lunedì 29 ottobre 2012

Potere politicosindacale. Davide Giacalone

Raffaele Bonanni non è un’eccezione, ma l’ennesimo leader sindacale che programma per sé un futuro politico. Non c’è niente di male, quel che ci si deve chiedere è come mai sono stati tutti dei fallimenti. Nella risposta si trova molto che riguarda sia la politica che il sindacato.

Al momento Bonanni s’è limitato a firmare un appello, assieme a Luca Cordero di Montezemolo, invocando la nascita di un centro moderato e ragionevole, capace di raccogliere il testimone elettorale di un centro destra che ha perso la sua guida. Non si parla di candidature, al momento, anche in omaggio al nuovo costume, secondo cui presentarsi alle elezioni è quasi uno scendere di condizione sociale e politica, laddove l’essere direttamente chiamati, o sentirsi irresistibilmente vocati, alla salvezza Patria è ritenuto di più consono livello. Un tempo si pensava l’esatto contrario, essendo più fresco il valore e la conquista della democrazia. A parte ciò, c’è un dettaglio che non vedo emergere, da tanti commenti: si crede davvero che il richiamo ai valori cattolici (?!) e il posizionamento centrista siano sufficienti a celare o trasformare il fatto che se si trovano accanto, in un comune afflato, l’ex presidente di Confindustria e l’attuale segretario di Cisl è segno che o il documento è troppo generico o il suo reale contenuto consiste nella continuità concertativa? Detto in modo più diretto: se è il riflesso delle politiche sindacali degli ultimi lustri non solo non si vede né novità né modernità, ma si sente il soffocante peso di contrattazioni a carico del contribuente. Una ricetta a me sempre dispiaciuta, ma oggi resa impossibile dalla spremitura definitiva del citato pagatore di tasse.

C’è una ragione per cui i capi sindacali sono costantemente indotti a trasferirsi in politica. Si vabbe’, lo so cosa alcuni di voi stanno pensando: tutto, pur di non andare a lavorare. Ci sto, è anche così, ma si può vedere la cosa in modo più raffinato: il sindacato è una macchina di potere, capace di mobilitare soldi e interessi, avvinghiata alla struttura pubblica. Chi la amministra, ogni volta che il mandato volge al termine, suppone di potere capitalizzare tanto potere facendone un centro politicamente aggregante. Invece capita che aggreghino poco e finiscano in un angolo buio, campando di rendita in qualche più grossa e diversa struttura politica. Perché succede? Trovo una sola risposta: perché il sindacato è veramente un grande centro di potere, ma che gli deriva dal posizionamento all’interno di un’economia non libera e largamente assistita, nonché concertativa. Quel potere non è il frutto del consenso e dell’adesione dei lavoratori. Quando leader sindacali potentissimi, come D’Antoni o Pezzotta, fanno flop e raccolgono pochi voti non c’è da stupirsi troppo, perché anche quando erano in cima al sindacato raccoglievano pochi iscritti. Ma non si vedeva, perché tutto era coperto dalla grande esposizione mediatica e dall’imponente intermediazione d’interessi.

Posto che il sindacato è una componente essenziale del mercato, è il caso di accorgersi che da noi raccoglie pochi consensi perché non è parte di quello economico, ma di quello politico. Sicché, dopo tutto, certi leader non traslocano dal sindacato alla politica, ma provano disperatamente a restare lì dove si trovano. Solo che, perso il paravento e il potere, le loro debolezze appaiono allo scoperto. Magari accanto all’ex capo della controparte, Confindustria. Non è un loro problema personale, è il nostro problema collettivo di aver dato troppo peso all’economia assistita e di avere negato la rappresentanza a lavoratori e imprenditori che vivono esposti ai rigori del mercato. Gente che, giustamente, non intende certo seguire certe avventure, cui si sentì, si sente e si sentirà estranea.

Nessun commento: