venerdì 12 ottobre 2012

Storia politica del Cav.

Tutto su Silvio Berlusconi in venti puntate

Uscito dal campo di battaglia (chissà se sia vero), appartiene già all’autobiografia della Repubblica italiana. Il Foglio si è portato avanti col lavoro, ne è nato un manualetto sine ira ac studio. Nel Foglio di oggi in edicola (disponibile in digitale qui e su iPad) la prima di venti puntate firmate Alessandro Campi e Leonardo Varasano.

Folle anche nella disfatta, candido, non faceva i suoi affari di Giuliano Ferrara
Le motivazioni dell’entrata in politica di Berlusconi nel mio ricordo erano chiare e riconosciute, anche se il nostro testo, che è di andamento storico e non memorialistico, le lascia giustamente in sospeso. A mezzo di interviste, e di cose dette in tv e in riunioni pubbliche, Berlusconi non ha mai nascosto di volersi anche difendere da un assedio che prometteva male per il suo business, il che non significa farsi gli affari propri come pensano i semplificatori per gola e stupidità. Sono stati convocati referendum popolari per chiudere le sue televisioni commerciali negando le interruzioni pubblicitarie durante i film; gli italiani votarono e scelsero Berlusconi contro i suoi nemici ideologici e di business, e le battaglie intorno a Canale5 furono eminentemente politico-parlamentari, a un certo punto si dimisero cinque ministri della sinistra democristiana, insomma il nucleo d’acciaio della lobby integrista spietatamente avversa, e non solo per ragioni di interesse, al grande diseducatore delle coscienze italiane. Non erano affari suoi, era un capitolo della storia nazionale, dell’esperienza estetica, etica ed economica della comunità civile, un pezzo di storia segnato dalla intraprendenza di un geniale outsider a fronte di un pigro establishment esclusivo e blasé.
Ma non basta, per le motivazioni. Quando ci consultavamo nel gruppo dei dubbiosi, con Fedele Confalonieri e Gianni Letta, all’ultimo miglio prima del famoso discorso all’Italia-paese-che-amo, quello che lo conosceva meglio, Fedele, diceva che non c’era più niente da fare, da dire, l’ego del suo amico era ormai ipertrofico, tardi per una marcia indietro. Vero. Un sondaggio lo aveva dato popolare come e più di Gesù Cristo fra i bambini. L’eroe dei Puffi, del Milan che vinceva, l’eroe fatto da sé che sfidava tutto e tutti era un mito innanzi tutto per sé stesso. Berlusconi credeva di avere un’investitura popolare, un’unzione democratica naturale derivante dalla estrema popolarità personale, dalla fiducia che sentiva di poter raccogliere. Si considerava un campione e, snobismi a parte, lo era (anche di coraggio o impudenza). E questo fu un altro motivo o ragione forte per l’avventura politica.
Poi c’era la congiuntura politica in sé. Berlusconi era prudente, cauto, era culturalmente lontano dal linguaggio e dalla tecnica della politica (“lei è il mio maestro”, mi diceva con un sorriso dolce e burlesco, “ma io imparo presto”); però l’idea del comando, del cambiamento riformatore, del nuovo ordine da affermare, del grande casino creativo che non era più nel mercato della tv, chiuso all’estero con l’avventura francese e minacciato in patria dalla possibile vittoria dei suoi avversari storici (ex pci e dc di sinistra), insomma l’avventura che non annoia, questo lo tentava fatalmente e comprensibilmente.
Riceveva in casa i politici smarriti e sotto schiaffo della magistratura in crociata. Arcore diventò una reggia. La Repubblica prese un tratto monarchico. Il linguaggio politico si scartò dal suo involucro di arcaismi cattolici e comunisti e anche socialisti. Berlusconi dava scandalo, stupiva, al partito sostituiva una persona e una squadra. Non mi era chiara la direzione di marcia, ovviamente, e dopo la conquista napoleonica del governo, nel 1994, un pomeriggio approfittai di un momento di sosta, e guardando quei mazzi di fiori molto Fiorella Pierobon che aveva fatto mettere nelle stanze del potere, seduto con lui su un divanetto a Palazzo Chigi, gli domandai: “Ma che vuol fare dell’Italia”. “Una grande Fininvest”, mi rispose.
L’Italia che fece da scenario all’entrata in politica di Berlusconi faceva paura. Giustizia sommaria, codardia della politica, poche idee e riscrittura della storia costituzionale dei partiti a firma di una magistratura codina, di media e patti di sindacato finanziari e industriali assai loschi, tutti soggetti che perseguivano scopi non dichiarati e li travestivano da “questione morale” (niente di nuovo sotto il sole). Berlusconi, con quei denti da pescecane, in realtà era un candido, e si rivelerà nella sua parabola un vincitore e uno sconfitto dolorosamente sublime.
Giuliano Ferrara

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