piccolo, ha pur sempre un "peso specifico"; il Pd non ne ha, perché, politicamente, non esiste. E solo l'accozzaglia informe di spettri di epoche ormai trascorse, di opportunisti che devono il loro successo al periodo più buio della storia d'Italia (che essi stessi hanno contribuito a provocare), di "uomini nuovi" senz'arte né parte. E necessario, in questa situazione desolata e desolante, tornare alla politica. Urge un ritorno alle idee di giustizia e di pace sociale, di pari opportunità e di meritocrazia, di eguaglianza e di libertà. Chi crede veramente in queste idee - e può fregiarsene per discendenza storica e politica - ha il dovere di dare ad esse nuova vita e di promuovere un ritorno alla dialettica, al dibattito, al discorso politico. L'Avanti! non ha mai smesso di farlo. Gli amici che si riconosco nelle nostre idee non possono sottrarsi a questo dovere. Bisogna rinnovare la politica - che altro non è se non l'arte del vivere assieme - e i socialisti, ovunque siano e comunque si chiamino, sono tra i pochi che possono colmare il "vuoto delle idee" con la loro (la nostra) storia e con la nostra identità, mai tradita e mai dimenticata; e soprattutto mai barattata per inesistenti "feticci democratici". (l'Avanti)

L'Onu ha scoperto un nuovo diritto: quello delle intercettazioni

Nel caravanserraglio che dal popolo viola arriva ai post-it di Repubblica, mancava un mattatore capace di ravvivare la fiamma dell’antiberlusconismo su scala planetaria. Puntuale il mangiafuoco è arrivato e risponde al nome di Frank La Rue, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione. "Il governo italiano – ha sentenziato La Rue incurante della nostra sovranità nazionale – deve modificare o abolire il progetto di legge sulle intercettazioni", perché, "se venisse adottato nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto della libertà di espressione in Italia".

L’uomo dell’Onu si dice "consapevole" delle "implicazioni che la pubblicazione delle informazioni intercettate possono avere nel processo giuridico o nel diritto alla privacy" e auspica un "dialogo significativo" tra il governo e tutte le parti interessate, dichiarandosi pronto a "fornire assistenza tecnica per garantire che il provvedimento rispetti gli standard internazionali sui diritti umani".

Visto che le parole di La Rue, com’era prevedibile, si sono rivelate una manna dal cielo per l'opposizione, è opportuno verificarle una per volta. Primo, l’onusiano non ci sembra granché “consapevole” del fatto che non esiste un legame di sangue tra la libertà di espressione e i paletti (che non sono un divieto assoluto) imposti al regime delle intercettazioni. Se domani questo giornale decidesse di pubblicare l'epistolario privato fra La Rue e la sua consorte e una legge ce lo impedisse sarebbe un attentato alla libertà di espressione o un modo spregevole di turbare la sua privacy? D'altra parte, come ha evidenziato seccamente il ministro Frattini, "in tutti i paesi liberali e democratici del mondo non è consentito divulgare prima della sentenza definitiva atti che devono restare segreti".

Secondo, quando La Rue chiede "più dialogo" al governo dimentica che ormai sono due anni che il ddl intercettazioni passa dalla Camera al Senato, e che alla discussione in aula si sono aggiunte le audizioni in Commissione Giustizia, dove si è ascoltato il parere, per esempio, dei magistrati. Come pure forse non è informato del fatto che si stanno valutando e votando una serie di emendamenti che vanno incontro alle perplessità del Colle e hanno lo scopo di trovare un punto d’equilibrio fra il diritto alla riservatezza garantito dalla Costituzione, l’azione della magistratura e la libertà di stampa. (Uno degli emendamenti potrebbe rivedere al ribasso la “punizione” inflitta a quegli editori che pubblicano materiale intercettato, che per La Rue è una pena “sproporzionata al reato”.)

In conclusione, rispondiamo con un cortese “no, grazie” alla sua offerta di trasferirsi per qualche mese in Italia come consulente del governo sulla questione della libertà di espressione. La Rue deve aver confuso il nostro Paese con il Guatemala, lo stato dell’America Centrale in cui ha fatto carriera negli anni scorsi battendosi (giustamente) contro i bavagli (quelli veri) imposti dai governi locali a giornalisti che in quelle latitudini rischiano davvero grosso. Resti pure da quelle parti, insomma, e saremo noi i primi a offrirgli la nostra consulenza. In caso contrario, potremo dire che ci mancava solo lui per finire di screditare l’enorme carrozzone delle Nazioni Unite. (l'Occidentale)

martedì 13 luglio 2010

Blog e regime. Christian Rocca

Massimo Bordin, nella conversazione settimanale con Marco Pannella, ha riconosciuto che a dare la notizia delle sue dimissioni da direttore di radioradicale per dissidi con Pannella (che dovevano restare nascoste ancora per un po') è stato questo blog, nella tarda mattinata di venerdì.
Il Corriere ha preferito non ricordarlo, il giorno successivo.
PS
Non perdetevi la conversazione di domenica, dove Pannella e Bordin provano a spiegarsi. Cominciate dal minuto 57, fino alla fine, un'ora e venti dopo. Altro che finale di Coppa del mondo. (Camilloblog)

mercoledì 7 luglio 2010

Da detenuti a soldati del jihad, ora in cella l'islam fa paura. Ida Magli

Fra i tanti problemi posti dall’eccessiva presenza in Italia d’immigrati, uno dei più difficili da risolvere è quello dell’alto numero di musulmani nelle carceri. Si tratta di molte migliaia di persone che si trovano a vivere una delle esperienze più dolorose, quale appunto quella della privazione della libertà, in un ambiente dove non si parla la loro lingua, dove non possono condividere col compagno di cella né ricordi del passato né progetti per il futuro; dove, insomma, la “estraneità” della terra d’origine, della patria, della religione, dei costumi, dei sentimenti, delle abitudini quotidiane, già tanto forte all’esterno, assume in un certo senso una dimensione “essenziale”. Soltanto se si fa lo sforzo di comprendere quest’aspetto del vissuto carcerario dei musulmani, si può rendersi conto di come la scoperta, o la riscoperta della devozione religiosa, attraverso le cure che in tal senso porgono loro i più solerti compagni, divenga un legame e una forza di salvezza.

Di fatto è stato organizzato un sistema di recupero al Corano nei confronti dei prigionieri, anche di quelli più lontani dall’osservanza della fede, cosa che senza dubbio aiuta psicologicamente le singole persone, specialmente quando sono state trascinate nella criminalità del furto o della droga dalla mancanza di un qualsiasi ordine di vita e di lavoro. Ma soprattutto le spinge a trovare un nuovo centro d’interesse e una guida concreta proprio perché il Corano non è soltanto un testo sacro, quanto un codice simultaneamente civile e religioso; una voce che dice al credente come Dio gli indichi una strada sicura nella quale non sarà mai lasciato solo purché sia fedele alle preghiere e ai precetti quotidiani. Questa, però, è soltanto una premessa a ciò che sta diventando una forma di organizzazione disciplinata e attenta di molti degli immigrati musulmani che, proprio perché selezionati fra quelli meno integrati in Italia e già predisposti alla devianza come i prigionieri, possono più facilmente diventare portatori di un’esasperata volontà di riscatto islamico, ed eventualmente anche eversiva. In altri termini, non è inverosimile supporre che si stia sviluppando una forma di vero e proprio indottrinamento dei prigionieri che porti, attraverso la maggiore fedeltà al Corano, al recupero della forma più radicale d’identità musulmana, quella che non ammette l’esistenza di “infedeli”, i quali vanno combattuti e vinti in nome di Allah.

E’ questo un aspetto nuovo delle difficoltà che l’immigrazione pone agli Italiani. Lontani come sono ormai in grande maggioranza da una fede che li induca alla battaglia, i cattolici non riescono a rendersi conto della forza di una fede religiosa quando è sentita in forma assoluta. Nelle carceri si trovano naturalmente molti italiani, ma il cappellano è una figura ovvia, amica, confortante di per sé, non perché induca a forti passioni in nome di Dio. Non sappiamo se, posti nella stessa cella, non sia il musulmano a suscitare l’interesse del cristiano parlandogli di Allah più che il cappellano parlandogli di Dio. Questa è la situazione, e la Chiesa non sembra per niente preoccuparsene, anzi. Si preoccupa degli immigrati, del loro diritto alla propria religione, senza neanche il più piccolo tentativo di mettere in luce l’abisso che separa l’obbligo coranico dell’odio per gli infedeli dal: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Nei confronti dei cattolici, i preti sembrano ormai accontentarsi di una stanca routine, fatta di parole ovvie e sempre uguali, ben sapendo che a nulla servono e che nulla cambiano.

Anche le carceri, dunque, lungi dal preparare gli immigrati a quella “integrazione” di cui si dimostra tanto sicuro Gianfranco Fini, allevano dei forti musulmani che probabilmente, una volta usciti, sia che rimangano in Italia, sia che tornino nei loro paesi, saranno disponibili ad azioni ostili. Qualche correttivo, però, si potrebbe mettere in atto, se non altro organizzando gli incontri religiosi sotto la guida di un imam conosciuto dalla direzione delle carceri; ma soprattutto non accantonando il problema nella speranza che si risolva da sé. (italianiliberi.it)

Terzo pollo. Davide Giacalone

Dice Francesco Rutelli che è scoccata l’ora del terzo polo. A questa costruzione si dedica, egli ricorda, da quando è uscito dal Partito Democratico, che aveva cofondato. Allo stesso sforzo chiama Gianfranco Fini, che dal Popolo delle Libertà non vuole uscire, avendolo cofondato. In quella casa terza, inoltre, dovrebbe darsi tutti appuntamento con Pier Ferdinando Casini, a lungo esponente del centro destra, poi navigante solitario più per necessità che per scelta. Tutto questo m’affascina, perché terzopolista nacqui, e probabilmente creperò, ma non capisco cosa diavolo vogliano fare questi signori e temo che neanche loro abbiano le idee passabilmente chiare. Intanto perché per esserci un terzo polo occorre che ce ne sia un primo e un secondo. Se qualcuno li vede mi faccia un fischio, perché io vedo solo spaccature pro o contro Silvio Berlusconi.

Il vecchio sogno della “terza forza”, che mi svezzò, nasceva da un presupposto oggi sconosciuto: c’è una vasta forza politica dei cattolici e c’è un’imponete presenza dei comunisti, nella sinistra, sicché i laici antitotalitari immaginavano possibile dare vita ad una terza componente. Che non prese mai forma compiuta, perché la realtà era diversa, visto che nella sinistra, dopo la rottura del Fronte Popolare, c’erano anche i socialisti e che l’area dei partiti laici era divisa in tre o quattro partiti. La fissione dell’atomo, si diceva con amara ironia. Ma, insomma, quella era un’altra storia.

Oggi i comunisti sostengono di non esserlo mai stati e tutti si dicono amici del Vaticano, sicché domando: ma terza de che?

Più che un movimento politico, quello dei terzi, sembra un’assemblea degli sfrattati. Rutelli è stato eletto sindaco dalla sinistra, è stato candidato della sinistra contrapposto a Berlusconi, ha cofondato il partito della sinistra, ma, ad un certo punto, s’è scoperto una vocazione da terzo incomodo. Dice che, per soddisfarla, ha rinunciato alla poltrona. Non è che, per la precisione, sia stata l’assenza della medesima ad avergli solleticato lo spirito critico? Lo stesso Fini ha tutte le ragioni quando sostiene il diritto al dissenso e al mettere a confronto idee politiche diverse. Solo che, se entrasse in una macchina del tempo e potesse incontrare il sé stesso nel corso degli anni, potrebbe utilmente dibattere con sé medesimo, accusandosi da sé solo di estremismi contrapposti: dal duce (minuscolo, proto, minuscolissimo) più grande statista del secolo a male assoluto, dai maestri che non siano froci ai diritti degli omosessuali, dall’Europa nazione e la legge sull’immigrazione al venite, integriamoci e votate. Posto che, senza l’entusiasmo del neofita, tendo a condividere gli approdi e detestare le sponde da cui salpò, prima di aprire il dibattito si deve fare come per i vini: stabilire l’annata di riferimento.

Poi c’è il furbo Casini, l’unico terzaforzista nato e cresciuto democristiano, che gode dei guai degli altri due, come loro godettero dei suoi. La posizione di Casini è lineare: se volete confluire nel mio Partito della Nazione (i nazionalisti? oibò), riconoscendo d’esservi sbagliati per almeno un paio di legislature, sarete i benvenuti, se, invece, ve ne starete per i fatti vostri auguri, che io potrò sempre sostituirvi, da una parte o dall’altra. L’ex rampollo di Arnaldo Forlani imparò la politica fin da piccino e sa leggere i risultati elettorali, i quali dicono, alle regionali, che l’Udc prende voti quando s’allea con il centro destra e li perde quando va a sinistra. Ha capito l’antifona, ma visto che non ci sono elezioni in corso si barcamena.

L’antica terza forza puntava alla nascita di una sinistra democratica, qui, invece, i senza tetto odierni cercano di cancellare dal vocabolario i concetti di destra e sinistra, se non per dire che sono detestabili. Dopo averli lungamente abitati. La domanda è: perché la sinistra vera, quella che fu comunista e che cambia nome come gli abiti stagionali, non li aiuta a crescere? La risposta è: perché mica sono del tutto scemi. Oramai incapaci di fare politica, un po’ tutti, si limitano a campare di rendita berlusconiana e antiberlusconiana. I primi devono solo mostrarsi degli entusiasti balilla, meglio se giovani italiane, ma i secondi sanno bene che se sorgono altri soggetti ci si deve dividere la torta. I voti antiberlusconiani, più o meno, quelli sono. Il più bravo a coalizzarli fu Romano Prodi, fin qui imbattuto. I successori, invece, sono dei maghi nel dividerli. Se prendono anche Fini fra i concorrenti, avendo già in seno una bella truppa di giustizialisti fascistoidi, si mettono tutti a stecchetto e va a finire che scavalcano a destra Francesco Storace, camerata verace.

Oddio, l’alzheimer: perché ho cominciato a scrivere questo articolo? Tanto, questa roba è destinata a scuocere senza essere scolata. Ah sì, adesso ricordo. Ho una modesta e limitata richiesta da avanzare: per rispetto di quelle scuole minoritarie, ma gloriose, che affondarono le loro radici nel Risorgimento e guardarono con speranza alle democrazie anglosassoni e maggioritarie (quelle vere), potreste avere la buona creanza di non chiamarvi “terza forza”, o “terzo polo”? Provate con qualche cosa di più immediato e popolare, mettendo a frutto la lezione che il berlusconismo impartisce, da tanti anni. Ecco, ad esempio: “a riecchice”, oppure “daje e ridaje”.

venerdì 2 luglio 2010

Coriandoli costituzionali. Davide Giacalone

Il Presidente della Repubblica non si è riservato di esprimere un giudizio sulla legge relativa alle intercettazioni telefoniche, attualmente al vaglio del Parlamento, lo ha già fatto e ha già annunciato la bocciatura. Giorgio Napolitano non si è limitato a manifestare le proprie opinioni, cosa che la Costituzione, per volere essere precisi, esclude, ma si è spinto a intervenire sui calendari parlamentari, disponendo affinché delle intercettazioni non si parli finché si discute della manovra economica, e non si è fermato alla manifestazione di una preferenza, ha anche reso pubblica la propria irritazione perché il Parlamento, che un tempo si sarebbe definito “sovrano” ha voluto organizzarsi diversamente. E neanche questo gli è bastato, perché ha usato parole assai precise per indicare che di queste cose, quindi sia della diversa opinione sulle intercettazioni sia dei calendari parlamentari, ha discusso con esponenti della maggioranza, in questo modo potendo voler dire due cose: a. ho concordato un’azione con gli uomini della maggioranza che si opporranno a tutto questo; b. ho avvertito chi di dovere che se la maggioranza avesse preteso d’essere tale si sarebbe aperto un conflitto.

Quel clima di collaborazione istituzionale, di cui taluno favoleggiò, non c’è più. E cambiata stagione, e l’aria sé fatta appestata e appiccicosa.

A fronte di tutto ciò appare un dettaglio di scarso rilievo il fatto che le parole presidenziali non sono contenute in un messaggio formale, ma arrivano da Malta, laddove, come lo stesso Napolitano ha ricordato, è prassi consolidata che il Capo dello Stato non vada all’estero per tirare di simili randellate sulle questioni interne. Più interessante, invece, l’invenzione di una nuova categoria, cui il legislatore dovrebbe inchinarsi, portata da Napolitano al rango di custode dell’ortodossia: gli studiosi. Già, perché il Presidente è riuscito ad argomentare che la legge sulle intercettazioni va malissimo anche perché lo confermano gli studiosi. E chi sono? Chi assegna loro la pecetta di saggio e colto? Chi chiede loro di parlare? Noi, per esempio, siamo certamente incolti e tendenzialmente zotici, ma abbiamo ripetutamente scritto che quella legge non servirà a nulla, non sarà un bavaglio, ma neanche un rimedio, che complicando le cose le peggiora e, quindi, è una pessima idea. Ma ero convinto, pensate l’ingenuità, che noi si fosse una democrazia, dove legifera la maggioranza e si lascia ai pensatori (nel nostro caso meglio s’attaglia la definizione di “cani sciolti”) la possibilità di criticare. Invece no: i pretesi cultori del dettato costituzionale lo riducono in coriandoli, fra le trombette cattedratiche.

Le parole di Napolitano, come forse s’è già intuito, non mi convincono, le ritengo, al di là del merito, un colpo alle regole e una pericolosa manomissione degli equilibri costituzionali. Ma a preoccupare ancor di più è il clima complessivo in cui vive il Paese. Perché può anche darsi che tutto sia un succedersi sgangherato di parole in libertà, senza più un nesso, senza un contesto condiviso di regole, ma può anche darsi che non sia casuale il fatto che un Presidente Emerito sostenga che si fu vicini al colpo di stato, ricordandosi a scoppio ritardato di affibbiare a dei protagonisti della politica la colpa di avere favorito la mafia, e può non essere casuale che dopo quelle affermazioni vadano a ruota il procuratore nazionale antimafia e altri professionisti della materia. E, sempre ammesso che le cose abbiano un senso, qualcuno provi a spiegare perché Beppe Pisanu sente il bisogno di parlare dopo la sentenza Dell’Utri, con l’inarrestabile impulso di darsi dell’incapace e, forse anche del complice per i fatti propri. Che sta succedendo? Cosa bolle in pentola? Se queste cose non sono il frutto del caldo e dell’età, quali notizie circolano, circa ciò che si prepara?

Il governo, dal canto suo, non ci guadagna nulla a reagire accelerando la discussione di una legge (sempre quella sulle intercettazioni) che gli si ritorcerà contro. Non è una dimostrazione di forza, ma qualche cosa che somiglia alla forza della disperazione.

Francamente non credo che siano moltissimi gli italiani che la sera, prima di prender sonno, pensano a queste cose, ma ho l’impressione che ci sia in giro chi punta sull’insonnia di molti, provocata dalle preoccupazioni e dalla sfiducia nel futuro, per soffiare sul fuoco della rabbia e della reazione, magari gettando nella combustione anche materiale altamente inquinante, come le faccende di mafia. Stiano attenti, gli apprendisti stregoni, perché non è detto che il servizio antincendio funzioni, e non è detto che a seguire i suggerimenti che arrivano dall’estero si possa poi sostenere, neanche con se stessi, di avere servito gli interessi nazionali.

mercoledì 30 giugno 2010

Più che alla libertà dovremmo pensare alla serietà dell'informazione. Leonardo Guzzo

Nemmeno un anno fa la collana Meridiani della Mondadori ha finito di pubblicare una corposa storia del giornalismo in Italia, riconoscendo, con un’antologia di scritti delle più prestigiose firme italiane, dignità letteraria al mestiere di divulgare le notizie. Eppure, mentre qualcuno si adopera per strappargli di dosso l’aura di fratello povero della letteratura, il giornalismo italiano dà pessima prova di sé.

Liste di proscrizione sbattute in prima pagina; corrotti e corruttori, veri o presunti, additati al pubblico ludibrio; casi montati senza nemmeno verificare le fonti, a rischio di clamorosi buchi nell’acqua; scandali del figlio, della suocera o della comare per colpire chicchessia. La stampa nostrana sembra affetta da una pericolosa “sindrome da tabloid”, scivola lungo una deriva scandalistica aggravata dal fumus persecutionis e dalla malafede politicamente orientata. L’esperimento perpetrato per un quindicennio ai danni di Berlusconi ha fatto scuola. Invece di disgustare. Ma in Italia, a quanto pare, le cattive abitudini si prendono subito.

Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta, piuttosto della riedizione di un classico, un attacco virulento di un’antica malattia italiana. Già negli anni ’80, in un’intervista sul Corriere della Sera, Hans Magnus Enzensberger lamentava che “in Italia tutto finisce in giornalismo”. Sarebbe a dire “in spettacolo”, chiacchiericcio senza costrutto, ipocrisia che nasconde la sostanza delle cose. Un difetto cronico, insomma, che si è pericolosamente acuito nel tempo.

Il giornalismo di oggi somiglia sempre più alla politica: strumentale, tendenzioso, disposto a barattare l’onestà con la convenienza attraverso i più sfrenati equilibrismi. Hai voglia a riempirsi la bocca di “deontologia professionale” e “obiettività della notizia”. La faziosità, coltivata con passione, raggiunge ambiti impensabili. Vanno bene le opinioni, ma i dati, almeno quelli, dovrebbero essere dati. E invece la manipolazione, la falsificazione raggiunge anche loro: a bordate di fango la realtà dei fatti è ridotta a un relitto e annega in una palude di ipocrisia, insinuazione, sospetto. Le colonne dei giornali diventano il surrogato delle aule giudiziarie, la gogna mediatica sostituisce la condanna.

Gli scandali dei potenti, si dice con una buona dose di faccia tosta, sono schiaffi alla coscienza dei cittadini. E sono invece semplici scorciatoie verso il successo editoriale. I veri schiaffi fanno molto meno rumore e assai più male. E non hanno bisogno, per essere sferrati, di escort e microspie, appostamenti e perquisizioni. Basterebbe guardarsi intorno, puntare l’obiettivo sulla gente, cercare le notizie dove sono, affrontare i problemi concreti, quelli sì scesi sotto il livello della comune indignazione: la precarietà, l’emarginazione, la cattiva amministrazione, la meritocrazia annunciata e tradita.

Sfortunatamente si tratta di temi troppo poco eclatanti o “pruriginosi”. I giornalisti italiani frequentano per lo più un’altra parrocchia: il sensazionalismo è la via breve per il successo; la mistica dell’uomo della strada, dell’orecchio teso al marciapiede, del cane da guardia della democrazia infiamma i cuori ma molto meno le menti. La verità è che il giornalismo è un mestiere difficile. In bilico tra coraggio e paura, tra coscienza e opportunismo. Richiede misura, tocco, stile (non solo letterario). E’ spesso questione di sottigliezze, sfumature che contrastano con la rozzezza e i modi truculenti di certi “maestri” d’oggigiorno.

A guardarla bene, con un po’ di malizia, la casta giornalistica abbonda di “camerieri dell’informazione” o protagonisti a tutti i costi, molto volpi e poco leoni, animati da una logica del profitto, personale o aziendale ma sempre “particolare”, che mal si sposa con le responsabilità sociali del “quarto potere”.Si fa un gran parlare di libertà di stampa, ma forse la questione è diversa. “Non è la liberta che manca”, rifletteva Leo Longanesi, “mancano gli uomini liberi”.

Invece di accanirsi soltanto sull’art. 21 della Costituzione (sempre sia benedetto…) sarebbe magari il caso di concentrarsi sulla levatura morale, o almeno sulla correttezza deontologica, dei professionisti della stampa. Più che alla “libertà di informazione” bisognerebbe pensare alla “serietà dell’informazione”. In caso contrario il giornalismo, lontano dall’elisio della letteratura e dalla trincea della denuncia sociale, rischia di ridursi a quello che Gide detestava: tutto ciò che domani interesserà meno di oggi. (l'Occidentale)

martedì 29 giugno 2010

Quel "gradino" verso il terzo livello. Riccardo Arena

“Se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa nostra, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa nostra ha tale forza, compattezza e autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia: mai, però, in posizioni di subalternità”. Così Giovanni Falcone, in un articolo pubblicato postumo sull’Unità del 31 maggio 1992, dava la propria idea del rapporto tra mafia e politica negli anni in cui a indagare era il pool antimafia di cui egli era l’anima. Le ombre oggi tornano e l’accusa si aspetta che il processo Dell’Utri riscriva la storia: sull’Unità di venerdì, Nino Gatto, il procuratore generale del giudizio d’appello contro il senatore del Pdl, parla di un “interscambio tra mafia e politica che germoglia”. Mentre le indagini sui presunti intrecci tra “poteri occulti” e mafia vengono chiuse e poi riaperte, nuovamente archiviate e poi di nuovo riprese, con una sequenza che dura da diciotto anni. In attesa che la sentenza Dell’Utri, come dice il pg Gatto, costruisca lo scalino su cui poi costruirne altri, per arrivare a verità mai scoperte.

Ma chi possiede la verità? L’idea di Falcone era abbastanza chiara: “Gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere – scriveva nello stesso articolo pubblicato dall’Unità – costituiscono tuttora nodi irrisolti… Fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti, non si potranno fare molti passi avanti”. Ma il giudice ucciso a Capaci non aveva preconcetti, non partiva da teoremi, non parlava di entità, non considerava tutta la politica come nemica: e infatti quando gli era stata offerta su un piatto d’argento la “verità” su uno di questi omicidi eccellenti, quello che aveva visto cadere il presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, il magistrato aveva immediatamente incriminato per calunnia il “pentito” Giuseppe Pellegriti che falsamente accusava come mandante Salvo Lima. Di fronte alle sue palesi fandonie, come ha sempre spiegato anche il pm che andò con Falcone a interrogare Pellegriti, Giuseppe Ayala, Falcone non esitò un istante a procedere contro di lui.

In un articolo pubblicato su “Centonove” (“Giovanni Falcone: avversato da vivo, santificato da morto”) Umberto Santino, presidente del Centro Impastato, ricostruisce punto per punto l’amarezza del giudice silurato dai suoi colleghi al Csm e bocciato dallo stesso Consiglio, che gli aveva preferito Antonino Meli come consigliere istruttore. Di fronte a un capo come Pietro Giammanco alla procura di Palermo, il giudice aveva poi accettato l’invito di Claudio Martelli, ministro della Giustizia del governo Andreotti, ed era andato alla direzione degli Affari penali del dicastero di via Arenula. Attirandosi gli strali dell’Unità, che il 12 marzo del 1992 lo aveva definito inadatto al ruolo di capo della costituenda Superprocura antimafia. “Il perché era esplicito – scrive Santino –. Troppo legato a Martelli. Meglio Cordova, l’ex procuratore di Palmi approdato a Napoli”.

Mai, insiste Santino, Falcone aveva parlato di terzo livello, della cupola politico-mafiosa che avrebbe diretto le strategie occulte, ma di tre livelli dei reati di mafia. E, forse per questo, era stato accusato dall’antimafia militante di avere “tradito” la “causa comune”. Eppure era stato lui a scoperchiare il calderone infetto di don Vito Ciancimino, politico mafioso a tutti gli effetti. Ma questo non bastava. I professionisti dell’antimafia, capeggiati da Leoluca Orlando, accusarono Giovanni Falcone di nascondere nei suoi cassetti le prove contro gli uomini politici collusi con i boss. Ma il magistrato non si lasciò intimidire e continuò per tutta la vita a rifiutare il teorema del tavolo ovale al quale sedevano insieme, per decidere stragi e delitti, sia rappresentanti della mafia che quelli della politica.

Falcone saltò in aria il 23 maggio del 1992, Paolo Borsellino il 19 luglio, e da allora non passa giorno in cui non si cerca il mandante occulto di quelle stragi. Cioè l’entità, per dirla con il procuratore nazionale Piero Grasso, che avrebbe voluto eliminare nel ’92 i due giudici antimafia e, l’anno successivo, avrebbe ordito le trame che portarono ad altre bombe a Roma, Firenze e Milano. Le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze hanno collezionato una serie di indagini, sempre chiuse per mancanza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma anche per la mancanza di tempo necessario a completare le verifiche. Da un’inchiesta all’altra, senza soluzione di continuità. Silvio Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati da tutti e tre gli uffici inquirenti e le loro posizioni sono state sempre archiviate. Dell’Utri è finito sotto processo per concorso esterno e ha avuto nove anni in primo grado. Ora si aspetta che “il gradino”, come lo ha chiamato il pg Gatto prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, venga demolito o faccia da base per costruirne altri. (il Foglio)

Briganti e mandarini. Davide Giacalone

E’ in corso un importante giro di nomine, che rimette in moto la giostra del potere. I più si soffermano a studiare la mappa degli spostamenti, seguendo la ragnatela delle amicizie, delle gratitudini, dei crediti accesi e dei debiti saldati, cercando di prevedere l’andamento del borsino dei potenti, anche per correre a raccomandarsi con i potentati di riferimento. Nel calderone finisce di tutto, non distinguendosi le autorità di garanzia (dalla Consob all’Agcom all’Antitrust) dalle aziende detenute dallo Stato (dalle Ferrovie alla galassia Rai) passando per le casseforti finanziarie e consulenziali (dalla Cassa Depositi e Prestiti a Invitalia). Né, di distinguere, sembrano capaci i candidati e gli aspiranti, che passano da una funzione all’altra, con evidente consapevolezza delle proprie capacità. In questo festival del “dove vado e cosa mi dai”, si segnala la vera anomalia del mercato italiano, cui nessuno sembra far caso.

Al tema ci s’accosta, nella gran parte dei casi, col lo stesso spirito con cui si partecipa ad un pettegolezzo: sai, il Tizio ha litigato con Caio, perché non ha fatto il piacere a Sempronio, ma ora viene risarcito dal Tale, perché fece comodo ai suoi amici della M’inciucio Spa. Oppure si usano unità di misura inappropriate, come quelle dell’età: Lamberto Cardia, ho letto, non solo è in Consob dal 1997, non solo ha 76 anni, ma s’appresta a prendere la presidenza delle ferrovie. La meritocrazia è così distante dai costumi nazionali che ci s’attacca a tutto, anche all’anagrafe, pur di non misurare le persone in base alle capacità e alle competenze.

Ma lasciamo perdere la meritocrazia, tanto sono parole al vento, vengo al dato più macroscopico, quello talmente evidente che nessuno ci fa caso: è mai possibile che nessuno di questi signori voglia diventare ricco? I soldi, se lecitamente guadagnati, sono un tributo alle capacità e al successo, perché gente di così alto valore professionale preferisce restare a reddito fisso e garantito? Non solo lo preferisce, ma si batte strenuamente per non perdere la “sistemazione”, composta da soldi, ufficio, macchina con autista, segretaria e onori annessi, compresi gli inviti al Quirinale. La risposta è: perché il nostro è un sistema malato, in cui il mercato è occupato dallo Stato e il personale che lo amministra vale poco e niente, sul mercato.

In un sistema sano il percorso dovrebbe essere quasi opposto: ci si distingue per bravura e, in ragione di ciò, si viene scelti per una determinata funzione pubblica; la si assume come un onore e la si onora con spirito di servizio, essendo pagati meno di quel che si vale nel mercato, ma arricchendosi di conoscenze e mestiere; quindi si conclude l’esperienza e si torna alla propria professione, monetizzando anche le tante cose che si sono imparate, diventato, se possibile, ricchi. Così dovrebbe essere, così succede nei sistemi sani. Da noi no. Da noi mi sento ancora rimproverare (scusate il riferimento personale) di avere collaborato all’elaborazione di leggi e, poi (dopo otto mesi), essermi “venduto” a quelli che quelle leggi dovevano applicare. Ma è esattamente così che si dovrebbe fare, non rimanendo per tutta la vita a carico della spesa pubblica.

Coltiviamo, invece, l’impermeabilità fra Stato e mercato, così accrescendo due mali: quello di una classe di mandarini, che si scambiano il posto ma non cambiano la funzione, e quello di un’imprenditoria che non sente le regole come proprie e non le vive come valori, ma solo come ostacoli e impedimenti. Per giunta con ragioni da ambo le parti, perché nell’eterna conservazione dell’esistente occorrono, nelle autorità pubbliche, più capacità d’aggirarsi nella selva delle regole che non visione strategica e volontà di disboscare, e, del resto, quelle regole sono così cervellotiche e intimamente immorali che c’è un solo modo per sopravvivere loro, farle fesse. Così proseguendo precipitiamo il Paese nella regressione corporativa e medioevale, consegnandone il governo ai magistrati amministrativi e delegando ai briganti l’innovazione. Un gran successo, non c’è che dire.

Statene certi, la fiera delle nomine si chiuderà, si conteranno i vincenti e i perdenti, i traslocati e i relegati, ma i loro nomi saranno sempre gli stessi, anche perché la nostra classe dirigente s’è immiserita in modo drammatico, perdendo quel minimo d’anticorpi che imponeva di non forzare la spartitocrazia oltre un certo limite. La mattina dopo, quando le caselle saranno riempite, ciascuno prenderà le misure per continuare il proprio Monopoli, ma, alla fine, tanto i regolatori e controllori, quanto i regolati e controllati, sapranno parlare la stessa lingua, quella del convivere, accomodare, intessere relazioni. Non ci perde nessuno, quindi? Eccome: è la disfatta del merito, l’umiliazione della qualità, la frustrazione delle speranze e l’eterna emarginazione dei giovani e dei non inseriti.

Poi, se volete, cambiate pure qualche articolo della Costituzione (che andrebbe cambiata su larga scala), così ci campiamo di seminari, nei prossimi anni.

giovedì 24 giugno 2010

Salvate il soldato Francesco Cossiga. Marcello Veneziani

Ma che fine ha fatto Francesco Cossiga? Si dichiara già morto. Ha annunciato per cinque anni la sua volontà di ritirarsi a vita privata, e tutti avevamo smesso di credergli vedendolo sparire. Poi l'ha fatto sul serio. Da tempo langue in un preoccupante silenzio. Depressione, annunci di catastrofe, ora ha deposto un ordigno-testamento in forma di libro in cui rivela di essere defunto.
Cossiga non è solo un ex capo dello Stato, un esternatore folle, o l'inventore del Cazzeggio istituzionale. Giusto vent'anni fa, col suo formidabile piccone, Cossiga mise in cinta la Repubblica italiana, anche se poi non riconobbe la figlia che ne nacque. Voi dite Mani pulite, i referendum di Segni, la Lega, la discesa in campo di Berlusconi. Tutto vero, ma vennero dopo. In principio fu Cossiga. Che per cinque anni se ne stette a cuccia al Quirinale, rispettoso del mandato istituzionale, rigoroso osservante del ruolo e della norma, per far dimenticare le fuoruscite dal protocollo del suo predecessore Sandro Pertini. Poi, vent'anni fa, dopo che era caduto il Muro e prima che il Pci si suicidasse, Cossiga cominciò a dar di matto. Picchiò duro sui pregiudizi fradici su cui si fondava la Repubblica consociativa e partitocratica. E per due anni colpì, disse la verità, suscitò la voglia di cambiare, cavalcò per primo l'antipolitica, portò la fantasia al potere. Fu il nostro De Gaulle, ma solo nella pars destruens. Infatti a De Gaulle si ispirò quando fondò il suo partito, l'Udr, che poi lui stesso sconfessò. Tentarono l'impeachment, come avevano tentato di inguaiarlo ai tempi oscuri del suo ministero degli Interni, dopo il caso Moro. Ma oggi non saremmo qui se non ci fosse stato lui. Ricordo che in quel tempo io fondai un settimanale che guardava a lui per fondare una nuova repubblica. Gli dedicai molte copertine e appelli. Sperai in lui, ma lui in cambio mi offrì un paio di belle interviste, qualche brillante conversazione e il privilegio di entrare in Senato senza cravatta, vestito da extraparlamentare ed extracomunitario. Cossiga non è un fondatore ma un affondatore, non fondava seconde repubbliche come Pacciardi; era piuttosto uno Spacciardi, perché dichiarò spacciata la Repubblica che egli stesso incarnava. Un presidente kamikaze che aveva pilotato con sorriso beffardo la prima Repubblica a sfasciarsi sul nemico. La fortuna e la disgrazia di Cossiga fu che andò al Quirinale praticamente da ragazzo, al paragone con gli altri presidenti. E tuttora, 25 anni dopo, è il più giovane capo dello Stato vivente. Siede al Senato nello scranno col numero 007, lui che amava giocare con le spie. Ma si è barricato in casa e ha depositato una bomba a orologeria. Parlo di un bel libro dal brutto titolo, Fotti il Potere, che ha scritto con Andrea Cangini. Non va in giro a presentarlo, come ci si aspetta da ogni autore e ancor più da uno come lui. Si rifiuta, si nasconde, vive la sua solitudine depressa e dichiara di essere già morto. Al di là di alcuni lati comici e grotteschi, Cossiga è un personaggio tragico. Dai tempi di Moro ai tempi del Piccone, Cossiga ha dovuto sparare il colpo di grazia a chi più amava: la Dc e i suoi capi, la cultura del diritto, la repubblica dei partiti in cui aveva prosperato. Più il Vaticano, i grembiulini, la Gladio, il Mossad, i poteri forti (Cossiga sostiene che ci furono interessi economici alle origini di Mani pulite, citando un'inchiesta dell'Italia settimanale sulla spartizione dell'Italia a bordo dello yatch Britannia). E non si è riconosciuto nelle creature che ha via via messo al mondo, il Nuovo e tutti i suoi Testimoni, il Partito e i suoi straccioni di Valmy, come li battezzò lui. Senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato né il primo comunista alla guida del governo, dico D'Alema, né la destra postfascista al potere, e forse nemmeno l'antipolitica, dico Di Pietro, Bossi e Berlusconi. Fu precursore perfino di Sgarbi e Dagospia. È lui stesso in questo libro a notare il paradosso di D'Alema portato da lui al governo con l'okay dell'America, con il compito di far entrare l'Italia in guerra con la Serbia: e D'Alema, primo comunista al potere, fu colui che bombardò con la Nato l'ultimo regime comunista d'Europa, provocando, sempre secondo Cossiga, «535 morti tra vecchi, donne e bambini». È lui lo sdoganatore dell'Msi, che poi ha criticato la svolta nel vuoto di Fini, come criticò la deriva giacobina del rustico Di Pietro, che pure era suo figliastro: la sua vanga era la versione rurale del piccone. E non solo: qui vaticina il fallimento di Berlusconi, a cui pure mostra umana simpatia e sostegno, e di cui riconosce la voglia di lasciare un segno nella storia e non di pensare alle leggi ad personam, come dicono i suoi avversari. E a differenza loro lo critica non per l'autoritarismo ma per la sua debolezza. Cossiga è tragico quando sostiene che la vita regge sulla menzogna, e la vita politica ancora di più: «La verità è che la menzogna ben più della verità è all'origine della vita, perché se gli uomini si sono evoluti è stato solo grazie alla loro capacità di mentire agli altri e a se stessi», Cossiga si diverte a dire la verità che coincide paradossalmente e tragicamente con la menzogna. La sua visione tragica è ancora accompagnata da un sardonico sorriso (l'aggettivo non è casuale per il sassarese). Ma Cossiga è tragico soprattutto perché in questo libro si sente odor di morte e di sfacelo, al punto da concludere il suo libro: «Io ero già morto ma la gente non se n'era accorta». Non vorrei spargere falsi allarmi e invadere la sua vita privata, ma temo che Cossiga stia accarezzando la tragica idea di rivolgere il piccone contro se stesso. (il Giornale)

giovedì 17 giugno 2010

Bersani è fatto così: solo i suoi “forse” sono fermissimi. Lodovico Festa

“Se Bertolaso e il Cavaliere venivano sorpresi sul lettino di un centro benessere”.
Dice Marco Lillo sul Fatto (17 giugno).
Il Cavaliere su un lettino di un centro benessere? Ma non usava solo lettoni putiniani?

“Il mio è un sì con riserva”
Dice Pierluigi Bersani alla Stampa (17 giugno).
Bersani è fatto così: i suoi “sì” sono con riserva, i “no” incerti. Solo i suoi “forse” sono fermissimi.

“Il timore che nelle 410 mila intercettazioni non trascritte ma non distrutte”.
Dice il sommario di un articolo dell’Unità (17 giugno).
Sono fantastici i giornalisti forcaioli un momento sostengono che in Italia ci sono 25 mila intercettazioni poi per esibire la forza dei loro eroi in toga spiegano che in una sola vicenda giudiziaria vi sono ancora “410 mila” (diconsi “410mila”) intercettazioni non trascritte.

“E il sindacato di Detroit sceglie un avvocato come leader”.
Dice il titolo di una nota sul Corriere della Sera (17 giugno).
Mica come quegli sfigati della Fiom di Pomigliano che si sono scelti come leader l’ex pm Di Pietro (utilissimo per trovare un appartamento non un posto di lavoro!).

“Nessuno può obiettare che dopo un quindicennio abbondante di abusi che lo scempio delle intercettazioni diffuse senza criterio a mezzo stampa andasse regolamentato per legge”.
Dice Alessandro Campi sul Riformista (17 giugno).
Interessante la linea campian-finiana: sabotare senza obiettare, solo per sfizio.

Spatuzza pirandelliano. Davide Giacalone

Discutendo pubblicamente di un siciliano criminale, Gaspare Spatuzza, l’Italia rende involontario omaggio ad un grande siciliano, Luigi Pirandello, mettendone in scena uno dei suoi ribaltamenti della verità. Con assai meno fascino, però, e sicuramente in modo rozzo, perché ‘u tignusu è un animale assassino, ma non il cretino che certuni vorrebbero far credere.

E’ stato arrestato nel 1997 e se ne è stato zitto, per nove anni, in un carcere di massima sicurezza, seppellito nel cemento, ma ancora in grado di comunicare. Dice di avere avuto una crisi mistica, lui che aveva ammazzato don Puglisi, che aveva strangolato e sciolto nell’acido un ragazzino, che per i fratelli Graviano aveva ammazzato decine di volte. Non m’intendo di mistica, ma mi permetto di non crederci. Sta di fatto che, nell’estate del 2008, inizia a collaborare. Non parte compiacendo i procuratori che lo interrogano, come fanno molti, ma trafiggendoli con i riscontrati racconti sull’omicidio di Paolo Borsellino. Così un intero processo, passato in tre gradi di giudizio e la cui sentenza è divenuta definitiva, non solo deve essere ribaltato, ma inquirenti e giudicanti ci fanno la figura, a dir poco, dei superficiali. Lui, Spatuzza, rubò o preparò la macchina che esplose, mentre, fino a quel momento, la giustizia aveva creduto ad un soggetto più assurdo che improbabile, spiantato, drogato, frequentatore di transessuali (la “sdillabbrata”, la sua preferita) e, con tutte queste belle caratteristiche d’affidabilità, raccontò di avere preso parte a vertici mafiosi. Una boiata cubica, che al processo s’era rimangiato. Eppure la giustizia s’era bevuta tutto.

Spatuzza, dunque, era credibile. Un collaborante prezioso, anche se scomodo, visto che distruggeva il lavoro di diverse procure. Il colpo di scena arriva nel dicembre del 2009, quando la procura di Palermo lo porta nell’aula del processo a Marcello Dell’Utri e lo fa parlare, in mondovisione, e qui Spatuzza afferma che l’imputato Dell’Utri era il tramite fra la mafia, nelle persone dei Graviano, e Berlusconi, che fra i due gruppi c’era stata una trattativa, relativa alla liberazione dei due fratelli, i quali, in cambio, organizzarono le stragi, volute da Berlusconi. Racconto immediatamente incenerito dai Graviano stessi. Il più influente, il capo, aggiunge un particolare: perché mai avrei dovuto trattare la mia liberazione, visto che avevo da scontare poche settimane e nessun altro procedimento pendente? Già, perché? Ma la domanda vera è: perché Spatuzza si produce in quello spettacolo?

A chi glielo domanda egli dice di non avere rivelato prima quelle cose, incorrendo nella violazione della legge che impone di dire tutto entro i primi sei mesi di collaborazione, perché aveva paura, visto che Berlusconi era diventato capo del governo. Peccato che, quando si decide a rivelare, il presunto mandante delle stragi è ancora capo del governo. Perché, allora, se le sue non sono parole in libertà, la paura gli è passata? E perché continua a genuflettersi ai suoi padrini, i Graviano, che gli fanno fare la figura della testa di minchia? In attesa delle risposte, arriva la decisione della commissione del Viminale, che gli nega la protezione speciale, dedicata ai pentiti. E qui parte lo scandalo pirandelliano: hanno voluto punirlo perché ha parlato, perché ha detto cose indicibili. No, calma, rimettiamo in fila i fatti.

Lo status di pentito gli fu riconosciuto proprio in coincidenza con le dichiarazioni su Dell’Utri, quindi, se proprio si vuole vedere un rapporto di causa effetto, questo funziona all’esatto contrario: fu un premio. La protezione, del resto, si riferisce a quelli che possono essere liberati, giacché standosene in un carcere di massima sicurezza di rischi se ne corrono pochi. Quindi, chi mena scandalo, evidentemente, aveva messo nel conto un premio maggiore: la liberazione (che questi disonorati ottengono trattando con i magistrati, ai quali raccontano che per averla trattarono con i politici). Il diniego della protezione speciale, del resto, non inficia minimamente la credibilità e utilizzabilità del collaborante, sicché le cose che ha detto valgono tanto quanto prima. Tutta questa polemica, all’immediata vigilia della sentenza su Dell’Utri, non porta bene all’imputato, che non si agevola della pretesa punizione di chi ha già parlato, ma, semmai, sconta il danno della buriana su chi si appresta a parlare, i suoi giudici, se non daranno ragione all’accusa. E, semmai, c’è da chiedersi il perché furono i procuratori a bruciare un collaboratore di sicura credibilità, esponendolo ad una deposizione non solo priva di qualsiasi riscontro, ma illogica da cima a fondo. Sicché, concludendo, i responsabili di quel che è accaduto si trovano proprio in procura e non al ministero dell’Interno, sul quale ricade l’irrituale responsabilità di avere applicato la legge.

La nostra realtà, insomma, è come l’umorismo di cui parlava Pirandello: “erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta”.

mercoledì 16 giugno 2010

Quando i comunisti italiani tifavano Urss (altro che Trota). L'uovo di giornata

"Rinascita", quotidiano comunista (si può dire?), titola oggi così sulla Lega che tifa Paraguay: "Per fortuna! temevamo di fare il tifo per la stessa squadra!".Noi tifosi dell'Italia anticomunisti non avemmo mai questo dubbio negli anni sessanta.
Il 10 novembre 1963 a Roma allo Stadio Olimpico si giocò Italia-URSS per le qualificazioni ai Campionati Europei.
Lo stadio era gremito e sotto un enorme striscione inneggiante all'amicizia con l'URSS stazionavano migliaia di tifosi comunisti che fecero un tifo d'inferno per i russi. Al momento del vantaggio sovietico si udì chiaramente l'ovazione, ma lo striscione non fu mai inquadrato dalle telecamere (apparve solo il giorno dopo su qualche giornale).
L'Unità scriveva nella cronaca del giorno successivo: "...c'erano, logicamente, migliaia di persone piene di simpatia per i sovietici...la folla cominciava giustamente a dividersi tra tifosi liberi di parteggiare per l'uno o per l'altro.."Nelle pagelle, la stessa Unità, dava come voto ai russi ben tre 9 e quattro 8, facendo man bassa nel vocabolario per gli aggettivi: inarrestabile, entusiasmante, elevatissimo, perentorio, inesorabile, geniale, grintoso, stupendo, prodigioso, fulmineo, imprevedibile, roba da esame di giornalismo.Per la cronaca, la partita finì 1-1 e l'Italia fu eliminata avendo perso 2-0 a Mosca.
Nessuno fiatò il giorno dopo, neanche nel centrodestra: il fatto che i comunisti parteggiassero per l'URSS era dato per scontato, del resto la loro bandiera era identica a quella sovietica e le loro opinioni andavano di pari passo.
Oggi noto che a sinistra lo spartito è cambiato, non è più "democratico" scegliere per chi tifare: il tifo va fatto obbligatoriamente per l'Italia. Buono a sapersi, abbiamo dovuto aspettare un po' ma alla fine, se abbiamo perso qualche leghista, abbiamo acquistato un sacco di democratici.
Per inciso voglio aggiungere che a Firenze, città notoriamente rossa, dove la partita era data su maxischermo allo Stadio Franchi, al gol del Paraguay diverse decine di persone hanno esultato abbondantemente (la Nazionale non è gradita a molti fiorentini), ma questi non se li è filati nessuno.
Allora adesso tutti insieme gridiamo: "Forza Italia!" (nel senso della squadra, beninteso). (l'Occidentale)

venerdì 11 giugno 2010

Il Duce riabilitato. Arturo Diaconale

Nessuno lo avrebbe potuto mai prevedere. Tanto più chi ha vissuto durante la ventata della nuova Resistenza, della fase “laica, democratica e antifascista”, dell’arco costituzionale che avrebbe dovuto riproporre l’alleanza tra i vecchi partiti del Cnl e fissare i paletti di legittimità oltre i quali c’era solo il nero fascismo di ritorno. E non solo quelli delle prime generazioni del secondo dopoguerra ma anche quelli delle ultime e più recenti generazioni. In particolare quelli che hanno ascoltato le parole di Gianfranco Fini sul “fascismo inteso come male assoluto” e , quindi, condiviso il giudizio insito in questo concetto secondo cui il fondatore del fascismo, Benito Mussolini, debba essere considerato come il genio del male. Bene, chi è vissuto respirando l’aria spessa e densa di odori forti e netti dell’antifascismo , non può non rimanere stupito ed interdetto di fronte alla bizzarra circostanza che, in occasione del settantesimo anniversario del discorso con cui il Duce annunciò da Palazzo Venezia l’entrata in guerra dell’Italia, gli eredi diretti della nuova Resistenza, dell’antifascismo militante, della teoria dell’arco costituzionale ed i neofiti del fascismo male assoluto e di Mussolini genio del male, abbiano avviato una operazione di aperta e dichiarata riabilitazione del Cavaliere della prima metà del secolo scorso. Mussolini? Dittatore si ma, comunque, condizionato da Chiesa, monarchia, esercito, grandi industriali oltre che dai ras e dai gerarchi. Ed il fascismo? Regime autoritario senz’altro ma incapace di diventare totalitario a causa della sua sostanziale inefficienza.

E, soprattutto, Mussolini dittatore e fascismo autoritario sicuramente ma neppure da paragonare all“uomo solo al comando” dei nostri tempi ed al moderno regime che attraverso il controllo delle televisioni modella e condiziona i cervelli e le anime degli italiani. Insomma, Mussolini sarebbe un despota dilettante rispetto a quello professionista rappresentato da Silvio Berlusconi. Di conseguenza, di fronte all’esistenza attuale di un genio del male infinitamente superiore a quello del passato, quest’ultimo diventa automaticamente un genio del male relativo, che finisce automaticamente con l’essere rivalutato e riabilitato se rapportato e confrontato con il modello perfezionato e peggiore rappresentato dal Cavaliere dei nostri giorni. Non si tratta di una rappresentazione paradossale e farsesca del momento presente. Si tratta, purtroppo, di un dato reale. Pare che una sorta di nevrosi ossessiva si vada diffondendo tra gli uomini e le forze che sono schierate all’opposizione e li spinge a dare una rappresentazione sbiadita del passato pur di tratteggiare con colori marcati e violenti la realtà politica attuale. Questa sindrome, che produce esasperazione a getto continuo, nasce da precise ragioni politiche. Dipende dalla delusione di chi aveva sperato che prima l’offensiva giudiziaria, poi quella del gossip, successivamente quella degli scandali ed ora la più pericolosa di tutte rappresentata dalla crisi dell’euro e dell’economia occidentale, potessero compiere il miracolo di spiantare Silvio Berlusconi dal centro della scena politica nazionale. Ma, pur avendo cause politiche, non sembra in grado di spingere chi soffre di questa nevrosi e di questa delusione verso uno sbocco di natura politica. Gran parte dell’opposizione cede alla sindrome, si rifugia nell’esasperazione, si crogiola nella delusione impotente ed arriva addirittura a rimpiangere l’antico dittatore pur di poter meglio esecrare quello che, come ha detto Antonio Di Pietro, potrà essere rimosso solo se il Signore se lo richiamerà a miglior vita. Insomma, cose da pazzi! Che in termini politici si traducono nel rafforzamento continuo del Cavaliere di oggi. Gli italiani sono pratici. E sanno di non avere scelta se l’alternativa a Berlusconi è solo la follia collettiva! (l'Opinione)

martedì 8 giugno 2010

La Busi. Paolo Barnard

"Oggi quella del TG1 è un'informazione parziale e di parte". Questo dice la Busi, oggi, siamo nel 2010, lo dice oggi, e diventa un'eroina all'istante. Ventun'anni a servire nella cloaca del TG1 senza fiatare, e oggi per un'alzata di testa che non trova ragioni possibili nella morale, Busi gira in rete con l'etichetta di "Grande donna e grande giornalista". E' una scena da film di Totò, l'idiozia di chi ci casca è da film di Totò, il mio Paese è un film di Totò. Cioè una tragedia.p.s. Indovinello: ricordate Gruber, De Magistris? unite i puntini e ditemi dove troveremo la Busi fra qualche tempo, e con quale simbolo. Vincete un dvd di Totò.

martedì 1 giugno 2010

Veltroni, tra amnesie e self-promotion. Daniele Capezzone

Siamo adulti e vaccinati, e quindi comprendiamo bene l’esigenza di un leader politico in difficoltà di reinventarsi, di cercare nuove strade, di immaginare un nuovo “racconto”, di aprire nuovi sentieri. È il caso di Walter Veltroni: sconfitto alle elezioni, estromesso dalla guida del suo partito, improvvisamente un po’ più solo dopo anni di potere (nazionale e romano), l’ex segretario del Pd avrebbe potuto dare finalmente seguito alla sua idea, per lunghi anni solennemente annunciata sui giornali e alla tv, di dedicarsi ad altro, e in particolare all’Africa. E invece no: è prevalsa una rispettabilissima voglia di rimanere in campo e di riproporsi su un terreno tradizionalmente politico.
Pensa e ripensa, c’era una sola cosa che poteva tenerlo dentro il dibattito politico ma (apparentemente) lontano dai tatticismi dell’arcinemico D’Alema, consentendogli di darsi un’immagine fortissimamente antiberlusconiana (e quindi non sgradita al “partito di Repubblica”, alle procure, ai santoristi, ai dipietristi, ecc.) e al tempo stesso di tentare di agganciare un pezzo di opinione pubblica che oscilla “savianescamente” tra una giusta esigenza di pulizia della vita pubblica e una spiacevole e pericolosa furia moralistica, dalla quale non è mai nato nulla di solido e meno che mai di liberale. Elementare, Watson: si trattava di riciclarsi in veste antimafia. E allora, nel breve volgere di pochi mesi, ecco l’ingresso nella commissione parlamentare antimafia e una serie di sortite pubbliche, fino all’ultima “rivelazione”: la necessità di riscrivere la storia delle stragi mafiose del ‘93, insinuando un oggettivo (e chissà, forse non solo oggettivo) ruolo di quegli eventi nell’aprire la strada ad una nuova forza politica (indovinate voi quale).
A ben vedere, la fragilità di tutto l’impianto appare evidente, per almeno quattro buone ragioni. Primo: se Veltroni sa qualcosa di concreto e di preciso, ha il dovere di recarsi da un magistrato e di formulare accuse precise e circostanziate. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie. Secondo: è per lo meno curioso che tutta questa “voglia di verità” venga fuori solo adesso, diciassette anni dopo, al termine di tre lustri e mezzo nei quali Veltroni non è stato un “quisque de populo”, ma un Vicepresidente del Consiglio, un ministro, un sindaco di Roma e un Segretario del secondo maggior partito italiano. Terzo: il governo Berlusconi è l’Esecutivo che ha centrato una serie di successi impressionanti nella lotta contro la criminalità organizzata (361 superlatitanti arrestati, 4000 beni confiscati, oltre 2 miliardi sottratti ai boss). Tutto ciò è forse merito di Veltroni e dei suoi laudatores? Quarto: chiunque non sia culturalmente e politicamente bollito è stufo della solita minestra riscaldata, quella per cui l’intera storia d’Italia degli ultimi cinquanta-sessant’anni andrebbe letta come un mostruoso complotto anti-Pci (ad opera dei “perfidi” americani, con la complicità assortita di mafia, massoneria, servizi deviati e manovalanza terroristica varia) per impedire ai comunisti di arrivare al governo. Davvero Veltroni, nel 2010, crede di poterci ancora ammannire questa roba?
I consigli si danno solo a chi li chiede, ma, se proprio possiamo fornire qualche suggerimento gratis, sarebbe il caso che Veltroni si dedicasse a “misteri” che sono più alla sua portata e sui quali potrebbe fornire informazioni dirette e di prima mano. Un paio di esempi? La partecipazione del Pci-Pds-Ds alla lottizzazione Rai degli ultimi trent’anni, e il buco emerso nel bilancio del Comune di Roma al termine dell’avventura del Veltroni sindaco. Ma è comprensibile che occuparsi di questo gioverebbe un po’ meno alla self-promotion veltroniana. (il Velino)

lunedì 31 maggio 2010

Il peggio dell'Italia. Christian Rocca

C'è una personalità che incarna più di ogni altra lo sfascio di questo paese? Sì, c'è. E' Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, che da mesi imperversa per le procure della repubblica, della televisione e della carta stampata a spararle sempre più grosse. Un personaggio, questo, già definito inattendibile da un tribunale, eppure ogni giorno all'origine di una nuova rivelazione, di un nuovo mistero, di un nuovo scandalo su cose di venti o trenta anni fa. Un giorno svela memoriali segreti, il giorno dopo si scopre che sono falsi. Un giorno parla di una cosa, il giorno successivo tace. Un giorno Berlusconi è mafioso, il giorno dopo è una vittima. Un giorno riconosce un tal "signor Franco", cioè un pericoloso agente segreto, in una foto pubblicata su un mensile dei Parioli, il giorno dopo si scopre che il tizio della foto non c'entra niente. Sospetti, insinuazioni, suggestioni maliziose. Sputtanamento, oltre ogni soglia della decenza e del ridicolo, naturalmente sempre in prima pagina, come se si trattasse di cose serie. Il peggio dell'Italia non è lui, il peggio di questo paese è chi continua a dargli retta nelle procure, nelle televisioni, nei giornali. (Camilloblog)

venerdì 28 maggio 2010

La crescita di Telese. Orso Di Pietra

Quando faceva il portavoce di Rifondazione Comunista spianava la strada con grande gentilezza alle dichiarazioni dell’allora segretario Fausto Bertinotti. Quando lavorava a “Il Giornale” si dichiarava “un comunista impegnato in un giornale di destra” e si ingraziava con grande cortesia gli esponenti politici dell’allora Alleanza Nazionale. Ora che si trova a “Il Fatto” e che, soprattutto, conduce programmi televisivi con piglio santoriano, non perde occasione per accapigliarsi con grande animosità con chi gli capita a tiro dei personaggi di spicco del centro destra. L’obbiettivo perenne di Luca Telese è di diventare un grande. Peccato che a dispetto degli sforzi non riesca a crescere neppure di un centimetro! (l'Opinione)

giovedì 27 maggio 2010

"Lì le intercettazioni non vengono pubblicate". Christian Rocca

Ho scritto più volte del paradosso dell’Economist: il miglior giornale del mondo con la peggiore copertura dei fatti italiani dell’universo (dopo quella dei giornali italiani stessi). Del resto l’Economist è il settimanale che dopo aver avuto come corrispondente dall’Italia Luigi Einaudi si è ridotto a pubblicare le analisi di Beppe Severgnini e Tana de Zulueta. L’attuale uomo dell’Economist in Italia si chiama David Lane, un subprodotto del travaglismo d’Oltremanica, capace di esprimere per iscritto tutta la puzza sotto il naso verso i popoli mediterranei che solo gli anglosassoni sanno avere. Oggi, intervistato da Repubblica, dice una serie di cose insensate sul pessimo ddl sulle intercettazioni (cose tipo: il ddl non riguarda i reati mafiosi, ma spesso alla mafia si arriva da altri reati) ma poi, alla domanda del giornalista di Repubblica che gli chiede "In Inghilterra le cose sono diverse?", risponde: «Lì le intercettazioni non vengono pubblicate». (Camilloblog)

martedì 25 maggio 2010

Sputtanopoli e il fantasma di Google. Il Foglio

Il fantasma di Google si aggira per l’Europa. I garanti della privacy di Italia, Francia, Germania, Spagna e altri paesi membri dell’Ue hanno messo nel mirino le immagini disponibili in “Street view”. “Non è accettabile che una compagnia che opera nell’Ue non rispetti le regole Ue”, ha detto la Commissaria alla Giustizia Viviane Reding. Tutto bene, anche se il bambino della privacy rischia di affogare nell’acqua sporca dell’isterismo. Ci chiediamo però: perché tanto rumore per Google, e tanto poco, per esempio, per le intercettazioni? Sono cose molto diverse, ma insieme non si tengono. Google almeno fa qualcosa per la privacy, come l’oscuramento dei volti e delle targhe degli autoveicoli su Street View. Molti dei dati che circolano sono stati immessi direttamente dai loro titolari: fino a che punto possiamo chiedere a Google di difenderci dalla nostra irresponsabilità? Altri dati ancora sono inseriti nella rete da utenti terzi: fino a che punto possiamo prendercela con Google?

Sono domande complesse, a cui non pretendiamo di rispondere. Sono domande, però, che lasciano aperto un ampio spiraglio al dubbio. Al contrario di Google, le intercettazioni non sono mai effettuate per volontà degli intercettati. La loro diffusione – spesso illecita – può causare un danno enorme, e permanente, a chi ne viene colpito senza costrutto per le indagini. La proposta di legge per limitarne la circolazione può non essere perfetta, ma non può essere chiamata un bavaglio. E’ un tentativo, migliorabile, di proteggere la privacy di persone incolpevoli (fino a prova a contraria), colpevoli solo di aver chiacchierato, magari improvvidamente. Molte intercettazioni non dovrebbero essere neppure fatte; una volta fatte, dovrebbero essere distrutte perché non contengono notizie di reato; se conservate, dovrebbero essere trattate con cautela. Lo hanno ricordato i liberali e moderati Piero Ostellino, Luca Ricolfi e Pierluigi Battista su Corriere e Stampa. La sensibilità anglosassone per la privacy ci contagia quando vediamo su Internet una foto di gente alla fermata del tram: perché non ci lasciamo contagiare dalla stessa indignazione di fronte allo sputtanamento telefonico di massa?

Leggi Basta con Sputtanopoli, inchieste-portineria, giornalismi-origliatori di Giuliano Ferrara

domenica 23 maggio 2010

Nel "capitalismo relazionale" dell'Italia contano solo peones e superburocrati. Raffaele Iannuzzi

Mi basta e mi avanza. Flores d’Arcais sul Fatto Quotidiano, organo dell’Idv e di Travaglio, fa l’apologia dell’“antipolitica democratica” e chiede che si faccia avanti. Se ci sei, antipolitica, batti un colpo. E liberaci dai farabutti ladri e dalla mediocrità fuori stagione e per ciò fin troppo stagionata del Pd. Penoso. Quando Flores vedeva come il fumo negli occhi Berlusconi, fino al punto di scrivere su Micromega, l’organo dei giacobini forcaioli italioti, dell’esistenza di “due Italie”, quella della gente onesta e quella dei manigoldi berlusconiani, l’antipolitica era sterco del demonio. Oggi, è la panacea di tutti i mali. Contro la Casta e avanti tutta. Verso dove? Chi lo sa? Nel frattempo, vieni avanti cretino. Il punto è che Flores è quello che è, ma, anche nel Pdl, ci vorrebbe un po’ più di raziocinio politico.

La politica oggi è culo e camicia con l’economia perché questo Paese non cresce e non ha un capitalismo decente. Forse non ha neanche un capitalismo vero e proprio. In queste operazioni di scambio, conta solo il capitale relazionale, quanta gente importante conosci e come puoi usarla e farti usare. Si capisce allora che il burocrate scafato e pronto a tutto, che solleva la cornetta e mette a posto le cose, sia un valore aggiunto decisivo. Le cose funzionano così. La “cricca” è fatta di questa gente. E non potrebbe che essere fatta da altri. Perché, con le Bassanini, il Funzionario è il Re Sole – lo Stato sono io! – e il Politico è il manutengolo di risulta. Questa è la verità. Con le Bassanini, lo stato è morto. L’antipolitica fa il gioco di questa supercasta di burocrati perché arpiona il moloch sfibrato della Casta e trascura la Balena Bianca di nuova fattura: i superburocrati. Leggere, prego, Bechis su Libero. Una bella tabellina con gli emolumenti di questi civil servant, come vengono pomposamente chiamati anche sulle rive del Mediterraneo. Basta leggere. Vogliamo allora ridurre gli stipendi dei parlamentari? Benissimo.

Vogliamo costringere i parlamentari, come scrive Giacalone, a fare una tabella di marcia con i tagli e la tempistica’ Meraviglioso. Sappiate che quest’operazione – di per sé ottima sul piano della comunicazione istituzionale con quel tanto di strategia della rassicurazione che le è connaturata – sarà come pettinare le bambole, come si dice a Roma. In Toscana si dice in un altro modo, più pittoresco, ma lo risparmio ai miei venticinque lettori (antipolitici per lo più, mi auguro…). Allora, qual è il nodo? Uno soltanto: la politica deve ritrovare la forza di un progetto storico. Con il tigre nel motore: idee, ideali, classe dirigente. La classe dirigente del Pdl è mediocre. Al pari di quella del Pd, che fa ridere i polli. La selezione della classe dirigente appartiene al medesimo mercato che i politologi chiamerebbero trade-off, scambio, mercimonio, diciamo pure: io ho questo ragazzo bravo, sì, dài mettimelo in lista, ma che passi, poi ci penso io per quella cosa che sai…

Funziona più o meno così, salvo i dettagli che variano da contesto a contesto. Entrano in Parlamento personaggi che non saprebbero allacciarsi le scarpe senza l’aiuto di un valido consulente e cosa dobbiamo aspettarci? Alla prima occasione, egli si sentirà gratificato di una certa attenzione quando si dovrà far passare, con l’aiuto del tal ministro, il tal funzionario di seconda fascia al rango di commissario dei lavori pubblici sul tal territorio. Una nullità che non saprebbe come mettere insieme il pranzo con la cena si ritrova a sminestrare in ambiti così grossi, dove girano i soldi e si fanno le operazioni, come si dice nel gergaccio dei mammasantissima delle cricche di varia estrazione, anche sinistrorsa, vedi la Puglia.

Ma, accanto al peone santificato, c’è il burocrate scafato e cinico. Questo vuole arrivare, l’ha messo in prima fila il personaggio grosso, deve fare, brigare, usare le carte come leve militari. Da solo vale come il politicante di nona fila, non saprebbe neanche trovare il posto per fare il commesso, i concorsi per dirigenti di primo livello non si fanno più, la Costituzione è abrogata, conta solo quando c’è Dossetti come santo e Berlusconi come diavolo, dunque adelante: faso tuto mi. Altro che il Berlusca! Nomi così li ritroviamo in quella lista di Bechis. Gente intercettata e ben pasciuta alla greppia dello stato, senza talenti ma con molto talento familiare o relazionale. Questa è l’Italia dei cachi, per dirla con Elio e le Storie Tese. E voi pensate che, con questo pesante aquilone, si voli? (l'Occidentale)

giovedì 20 maggio 2010

Ma che volete da Michele? E' solo Sant'Oro. Antonio Polito

Ma che volete da Michele Santoro, o voi popolo del blog, o voi straffatti del Fatto, o voi professionisti dell'antiberlusconismo, o voi moralisti di ogni colore e risma? Ma che, credevate davvero che fosse Robin Hood, Emiliano Zapata, il sub-comandante Marcos?

L'ex Michele-chi è solo - e scusate se è poco - un notevole professionista dello spettacolo televisivo, nel suo caso sotto forma di informazione, che ha fatto un formidabile accordo con la sua azienda mettendo a frutto il suo valore di mercato. Ha fatto lo scivolo, come in tante aziende editoriali, una specie di pre-pensionamento: tre anni di buonuscita a sei anni dalla pensione. È un giornalista che si trasforma in editore - non il primo, a dire il vero - e in quanto tale fornirà alla Rai 14 docu-fiction di 130 minuti l'una al prezzo di un milione ciascuna, per complessivi 14 milioni in due anni. Che c'entra la morale, che c'entra la politica? Business is business, perché proprio Santoro avrebbe dovuto fare il francescano? E, per favore, lasciate stare il pianto greco sulla crisi: nessuna crisi sospende il mercato.

Fessi voi, che vi eravate convinti che Michele fosse un santo: è solo Sant'Oro. Voi che avete sperato che un giornalista tv potesse guidare un partito extraparlamentare, vendicare i torti, proteggere i deboli, giustiziare i potenti. Santoro è andato e venuto, dal Pci alla Rai a Mediaset, poi di nuovo alla Rai via giudice del lavoro e ora fuori della Rai a farsi le cose sue, le cose che sa fare e vendere bene.

Ma come, direte voi, ha fatto pure l'europarlamentare dell'Ulivo. Sì, ma solo il tempo necessario per tornare a fare il giornalista, che è il suo mestiere e la sua vocazione. Ma come, direte voi, ci ha chiamato alle mobilitazioni di piazza, anzi di PalaDozza, per difenderlo dalla censura berlusconiana. E che doveva fare? Aveva un mercato e l'ha fatto pesare. Si è coltivato il suo pubblico, e se il suo pubblico vive di grandi passioni politiche lui le ha giustamente allevate e interpretate. E, al momento del bisogno, le ha evocate.

Tornate nel mondo reale, o voi in cerca di un taumaturgo che vi liberi dal Male. Michael Moore fa i soldi, Sabina Guzzanti fa i soldi, Marco Travaglio fa i soldi, Michele Santoro fa i soldi. Fanno il loro mestiere, lo fanno bene, e vendono i loro prodotti. Sono prodotti carichi di moralismo e demagogia? Embè? Si vede che è quello che a voi piace, che li consumate avidamente, che siete il loro mercato. Non chiedete loro più di quanto possano darvi. Non conducono una lotta tra il Bene e Berlusconi, conducono le loro aziende. Se proprio volete liberarvi del Caimano, dovrete procedere altrimenti.

L'unico modo è mandare in Parlamento il numero di deputati sufficienti a disarcionarlo. Santoro fa ascolti, l'opposizione ha bisogno di voti, e non sono proprio la stessa cosa. Meglio così. La Rai berlusconiana ha fatto un affare: si è liberata di Annozero. Michele Santoro ha fatto un affare, e non c'è bisogno di spiegare perché. E la sinistra italiana pure ha fatto un affare, se la lezione le serve a capire che la politica non è un talk show. (il Riformista)

domenica 16 maggio 2010

Pesi e misure. Orso Di Pietra

Pare che inesausto Anemone abbia fatto svolgere dai propri operai lavori di restauro e di falegnameria nelle case di molti pezzi grossi. Ognuno di questi ha assicurato che non si è trattato di favori ma di operazioni legittime regolarmente fatturate e pagate. Ma, come è emerso da un servizio di Fiorenza Sarzanini sul “Corriere della Sera”, mentre le spiegazioni con relative pezze d’appoggio date da Guido Bertolaso sono state considerate pretestuose e poco credibili, quelle dell’ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro e del suo successore Antonio Manganelli sono state giudicate assolutamente convincenti ed esaurienti. Bertolaso, naturalmente, si è seccato della faccenda. Ed ha protestato contro la pratica dei due pesi e delle due misure usata dal quotidiano di via Solferino. Ma la sua è stata una fatica inutile. Se fosse esperto della carta stampata così come lo è della Protezione Civile saprebbe che anche al Corriere vige la regola dei vecchi cronisti del “ che se deve fa pe’ campa!” (l'Opinione)

sabato 8 maggio 2010

Dare fiducia subito. Daniele Manca

Le fiamme sono state lasciate correre. E improvvisamente ieri notte a Bruxelles i capi di Stato e di governo dell’Eurozona, con un Obama più che preoccupato in collegamento dall’altra parte dell’Atlantico, si sono resi conto che per spegnere l’incendio finanziario era necessario dispiegare l’intera forza politica dei due Continenti. In gioco c’è il possibile crollo dell’euro. Con esso una seconda pesante recessione nel Vecchio Continente con conseguenze difficili da immaginare.

La situazione ricorda quella dell’autunno del 2008. Vale a dire quando fallì la banca d’affari Lehman. Con una differenza, oggi a fare da miccia è uno stato: la Grecia. La cui crisi si è manifestata già nei primi mesi del 2010 ma che con inspiegabile leggerezza non è stata affrontata dall’Unione europea e dai Paesi membri con la forza necessaria e nei tempi giusti. Solo ieri notte i leader mondiali hanno preso misure eccezionali, la cui efficacia si vedrà lunedì alla riapertura dei mercati.

La situazione è precipitata nelle ultime 48 ore. I segnali preoccupanti sono arrivati inizialmente dalle Borse che hanno registrato non solo forti ribassi, ma anche errori tecnici e incursioni della speculazione pronta a vendere titoli convinta di poter ricomprare a prezzi inferiori, scommessa che si è rivelata vincente. Ma a rendere evidente a banchieri centrali prima e a governi poi che la situazione rischiava di precipitare è stata ancora una volta una crisi di fiducia.

Le banche sui mercati interbancari hanno iniziato a registrare difficoltà nel trovare altri istituti che prestassero loro denaro se non a tassi di interesse maggiorati. Hanno poi iniziato a impennarsi i prezzi dei famigerati Credit default swaps (quella sorta di polizza che gli operatori di mercato usano per assicurarsi contro il possibile non rimborso dei titoli di Stato e quindi il fallimento dello Stato stesso). E se fino a qualche giorno fa questo era accaduto per i Paesi deboli della zona euro come Grecia, Portogallo, Spagna, di colpo anche l’Italia ha iniziato a soffrire. Questo nonostante una situazione di conti pubblici da tutti riconosciuta come solida pur a fronte di un debito pubblico elevato. Mettendo in discussione la solidità della settima potenza industriale al mondo è stato chiaro che a venir meno era la fiducia sulla intera area dell’euro.

Per troppi mesi l’Unione europea e anche la stessa Banca centrale, hanno pensato che la moneta unica potesse garantire di per sé senza alcun tipo di azione, uno schermo eterno e impenetrabile. Ma se l’euro è uno non tutti i Paesi sono uguali: ecco dove è stato l’errore. L’Europa deve essere unita nel reagire e a maggior ragione deve esserlo il governo italiano. Governo, e va a suo merito, che a Bruxelles ha avuto un ruolo decisivo. Ora la politica dia una risposta forte. Si evitino liti su temi marginali, senza falsi ottimismi si dica che anche l’Italia non è immune dalla crisi. Averne consapevolezza ci aiuterà a superare prove che in futuro potranno rivelarsi difficili. (Corriere della Sera)

giovedì 6 maggio 2010

Lo scorpione e la rana. Marco Bombagi

Le cronache dal mondo in crisi economica ci descrivono una realtà surreale, sospesa tra dramma e farsa. La Grecia, travolta da un debito gigantesco, sta rischiando la bancarotta e necessita di aiuti da parte del Fmi e dell’Europa, che, tradotto, vuol dire Francia e Germania. Tre deputati tedeschi a suo tempo già lanciarono la proposta risolutrice: “vendetevi le isole, almeno quelle disabitate”. Magnanimi. La ferma risposta di Atene: “Non ci sembra un suggerimento appropriato”.
La situazione è grave ma non è seria, avrebbe detto Flaiano a proposito della questione greca, ma altrove è soprattutto grave. Nel Regno Unito, dove un’ampia fetta del Pil nazionale viene prodotta in un chilometro quadrato nella City di Londra, lo tsunami scatenato dal terremoto subprime ha trasformato, in tre anni, quella che sembrava un’isola felice (per loro) in un “esempio delle conseguenze del liberismo sfrenato”, come scrive l’Economist. Negli Usa, dopo gli oltre 700 miliardi di dollari del piano-Paulson, la disoccupazione dilaga mentre le banche, dopo aver usufruito degli aiuti, proseguono nella politica di stretta creditizia, ignorando i problemi di milioni di persone destinate a finire sulla strada.
Non è un caso che, tra i Paesi occidentali, proprio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna siano i più colpiti, dato che entrambi, già da due decadi, dipendono dalle banche. Un anno fa il Telegraph infatti scriveva che "il Paese guarda il precipizio. Siamo a rischio della peggiore umiliazione, con Londra che diventa una Reykjavik sul Tamigi e l'Inghilterra che finisce sott'acqua. Grazie all'arroganza alla presuntuosa incompetenza seriale del governo e di un gruppo di banchieri, la possibilità di una bancarotta nazionale non è irrealistica". Dopo un anno pare che le cose non siano cambiate granchè. L'Independent rincara: "Uno dei principali investitori mondiali dà voce alle preoccupazioni del mercato. Jim Rogers, cofondatore della Quantum con George Soros, dichiara a Bloomberg: 'Vi consiglio urgentemente di vendere tutte le sterline che avete. È finita. Odio dirlo, ma non metterei più denaro nel Regno Unito'". E per concludere degnamente, il Guardian: "In privato qualcosa di molto somigliante alla disperazione sta cominciando a serpeggiare nel governo. Dopo aver visto lo scivolone delle banche, un Ministro del Gabinetto inglese non scherzava quando ha detto: 'Le banche sono fottute, noi siamo fottuti, il Paese è fottuto'". Quando si dice aplomb britannico...
Una scelta dunque tra realtà e finzione finanziaria a vantaggio della seconda. "Oggi la speculazione monetaria" sostiene Internazionale di cinque mesi fa che riportava un'inchiesta di Der Spiegel "è venti volte il volume degli scambi commerciali. [...] L'attività finanziaria è scollegata dalla realtà e ha la forza di distruggere la ricchezza di interi settori industriali, anzi, di interi Paesi". Su questa linea si pone la lucida analisi di Massimo Fini nel suo "Il denaro, sterco del demonio": "Al fenomeno della finanziarizzazione del denaro" scrive "si accompagna quello della sua progressiva smaterializzazione. Il denaro perde i residui contatti con la materia in cui si era via via incarnato".
Lo sforzo salvifico profuso dai governi, negli ultimi due anni, per rivitalizzare le banche che avevano causato la crisi rovinando milioni di persone, non è stato del tutto vano. Il sistema finanziario, in effetti, ha tirato un bel sospiro di sollievo e ora la giostra è ripartita di gran lena. Peccato però che per applicare il massaggio cardiaco agli istituti di credito tutti i governi occidentali abbiano dilapidato un oceano di denaro, soldi di quei cittadini vittime due volte del sistema: prima raggirati dalle alchimie dei cosiddetti maghi della finanza, poi ulteriormente spremuti dagli Stati corsi al capezzale degli apprendisti stregoni in difficoltà.
Cifre enormi, quelle stanziate dai governi occidentali, a esclusivo beneficio degli artefici del disastro. Denaro che causa oggi gravi problemi di indebitamento per gli Stati, mentre le banche d’investimento hanno ripreso a fare esattamente ciò che ha portato il mondo sull’orlo del baratro: il gioco d’azzardo. Per di più, sulla pelle di chi le aveva salvate. “Si torna a scommettere, si torna a far festa, si torna a guadagnare un sacco di soldi" proseguiva l’inchiesta di Der Spiegel, "e tutto grazie ai miliardi immessi nei mercati dalle banche centrali e dai governi per arginare le conseguenze della crisi”. "Quando va tutto bene - proseguiva l’articolo- lo Stato non deve intervenire e i guadagni vanno ai banchieri. Ma se qualcosa va storto, tocca al contribuente pagare il conto". È il capitalismo, bellezza.
Un atteggiamento deprecabile, ma soprattutto autolesionista, dato che, in caso di fallimento degli Stati e conseguente crisi strutturale del sistema liberal-capitalista, alchimisti dell’economia finanziaria e comuni cittadini, a bordo di uno stesso Titanic, affonderebbero insieme. E qui più di tante analisi tecniche ci viene in aiuto Esopo, nella sua antica saggezza, con la favola dello scorpione e la rana. Uno scorpione vuole attraversare un fiume, ma non sa nuotare. Chiede a una rana di traghettarlo. La rana non si fida, perchè teme di essere punta, ma lo scorpione la rassicura: “se ti pungessi annegherei anch'io”. La rana generosamente accetta, ma a metà percorso lo scorpione la colpisce con il suo aculeo velenoso. La rana, disperata e morente, gli chiede “Perché?”. Lo scorpione, prima di morire annegato a sua volta, risponde “È la mia natura”. Lo scorpione potrebbe essere un qualunque stratega di Wall Street o supermanager di banca con superbonus, indovinate un po’ chi è la rana? (movimentozero)

domenica 2 maggio 2010

Wall Street, la regola dell'immoralità. Francesco Guerrera

Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.
Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor». (la Stampa)

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.Francesco.guerrera@ft.com