mercoledì 17 ottobre 2012

L'economia che ci salverà

Scritto da Gianni Pardo
   

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Dietro la crisi mondiale dell’economia c’è un problema di "modello". Cioè dei suoi principi generali. Nel modello socialista alla base di tutto c’è l’idea che lo Stato possa guidare l’economia meglio e con migliori risultati di quanto possano fare i privati, soprattutto per quanto riguarda la giustizia sociale. Nel modello liberista c’è l’idea che la cosa migliore che si possa fare, per l’economia, è lasciarla operare senza intralci: al resto penserà la "mano invisibile" degli interessi contrapposti di cui parlava Adam Smith. I migliori esempi dei risultati delle due concezioni si osservano nell’Unione Sovietica e nella Cina degli ultimi anni.
 
Stranamente, in ambedue i casi si tratta di Paesi comunisti. La stranezza tuttavia viene meno se si pensa che, per imporre un marxismo "puro", o un liberismo "puro", bisogna sbarazzarsi dell’incomodo della volontà popolare. Infatti il socialismo reale ha reso i russi più miserabili che sotto gli zar, e se i cinesi sono stati resi "benestanti" come non erano mai stati in passato, ciò è stato fatto senza chiedere il loro parere. Senza concedergli il diritto di sciopero e senza preoccupazioni di giustizia sociale.
 
La storia economica dell’Occidente ha invece visto un lento smottamento dal liberismo, come lo si intendeva agli inizi della rivoluzione industriale, ad una concezione "compassionevole ed egalitaria" (cioè socialista) dell’economia. Questa versione morbida dello statalismo marxista ha influenzato tutte le società sviluppate e l’ha fatto per via democratica, tant’è vero che nei Paesi avanzati i suoi adepti si sono chiamati "socialdemocratici". Ciò non è avvenuto nell’Italia di cultura comunista dove si mirava alla rivoluzione proletaria e per lunghi decenni "socialdemocratico" è stato sinonimo di "traditore".
 
Nel Novecento i modelli imperanti sono dunque stati due: il marxismo, di cui era incarnazione l’Unione Sovietica, e la socialdemocrazia, di cui erano esponenti tutti i grandi Paesi dell’Occidente. Il liberismo più o meno puro è stato considerato "selvaggio" ed è stato visto come un’inammissibile aberrazione. L’imbrigliamento "socialista" delle regole del mercato è stato per tutti un obbligo e – più o meno inconsciamente – una sotterranea marcia verso il comunismo. La retorica di sinistra infatti ha sempre parlato di "conquiste", come se, ottenendo una nuova nazionalizzazione, una nuova norma "a favore dei lavoratori", si facesse un passo avanti nel territorio del nemico: l’economia classica. Finché un giorno il nemico si sarebbe arreso.
 
Alla lunga il procedimento ha mostrato la corda. Da un lato, il modello marxista è imploso insieme con l’Unione Sovietica, dall’altro, a forza di "conquiste", si è eccessivamente eroso il margine di produttività. Quelli che producevano si sono progressivamente ridotti di numero mentre sono sempre aumentati quelli che beneficiavano delle spese dell’erario. Si parlava di "giustizia sociale" e si dimenticava che "ogni volta che qualcuno ottiene un’utilità che non ha prodotto, c’è qualcun altro che non ottiene un’utilità che ha prodotto".
 
Il risultato è che l’Occidente è stato sconfitto dai Paesi emergenti ed è affondato fino al collo nella crisi attuale. La situazione non sarebbe drammatica se almeno si identificassero i nostri errori: invece la tendenza all’ideologia non è venuta meno. È vero che nessuna persona ragionevole parla più del modello marxista (perché tutti ne hanno visto le conseguenze) ma del modello socialdemocratico si è fatto un principio religioso, e si sono paralizzati i cervelli. Nessuno intravede un terzo modello e siamo in un vicolo cieco.
 
Ciò che avviene da noi è il migliore esempio di questa impasse intellettuale. A forza di socialismo compassionevole, l’Italia è arrivata ad una crisi drammatica e il suo governo, anche su suggerimento dei soloni di Bruxelles, ha risposto ad essa nel modo più controindicato: non ha diminuito la pressione fiscale sui ceti produttivi, l’ha addirittura incrementata. L’inevitabile risultato è stato una recessione senza ritorno. Si è curata una grave crisi di glicemia con fette di cassata siciliana. O meglio, si è curato un avvelenamento con massicce dosi di arsenico.
 
Eppure né i governanti italiani né i dirigenti dell’Unione Europea sono degli imbecilli. Il loro comportamento deve dunque spiegarsi con l’incapacità intellettuale di concepire la possibilità che il modello socialdemocratico contenga degli errori. Tanto che, nel momento della difficoltà, invece di correggerne i difetti, li hanno accentuati.
 
Se questa conclusione è esatta, l’Europa non ha speranza. O solo quella di un disastro tale che perfino i medici più ottusi si chiedano se la cura non peggiori la malattia. Fino ad allora, rimarrà una bestemmia l’idea che si debba certamente realizzare qualche "conquista", ma nella direzione opposta a quella dei socialisti. (il Legno Storto)

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