giovedì 22 settembre 2011

Come leggo i giornali. Uriel Fanelli


Il Corriere della Sera.

Il Corriere della Sera e' governato da quelli che in Italia vengono considerati "i salotti buoni della finanza". In particolare, si tratta di Gemina e altri. Per fare un elenco, Unicredit, Assicurazioni Generali, Mediobanca, Benetton Group (Sintonia) , Schroder, Oxburgh, Deutsche Investment Management Americas, BPM Gestioni SGR e Eurizon. In dettaglio:

Al 10 febbraio 2010, l'azionariato di RCS MediaGroup S.p.A., aggiornato secondo le comunicazioni pervenute alla Consob, è così composto :
Come potete vedere, ci sono praticamente tutti i grandi finanzieri italiani. Di conseguenza, si tratta del giornale che e' portavoce, per forza di cose, delle istanze della finanza. Esse sono un pelino diverse da quelle di Confindustria, perche' la finanza appare un pelino piu' "popolare", cioe' sembra meno orientata ai "padroni" e piu' alle persone.
Ma questo e' dovuto essenzialmente al fattore trainante della finanza italiana: l'immobiliare , il credito al consumo e la cartolarizzazione dell'economia.

martedì 20 settembre 2011

Il vero conflitto di interessi in Italia va cercato nei giornali. Daniela Coli

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l'Occidentale - Pochi storici e politologi si sono resi conto che dalla metà degli anni ’70 la vita politica italiana non è stata diretta dai partiti e da leader, ma da tre giornali amici: il Corriere, la Repubblica e la Stampa. Tra giornali legati insieme da un enorme conflitto di interesse che nessuno dei più battaglieri giornalisti contro Berlusconi ha mai rivelato. La famiglia Agnelli, proprietaria della Stampa, a metà anni ’70 divenne anche azionista di maggioranza di Rcs, e Antonio Caracciolo, azionista di maggioranza del gruppo Espresso da cui nacque nel 1976 Repubblica, diretta da Scalfari, era il fratello maggiore di Marella Caracciolo, la moglie di Gianni Agnelli. Tutto in famiglia, anche se all’insegna della condanna del familismo amorale italiano, dell’etica e della modernità. Sulla lobby responsabile di questo gigantesco conflitto, che con un solo articolo faceva dimettere un governo durante la prima repubblica (Craxi resistette e fu subito disegnato come Mussolini da Forattini) e ha decapitato la prima repubblica, nessuno dei più inflessibili giornalisti del Corriere ha mai scritto una parola. Nemmeno Sergio Romano, che lanciò la campagna sul conflitto di interessi di Berlusconi. Attento conoscitore della vita politica americana, Romano sapeva bene cos’era un conflitto di interesse e scrisse una serie di articoli indignati contro il tycoon televisivo che voleva farsi premier, ma non ha mai scritto un rigo sul conflitto Agnelli-Caracciolo, al cui confronto quello del Cavaliere era insignificante. Un conflitto che non è solo politico, ma economico, finanziario, per i rapporti del gruppo Fiat con la finanza internazionale.
Questo conflitto rappresenta una potente Lobby economica-finanziaria e politico-culturale, i cui interessi hanno poco a che fare col bene del “Paese” come il Corriere, la Stampa e Repubblica chiamano l’Italia. E’ una Lobby senza preferenze politiche e ideologiche: usa indifferentemente come camerieri e maggiordomi partiti e politici diversi per i propri interessi. Agnelli ha avuto un ottimo rapporto col Pci, perché era nell’interesse della Fiat ottenere finanziamenti pubblici dallo Stato italiano e quindi qualsiasi attacco del Pci ai vari governi democristiani e di centrosinistra era benvenuto per le casse della Ditta. Il Pci non si è neppure accorto di essere stato espropriato dell’egemonia culturale da Repubblica, un vero e proprio partito, che ha sostituito l’Unità tra i militanti della sinistra come l’Espresso ha sostituto Rinascita. Dopo il ’92-93 la linea all’ex Pci la dettano Repubblica e il Corriere. Nessun partito socialista europeo è stato condizionato come la sinistra italiana da una lobby estranea al partito e i più forti paesi europei hanno democrazie solide, dove i governi durano cinque anni e dove a nessun giornale verrebbe in mente di far dimettere un premier o un cancelliere con una campagna giornalistica: non sarebbe possibile. Qui sta l’anomalia italiana.
È comprensibile che Berlusconi sia stato visto dalla Lobby che decideva i destini dell’Italia come un contropotere e sia stato combattuto fin dall’inizio, incastrandolo col conflitto di interesse e col famoso avviso di garanzia pubblicato da Mieli sul Corriere, mentre il Cavaliere presiedeva il G8 a Napoli nel novembre ’94. Berlusconi tornò al governo nel 2001, perse nel 2006, rivinse le elezioni nel 2008, ma la Lobby di Repubblica, il Corriere e la Stampa si ostina a parlare di ventennio berlusconiano. È comprensibile che si sia tentato di fare fuori Berlusconi: per la prima volta in Italia è nato un contropotere deciso a fare funzionare la democrazia rappresentativa e a governare cinque anni, come in tutte le democrazie occidentali.
Per eliminare Berlusconi si è creato un nuovo ariete: i magistrati. Erano serviti per fare fuori con una campagna giudiziaria-mediatica i partiti della prima repubblica e i magistrati sono rimasti gli alleati più fedeli della Lobby, mai scalfita da un’indagine e alla quale sono sempre stati serviti su un vassoio di argento avvisi di garanzia e intercettazioni contro destra e sinistra, quando fa comodo agli interessi della Ditta. La Lobby si definisce anglofila, addita l’Inghilterra come modello, ma Murdoch è stato travolto dalle intercettazioni dei suoi tabloid e la polizia inglese adesso vuole anche sapere come il Guardian è entrato in possesso delle intercettazioni di News of the World.
I giornali della Lobby danno all’estero l’immagine dell’Italia e hanno un complesso serraglio di grandi firme, ognuna delle quali ha un diverso referente politico, e ognuna ha il suo posto nell’orchestra: chi strizza l’occhio alla destra postfascista pubblicando quotidianamente qualche dettaglio della storia del fascismo, perché, si sa, niente è più inedito dell’edito, chi fa il paladino della destra liberale e ci ricorda con gli economisti classici messi in soffitta da Schumpeter l’importanza dell’egoismo per il capitalismo, chi si batte il petto disperato perché in Italia, ahimè, non c’è né la destra, né la sinistra e la colpa è tutta dei falsi invalidi, naturalmente. Poi c’è Sartorius che se la prende col sultano, Stella e Rizzo che incalzano contro la Casta (dagli idraulici ai taxisti ai politici) e Magris, ma per Magris basta il nome, no? Tutte quelle figurine Panini che aveva tanto bene descritto Edmondo Berselli. Quante cose aveva capito Edmondo, che qualcuno all’Occidentale considera un nemico: averne di nemici come Edmondo! Aveva capito che Dagospia, da cui oggi attingono a piene mani Mauro, Flebuccio, Marione e le procure – ormai un’appendice di Dago (e chissà quanto si divertirà Cossiga dall’al di là a vedere i magistrati affannarsi a consultare Dagospia, la sua creatura) – era il teatrino più adatto per inquadrare Marchionne, ribattezzato Marpionne, che “gioca certe sue indecifrabili strategie all’interno della famiglia Agnelli, e potendo dà una gomitatina a Montezemolo”.
La debolezza italiana, l’anomalia italiana sta proprio in questa Lobby che impedisce alla politica italiana di comportarsi come quella inglese, francese, tedesca e spagnola, che ultimamente ha riscritto la Costituzione insieme, destra e sinistra. La Lobby sempre indignata con il “Paese”, perché non ci sono gli “Italians” (e neppure quelle belle cerimonie e tutti quei bei cappellini della regina, né William e Kate e neppure Carlo e Camilla), è riuscita perfino a dare lezioni di patriottismo con i 150 anni sbandierati ogni giorno (signora mia, non c’è più un Cavour! Se ci fosse lui!) per tenere l’Italia sotto e farla diventare il fanalino di coda dell’Occidente, diffamarla, tenerla sospesa, perché, cavolo!, non è l’Inghilterra e gli italiani sono così cialtroni, mafiosi, ladri e puttanieri, a cominciare dal Berlusca, così arcitaliano…. Per questo, non solo Berlusconi, ma anche il centrodestra va abbattuto, la sinistra basta un tozzo di pane per tenerla al guinzaglio.
Questa è l’Italia della Lobby, sbeffeggiata dall’Economist, la Bibbia della Lobby. Davvero ci vorrebbe un Principe, come chiedeva Machiavelli: ci vorrebbe la politica, tutta, di destra e di sinistra, che alzasse la testa e decidesse di riscrivere il patto per l’Italia. Tory e whig, dopo una lunga guerra civile, riuscirono insieme a fare giurare al re fedeltà al parlamento e a prendere il destino dell’Inghilterra nelle loro mani. Chissà se la politica italiana riuscirà mai ad alzare la testa e a prendere in mano il destino del paese. Se non lo farà sarà decapitata tutta, perché la Lobby è uno stato nello Stato, un governo ombra con i suoi ministeri e ministri, i suoi ambasciatori, le sue spie, e ha il suo esercito di magistrati che quando vuole e come vuole scaglia contro la destra e la sinistra. Ci sono momenti in cui nella vita di uno Stato la classe politica deve decidere se farsi annientare o alzare la testa e decidere se è capace di esistere. È il caso di dirlo: se non ora, quando?

venerdì 16 settembre 2011

L'uovo di giornata

Repubblica passa all'audio in nome della (sua) legge

Repubblica ha fatto un nuovo salto di qualità: ha messo sul suo sito l'audio integrale di una telefonata tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e Walter Lavitola. Non bastavano, anticipazioni, trascrizioni, sbobinature, variazioni sul tema: ora abbiamo la viva voce del premier incisa per sempre nella vastità della rete.
Quella telefonata non dovrebbe esistere: non doveva essere registrata, se registrata non doveva essere sbobinata, se sbobinata non doveva essere diffusa e pubblicata. Invece non solo esiste, non solo è stata trascritta, ma per il godimento del pubblico e dell'inclita, è ora a disposizione in stereofonia.
Una così palese violazione delle regole, specie nei confronti di un capo del governo democraticamente eletto, in qualsiasi paese produrrebbe un terremoto di sdegno contro i giudici, contro i giornali, contro il sistema mediatico-giudiziario. Qualcosa del tipo di quello che è accaduto a News of the World e a Rupert Murdoch  in Inghilterra.
In Italia quella telefonata rubata è invece oggetto di delizia su Facebook, mentre Repubblica che ne ha deciso la diffusione consolida il suo status di unica paladina della libertà di stampa, della pubblica legalità e del sacro fuoco del giornalismo d'inchiesta.
Nessuno si chiede come Ezio Mauro abbia messo le mani su quel nastro che non dovrebbe esistere: attraverso quali amicizie, quali alleanze, quali scambi di favori, quali omissioni. No, Repubblica è impegnata a salvare l'Italia dal caimano e tutto le è concesso.
Ci può stare: siamo arrivati ad un punto in cui nessuno si scandalizza più di nulla e tutte le regole sono saltate con il plauso generale. Una cosa resta davvero inspiegabile: che in Italia gli unici indagati per violazione del segreto istruttorio per aver pubblicato una intercettazione telefonica siano Silvio Berlusconi e l'allora direttore del Giornale, Maurizio Belpietro. (l'Occidentale)

martedì 13 settembre 2011

ArchivioAndrea's Version

13 settembre 2011

Sì, figurarsi, non sono mica scemi, mica ci credono davvero. Mica ci crede la Barbara Spinelli, quando suona la cetra per Eugenio Scalfari manco fosse un pensatore due spanne sopra Heidegger, lo sguardo lungo, la morale lassù in cima, l’occhio che scruta passato e presente, e tutto questo, scrive, anzi, suona lei, nonostante che il corpo di lui appaia ben più giovane di quello di Ganimede. E’ evidente che la Spinelli finge. E mica crederete che creda davvero a quel che scrive, Ezio Mauro, il quale si sobbarca ogni giorno la fatica di spiegare come e qualmente, se un orso bianco si trova a disagio nell’attuale calotta polare, ciò dipenda senz’altro dal fatto che Berlusconi scopa. E a non parlare di Michele Serra, beato lui, che sgrana gli occhioni e mostra d’indignarsi come il primo giorno ogni volta che gli insinuano il dubbio di una sinistra capace di spendere perfino oltre i proventi da salamella. Ma no, non sono fessi, date retta, mica ci credono. Non si dice mentire, recitano solo un po’, dissimulano. Come dire? La fabbrica del fingo. (il Foglio)

domenica 11 settembre 2011

Capire Berlusconi. Gianni Pardo

  

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La stampa offre due articoli preziosi per capire il fenomeno Berlusconi. Angelo Panebianco imputa al Cavaliere un difetto caratteriale che è l’opposto di ciò che si è sempre detto in giro. La vulgata ha sempre sostenuto che Berlusconi non ascolta nessuno; che è circondato da una corte di servi sempre pronta a dire di sì; che lo stesso Pdl è un partito senza democrazia interna, dove non si ha diritto di dissentire e si fa solo ciò che dice il Capo. Ora Panebianco - non in  una frase di passaggio, ma in un intero articolo - sostiene ripetutamente e vigorosamente la tesi opposta: il difetto di Berlusconi è quello di non saper comandare.
“Il vero vizio d’origine di questo governo consiste nella incapacità dimostrata da Berlusconi, in questa esperienza di governo, come, del resto, nella precedente (quella del 2001/2006), di imporre una propria egemonia sulla compagine governativa nel suo complesso e, di riflesso, sulla maggioranza”. Dunque egli non comanda né a Palazzo Chigi né nel Pdl. Le stesse esitazioni sul contenuto della manovra nascono dal fatto che non l’ha decisa o imposta lui, ma ha lasciato fare, fino al caos che abbiamo visto. Come se non bastasse, la maggior parte dei provvedimenti, essendo di sapore nettamente socialista, sono stati contrari alle sue idee: “cosa c’entrano quelle cose con Berlusconi, con ciò che lui è, e con l’elettorato che lo ha fin qui seguito? La risposta è facile: nulla, assolutamente nulla. Eppure, è stato proprio il governo Berlusconi a proporle”. Il governo nel suo complesso, dunque, non certo chi ne presiedeva le riunioni. Dov’è dunque finito l’autocrate di Arcore, l’uomo che è sembrato essere, da solo, la causa e l’origine di tutto, quello alla cui volontà si inchinava l’intera Italia, tanto che il suo regime è stato paragonato ad una dittatura morbida?
La colpa è comunque sua: “Berlusconi ha sottovalutato, fin dall’inizio della sua esperienza, il fatto che avrebbe dovuto costruire «anticorpi» in grado di assicurargli una autentica egemonia sul governo”. Fa proprio effetto, dopo anni ed anni di accuse in un senso,  vedere accusare qualcuno del suo assoluto, incompatibile contrario.
Panebianco tuttavia non delira e fornisce a prova della sua tesi il rapporto con Giulio Tremonti. Si sapeva sin dall’inizio che l’amico aveva idee vagamente “socialiste”. Le sue proposte “di sinistra” non sono stupefacenti e la colpa di Berlusconi è presto descritta: “Anziché fare del ministro dell’Economia, come di solito avviene, un proprio collaboratore in materia economica, egli accettò che Tremonti ne diventasse il dominus”; “solo in extremis, sfruttando le pressioni della Banca centrale europea e le sollecitazioni del presidente della Repubblica, Berlusconi sia riuscito a recuperare un certo personale controllo sulla manovra”. E allora bisogna chiedere agli italiani: troppo comando o troppo poco comando? Collaboratori servi o collaboratori riottosi? Berlusconi dittatore o Berlusconi testa di turco?
Il secondo articolo, di Francesco Verderami, si segnala invece perché ci mostra che cosa ha imparato il Cavaliere in materia di politica. Pare che la diplomazia segreta del Terzo Polo e del Pd abbia seriamente proposto a Berlusconi il classico “passo indietro” per formare un nuovo governo senza di lui, pur consentendogli di designare il nuovo Premier. Qualcuno dunque pensa che sia ancora l’uomo del 1994 ed ha dimenticato che Silvio forse è un ingenuo ma non è uno stupido. Ciò che gli si propone l’ha già vissuto nel 1994 e non ha dimenticato né l’inganno di Scalfaro né il distacco di Dini. Chi abdica è spesso tradito da chi gli subentra sul trono.
Ma c’è di più. Lo scopo sarebbe stato quello di consentire la nascita di un nuovo governo “per portare a compimento la legislatura e garantire il traghettamento del Paese verso la «terza Repubblica» con una serie di riforme strutturali sul versante economico e su quello istituzionale”. Una serie di riforme? Ma quali, esattamente? E con quale preciso contenuto? E quale garanzia si potrebbe mai fornire sulla loro realizzazione? E che cos’è la Terza Repubblica se non aria fritta, una rimasticatura di sogni giornalistici?
Un altro specchietto per le allodole è pure la promessa più o meno esplicita che, facendosi da parte, Berlusconi non sarebbe più perseguitato dalla magistratura. In primo luogo la minoranza ha sempre negato che egli sia stato perseguitato, e questa proposta equivale invece ad un riconoscimento del fatto; in secondo luogo la promessa implicherebbe che c’è una parte politica che ha i magistrati al guinzaglio. Ma Berlusconi, che non è completamente rimbecillito, avrebbe detto: “Eppoi comunque non si fermerebbe la caccia all'uomo contro di me da parte della magistratura”.
Questi due articoli ci dicono che Berlusconi è tutt’altro che quel “padrone” che tanti si sono compiaciuti di descrivere: soltanto, non è più quell’ingenuo che era nel 1994.

venerdì 9 settembre 2011

L'Espresso e il Fatto danno il peggio di sé sull'11 settembre. Carlo Panella

Commemorare l’11 settembre pubblicando balle colossali è una scelta lecita e può anche aumentare le vendite, ma ha il difetto di essere un gioco –oltre che sporco- troppo scoperto e che non fa onore a chi lo pratica. Pure, l’Espresso oggi pubblica tre Dvd con la supervisione di Giulietto Chiesa che ci raccontano “l’altra verità” su quel dramma. Che sia un operazione impresentabile lo sa bene anche il settimanale di Carlo De Benedetti che prende subito le distanze dalla sua stessa iniziativa, con una precisazione che lascia esterrefatti: “ L'Espresso', che come dimostra la sua storia è da sempre aperto anche alle opinioni diverse dalle proprie, lo propone come documento certamente di parte, ma su cui discutere per farsi un'idea completa”. Insomma, sono tutte balle ma “teniamo famiglia”, dobbiamo vendere, non abbiamo idee serie e quindi vi proponiamo una sòla con la scusa alla Nanni Moretti di “aprire il dibbbattito”. Naturalmente non abbiamo potuto esaminare i tre Dvd (escono oggi), ma possiamo ben immaginarci che altri non siano che la collazione di tutte le fantasticherie che Giulietto Chiesa propaga da dieci anni circa il “complotto americano”, con un Pentagono che non è mai stato colpito dal Boeing 747 del volo 77 della American Airlines, con una guerra in Afghanistan motivata dagli oleodotti e quindi complotto e poi complotto e ancora complotto degli yankees. Una serie di menzogne e di insinuazioni prive dei più elementari riscontri col marchio della più becera e puteolente ideologia antiamericana, assemblata da un personaggio di scarso successo, emarginato da tutte le forze politiche che ha corteggiato per ottenere una candidatura e che alle ultime europee, non a caso, si è presentato (ma è stato trombato) in Lettonia, nella speranza di ottenere i voti della minoranza russa dalle nostalgie sovietiche. Stessa solfa per il Fatto che domenica ha pubblicato un delirante articolo di Robert Fisk che –in sintesi- sostiene che la responsabilità ultima degli attentati è degli Usa che hanno appoggiato sempre Israele, quando gli attentatori si sono schiantati sulle Twin Towers proprio in difesa dei palestinesi. Fisk, come sa chi ha una conoscenza anche superficiale di al Qaida, è smentito platealmente proprio da Osama bin Laden che ha sempre posto la questione palestinese almeno al nono posto tra i propri obbiettivi. Ma non importa. Così come non ha peso la smentita più chiara ed evidente di tutte le tesi e insinuazioni di Giulietto Chiesa e Robert Fisk. Dopo l’11 settembre al Qaida e il terrorismo islamico hanno colpito in paesi come l’Indonesia (a Bali), l’Arabia Saudita, il Bangladesh, l’India (a Mumbai), il Marocco, la Nigeria e l’Algeria, paesi, contesti, che nulla hanno a che fare con gli Usa e ancora meno con la questione israelo-palestinese. Chi segue anche da lontano il terrorismo islamico sa che le sue radici sono solo e esclusivamente nel fondamentalismo islamico, che uccide nella logica di una guerra di religione, innanzitutto contro quelli che considera i “falsi musulmani” e poi, solo in seconda battuta, contro i loro alleati occidentali. Basti pensare che sono ben più i musulmani straziati da kamikaze islamici dentro le moschee, mentre pregavano, di quante non siano state le vittime dell’11 settembre. Ma personaggi come Giulietto Chiesa e Robert Fisk non si occupano né preoccupano della realtà e piacciono all’Espresso e al Fatto proprio .-e solo- perché ripropongono il più basso, stantio e viscerale antiamericanismo che si sia mai visto in Italia e in Europa. Una sottocultura, che vive e sopravvive nei siti Internet più squalificati dell’estremismo di sinistra, che ci viene oggi riproposta con iniziative editoriali che però, in fondo, hanno un pregio. Indicano come ormai a sinistra non vi sia più alcuna capacità di elaborazione, comprensione, analisi del mondo e di un fenomeno complesso come il terrorismo islamico. Non più cultura politica –anche antiamericana, come era, ma con serietà e sostanza quella del vecchio Pci filosovietico- ma solo invettive, sospetto, insinuazioni. (Libero)

La sinistra gambero rosso dimentica quel che predicava. Filippo Facci

La verità è che il segretario dei Ds, per esempio, dice anche delle cose sensate, coraggiose, in linea coi tempi: ammetterlo sarebbe già un progresso. Queste, per esempio, sono parole sue: "Dobbiamo avere il coraggio di un rinnovamento. La mobilità e la flessibilità sono un dato della realtà, e corrisponde, nella nuova generazione, a un modo diverso di guardare al lavoro. Il problema che si pone a sinistra e sindacati è se noi, rinnovando gli strumenti della contrattazione, possiamo costruire delle nuove reti di tutela e di rappresentanza. Se non ci mettiamo su questo terreno, rappresenteremo sempre un solo segmento del mondo del lavoro: quelli che stanno in mezzo, ma che sono sempre di meno. Lo so che nel meridione ci sono due milioni di italiani che lavorano in nero, ma non sono sicuro che sia solo un problema di polizia e di ispettorati del lavoro... Non sono sicuro che se li scopriamo avremo 7000 miliardi in più: temo che, se li scopriamo, alcuni pagheranno le tasse, ma altri chiuderanno, e avremo un milione di disoccupati in più. Dovremmo preferire essere lì con quei lavoratori e negoziare quel salario per migliorarlo, anziché stare fuori dalle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale". Parole, come detto, del segretario dei Ds: il problema è che il segretario era Massimo D'Alema e che le sue parole sono di 15 anni fa, congresso Pds, Palaeur di Roma, febbraio 1997. (Libero news)

martedì 6 settembre 2011

Gli 80 anni di un innocente

di Giuseppe Lipera
Venerdì scorso il dottor Bruno Contrada ha compiuto ottant'anni. Per l'occasione il suo difensore, l'avvocato Giuseppe Lipera, ha voluto scrivere una lettera ripresa dal sito "Giustizia Giusta" che ripubblichiamo.

Caro dottore Contrada,
non ci crederà, ma è la prima volta in vita mia che mi capita di fare gli auguri di compleanno a un uomo che compie 80 anni.Già la cosa in sé mi emoziona e mi fa riflettere, ma non è solo questo ovviamente. Vorrei dirLe tante cose, più di quelle che Le ho detto in questi tre anni e mezzo che ci conosciamo, e sono sicuro che non riuscirò a farlo. Mi domando: quante siete le persone in Italia ultraottantenni? Boh! Certamente non tante, ancor meno quelle che hanno vissuto una vita come la Sua: onori, gloria, ricchi, responsabilità, prestigio e poi però la gogna, l'infamia, i processi, la condanna,  la assoluzione e poi di nuovo la condanna, il carcere. Possiamo dire, con stupido sarcasmo e dolce ironia, che Lei non si è fatto veramente mancare nulla in queste vita terrena.
Cos'altro Le accadrà ancora?

Dopo averLa conosciuta, il 15 dicembre del 2007, mentre Lei si trovava rinchiuso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, io Le dissi: "Lei è frangar non flectar", cioè mi appariva come un uomo tutto d'un pezzo, acciaccato dall'età e dalle sofferenze del carcere e delle malattie, dal dolore della condanna, tanto ingiusta quanto immeritata, ma nonostante tutto questo Lei non si piegava, la Sua dignità era altissima ed immacolata. Commentai, e tantissimi, forse centinaia di migliaia di italiani, lo sanno, dicendo: ringrazio Dio di avermi fatto conoscere un uomo come Bruno Contrada! A distanza di oltre tre anni da allora, avendo avuto l'opportunità di approfondire la Sua conoscenza, non posso che confermare questo mio pensiero.

Detto tutto questo, stamattina mi sono chiesto: cosa posso regalare al mio cliente, che ormai considero un caro amico, il giorno del Suo compleanno? Ci ho riflettuto molto e ho trovato cosa donargli, ma poi ho pensato: Lui questo lo ha già; non importa, mi sono detto,  il mio regalo può essere solo questo. Ebbene, carissimo dottore Bruno, Le dono il mio amore per il Giusto e per il Vero e riconosco di essere presuntuoso perché il Giusto e il Vero che è in Lei è molto di più di quanto io possa offrirLe. Lei mi ricorda tanto un Uomo che ebbi la fortuna di conoscere nell'estate del 1985 proprio qui a Palermo, uomo che poi divenne mio amico e che certamente contribuì a cambiare le sorti della mia vita; si chiamava Enzo Tortora. Parlava proprio come Lei: intelligente, colto, affascinante, invidiatissimo da molti ma amatissimo da tantissimi; Tortora subì, né più e nè meno, quello che ha subito Lei.

La vicenda del noto personaggio si concluse in tempi rapidi: fu condannato a dieci anni di reclusione ma poi assolto, però dopo cinque anni dal suo arresto, nel 1988  morì. Il Suo calvario invece, caro e illustre amico dottor Contrada, ancora continua dopo quasi 20 anni. A volte mi domando: quale è il disegno divino di tutto questo? Perché ho incontrato questi due uomini nella mia vita? Sono domande a cui ancora non so rispondere, ma so aspettare e confido che un giorno lo capirò. Ora penso questo: se c'è armonia in questo universo, e io devo credere che ci sia, la Sua storia giudiziaria non può finire cosi come è. I signori Giudici della Corte di Appello di Caltanissetta dovranno quanto prima decidere sulla terza istanza di revisione che ho presentato in Suo favore, invocando la riapertura del Suo processo.

Ci sono indubbiamente gli elementi perché questa istanza di revisione possa essere accolta, eccome se ci sono e non li sto qui a ripetere perché Lei, dottore Contrada, li conosce benissimo. Ecco: ho trovato cosa regalarLe e che Lei forse non ha! Io dono a Lei dottore Contrada la speranza che ho io di riuscire a dimostrare, urbi et orbi, la Sua assoluta innocenza; il sogno che ho io che Le venga restituito l'onore e la dignità di autentico servitore dello Stato, di uomo che ha creduto e lottato per altissimi ideali come l'amore per la Patria ed il rispetto delle Istituzioni. Io dono a Lei dottore Contrada, nel giorno del Suo ottantesimo compleanno, la certezza che, nonostante tutto quanto sia accaduto, milioni di italiani credono che Lei sia vittima di un errore giudiziario.

Io dono a Lei dottore Bruno, il desiderio, che io e tantissimi come me hanno, che tutto questo non sia una illusione. Con tanto affetto e stima, Le porgo i miei auguri di buon compleanno.

(da Giustizia Giusta)

lunedì 5 settembre 2011

Il Signor Rossi. Padano

Vi racconto una storia (vera). Negli anni tra il 1970 e il 1975 ho fatto le scuole elementari. Eravamo una classe mista di 32 bambini e bambine. Il nostro Maestro (con la M maiuscola) era il Signor Pietro Rossi, che all’epoca aveva circa 35 anni. Era il nostro unico Maestro ma non ha mai avuto problemi di disciplina seppur con una classe molto numerosa. Non era autoritario – nemmanco per sogno – era autorevole e noi lo adoravamo! In 5 anni non ci ha mai messo una nota (individuale o collettiva) e non ha mai espulso dall’aula nessuno.
Il Signor Maestro Pietro Rossi era una persona straordinaria: oltre a portare a termine (sempre in anticipo) il programma ministeriale egli ci appassionava alle più svariate discipline. Con lui abbiamo imparato il francese cantando (!), abbiamo imparato a giocare a scacchi (a 6 anni!), abbiamo imparato la matematica con il “metodo Papy” (metodo binario di zero e uno, quello che usano i computer…), abbiamo letto il Diario di Anna Frank e Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu.
In gita scolastica – invece delle soliti “banali” mete come Verona, Venezia, Mantova – il Signor Maestro Pietro Rossi ci ha portato a vedere le trincee della Prima Guerra Mondiale sull’Altipiano di Asiago dove avevano combattuto i nostri bisnonni…
Il Signor Maestro Pietro Rossi – come già detto – era adorato dai suoi discepoli e sommamente rispettato da tutti quelli che avevano il privilegio di conoscerlo. Era una persona appassionata del suo lavoro, serio, preparato, scrupoloso, mai inutilmente “lamentoso”. In 5 anni non ha mai fatto nemmeno un’ora di assenza dalla cattedra! Noi – in 5 anni – non abbiamo mai visto un supplente…
Ma il Signor Maestro Pietro Rossi era – per l’ottuso Stato italiano – un “semplice maestro delle elementari”, con relativa paga da fame…
Il Signor Maestro Pietro Rossi aveva 2 vestiti grigi, uno invernale più pesante ed uno estivo più leggero… Il Signor Maestro Pietro Rossi aveva 2 paia di scarpe, quelle nere, grosse, invernali e quelle marroni, leggere, estive… Il Signor Maestro Pietro Rossi aveva 3 camice bianche invernali a maniche lunghe e 3 camicie azzurre estive a maniche corte… Il Signor Maestro Pietro Rossi veniva a scuola (estate e inverno, pioggia o neve) sempre e solo in bicicletta… Il Signor Maestro Pietro Rossi aveva – come “auto di famiglia” – una 500 usata bianca con l’interno in similpelle nera… Il Signor Maestro Pietro Rossi – sposato e con figli – viveva in affitto in un piccolo appartamentino di periferia…
Insomma il Signor Maestro Pietro Rossi – insegnante e uomo esemplare – aveva un tenore di vita a dir poco misero! Ebbene nessuno – nessuno – lo ha mai sentito lamentarsi! Mai!
E adesso veniamo all’oggi…
Tg3 Veneto di ieri, solito servizio – quello di tutti gli anni – sull’inizio dell’anno scolastico con relative proteste degli insegnanti…
Le maestre (con la m minuscola) delle elementari (che adesso si chiamano “primarie”) in coro a lamentarsi per questo o quello…
Ma vediamole queste maestrine, tutte lamentose e tutte uguali: capello fresco di parrucchiera, sopracciglia “scolpite”, abitini in “ultimi colori moda”, scarpe trampolate, unghie modello lap-dance, smartphone in mano, auto parcheggiata fuori: indistinguibili dalle commesse di Benetton o Sisley… anche nell’atteggiamento, nel linguaggio, nella cultura…
E queste sgallettate maestrine-fashion si lamentano pure? Per loro le parole “passione per il lavoro”, “dedizione”, “impegno”, “autorevolezza” non hanno proprio alcun significato! No, per queste maestrine-fashion l’importante è accaparrarsi il sicuro posto pubblico, poi si vedrà…
E i bambini, i discepoli, gli alunni? Ma chissenefrega degli alunni, quelli sono solo una scocciatura tra uno stipendio e l’altro…
Che infinita tristezza, che schifo immondo! Che maestre vomitevoli!
E io dovrei mandare mio figlio a scuola da quelle quattro“sgallettate? A imparare cosa, di grazia?
No, se io fossi il Signor Maestro Pietro Rossi quelle pseudo-colleghe le prenderei a calci nel sedere! Vergogna, vergogna! (The FrontPage)

martedì 16 agosto 2011

Il giornalismo alle vongole dell'Espresso. Christian Rocca

Imbarazzante inchiesta, chiamiamola così, dell’Espresso.
Rubricata con tanto di "esclusivo", il settimanale di Largo Fochetti legge (chissà se bene o male) altri cable di WikiLeaks e imbastisce una meschina campagna giornalistica per sostenere che Berlusconi pagava i talebani, che Bush gli disse di smettere, che Berlusconi smise e che per dimostrare di essere bellicoso almeno quanto l’amico texano si è reso corresponsabile delle successive e numerose perdite italiane.
Tutto bene, tranne che non torna niente. A cominciare dai tempi.

Intanto è assurdo accusare Berlusconi prima di pagare e poi di non pagare: o sbagliava prima o sbagliava dopo, non può aver sbagliato in ogni caso. Ma come pretendere correttezza dal gruppo De Benedetti?

Andiamo al merito delle accuse che, peraltro, non tengono conto di analoghi pagamenti americani ai talebani (lasciamo stare, troppo complicato per gli espressones).

Dunque, scrive l’Espresso che prima delle elezioni italiane del 2008 l’ambasciatore americano a Roma fa sapere a Washington che ci sarebbe da fare pressioni sugli italiani perché smettano di pagare i talebani.
In quel momento al governo, e per i due anni precedenti, c’era Prodi, non Berlusconi. Ma l’Espresso non lo dice.

Successivamente, sempre nel 2008, con Berlusconi appena insediato a Palazzo Chigi, Bush dice al premier italiano di smetterla con i pagamenti del passato.
Il passato recente è Prodi, al governo dal 2006. Questo non esclude che prima anche il governo Berlusconi abbia pagato, ma in ogni caso i file di WikiLeaks non provano l’avvenuto pagamento di tangenti né durante l’era Berlusconi né negli anni di Prodi, ma si limitano a riportare voci, dicerie e una certa preoccupazione americana.

Il capolavoro arriva dopo, quando Repubblica lascia intendere che Berlusconi ferma i pagamenti e si allinea agli americani, anche nelle attività militari.
Ecco la frase:
«Fino all’estate 2009, quando con la prima grande offensiva della Folgore anche i nostri militari sono passati all’assalto dimostrando con le armi la nuova volontà bellica del centrodestra».

Avete letto bene, nell’estate del 2009, per dimostrare con le armi la nuova volontà bellica del centrodestra, i nostri militari anziché pagare passano all’assalto.
«Ma da allora – aggiunge l’Espresso – anche il numero di bare avvolte nel tricolore è cominciato a crescere, sempre di più fino a quadruplicare».

Che cosa dimentica l’Espresso? Che nell’estate del 2009, alla Casa Bianca c’era da mesi Barack Obama e che la grande offensiva della Folgore non è stato un episodio isolato e tantomeno un vezzo berlusconiano per dimostrare la volontà bellica del centrodestra italiano, ma una precisa scelta strategica e militare disposta dal Nobel per la Pace Barack Obama, forse per dimostrare con le armi la nuova volontà bellica del centrosinistra. (Camilloblog)

L'unico che dovrebbe mettersi a lutto per la morte di D'Avanzo è il Cav.

C’è un malcostume che dal mondo universitario sta passando a quello del giornalismo. Come nel primo ormai nessuno scrive più un libro che non sia nuovo, acuto, originale (fanno eccezione le recensioni-killer motivate da rivalità concorsuali), così, nel secondo, non c’è pubblicista che non riceva il suo bravo serto d’alloro, o per aver prodotto un reportage ‘che farà epoca’ o, semplicemente, per aver abbandonato questa valle di lacrime.

E’ capitato pure a Giuseppe D’Avanzo presentato come una delle migliori penne della carta stampata, un professionista di elevata cifra, una coscienza morale integerrima. In realtà, apparteneva alla genia di Marco Travaglio ovvero a quanto di più fazioso, velenoso e indigesto abbia espresso il giornalismo italiano. C’è una sola persona che dovrebbe mettersi a lutto per la sua morte, Silvio Berlusconi. Non pochi avversari politici del Cavaliere, infatti, erano quasi portati a simpatizzare con lui, colpiti dal settarismo rabbioso di D’Avanzo. (l'Occidentale)

giovedì 28 luglio 2011

Travaglio leghista. Davide Giacalone


Il linguaggio della Lega non ha mai brillato per raffinatezza e gusto delle sfumature, ma sarebbe sciocco non riconoscere che quel partito, sotto la guida di Umberto Bossi, ha saputo intercettare non solo la protesta, ma anche la rappresentanza d’interessi reali. Niente affatto negativi. “Roma ladrona” era uno slogan, ma dentro vi si leggeva il sobbollire di vaste aree produttive e di piccole intraprese che dovevano sopportare un enorme peso fiscale e burocratico. Il guaio della Lega è che governa da tempo, s’è imborghesita, il capo piazza i propri figli, e i carichi fiscali e burocratici sono sempre lì, semmai accresciuti.
Quando il ciclo era positivo, per la Lega, anche le parole di un Borghezio qualsiasi, solitamente ispirate al delirio, finivano con l’inserirsi in una sinfonia ove prevalevano i tamburi e i tromboni, a segnalare la crudezza dello spartito. Ora che il ciclo volge al brutto, sentirlo riconoscere le presunte ragioni del biondo e demente assassino, induce solo a valutare le differenze: non è biondo e non nuoce più di tanto. Il dramma del vuoto leghista si misura tutto sul fronte che si sono scelti per l’estate: i ministeri al nord. Vorrei tanto incontrare almeno un cittadino del nord cui gliene freghi qualche cosa.
Le foto dei nuovi “uffici” sono di un desolante squallore burocratico, privo di quel che al nord, forse, potrebbero anche apprezzare: attivismo, efficienza, frenesia, open space che formicolano nel lavorio. Nulla. Le immagini dell’inaugurazione sono di una tristezza sconfinata, compresa la presenza di due ministri non leghisti, la propagandisticamente votata ad ogni cosa, Maria Vittoria Brambilla, e il ridotto a incarnare il “che s’ha da fa pe’ campa’”, Giulio Tremonti. Tutti assieme non ho idea se abbiano conquistato mezzo voto, so che hanno guadagnato al Quirinale un motivo ulteriore per schiaffeggiare il governo. Come se mancassero.
Che, poi, ci voleva un po’ di sale in zucca per cercare di vender meglio il prodotto, comunque scadente. In passato si sono seminate in giro per l’Italia le autorità: quella delle comunicazioni a Napoli, quella alimentare a Parma e così via sprecando denaro e duplicando i costi. Non ha minimamente funzionato, ma, almeno, su quelle pessime scelte c’era il consenso generale perché dimostravano l’intenzione di decentrare e considerare unita l’Italia. Che ci voleva, a usare la stessa retorica mendace? Non ne sono capaci perché, al contrario, compiono gesti inutili allo scopo di far vedere che non è del tutto morta la Lega che proclamava il separatismo. Solo che allora era preoccupante, ora è imbarazzante.
Credo che la Lega abbia diversi meriti, compreso quello di avere selezionato, nel tempo, una buona classe dirigente locale. Giovane, per giunta. E non ultimo quello di avere dimostrato che gli interessi che si rappresentano non devono avere prima ottenuto il certificato di garanzia e affidabilità, perché la democrazia è un mercato aperto. Ma tutto questo rischia di finire male perché i leghisti si sono dimostrati incapaci di conciliare la rappresentanza con gli impegni di governo. In fondo sono gli ultimi berlingueriani in circolazione, ancora convinti che si possa essere “di lotta e di governo”. Non funzionò per i comunisti e non funzionerà mai, perché si ottiene il solo risultato di non essere credibili per la lotta e non essere utili per il governo. Sappiamo che, al loro interno, sono in corso regolamenti dei conti. Vorremmo ricordare loro la saggezza partenopea di De Curtis: è la somma che fa il totale.

giovedì 14 luglio 2011

14 luglio 2011

Il governo è la rovina del paese e se ne deve andare. Il premier, nel suo delirio, prima si rende conto che dovrà farsi da parte e meglio è. Con Berlusconi non si negozia, deve restare fuori dalla partita perché una sua intromissione sarebbe dannosa, un peso per tutti. Sia il presidente del Consiglio sia il ministro dell’Economia devono sgombrare il campo, il loro ritorno a casa sarebbe l’unico regalo che dovrebbero fare al paese. Un governo vergognoso, un premier vergognoso, una politica indecente e una macelleria sociale che prosegue imperterrita, se ne devono andare immediatamente. Bon. Le precedenti affermazioni, più altre, pronunciate ieri dall’opposizione in vista della manovra senza ostruzionismi, dimostrano in verità, contrariamente alla vulgata, che i toni sono rimasti belli su e a calare sembrerebbero le mutande.

martedì 12 luglio 2011

12 luglio 2011

Io me lo sposerei, Luca Sofri. Con tutto il rispetto umano del mondo, dice, a lui non gliene potrebbe fregare di meno, per la chiusura di News of the World. Che manco a me. E chissenefrega, dice, se scompare una robaccia piena di notizie inaffidabili e terroristiche, che non ha niente a che fare con la responsabilità e con la qualità dell’informazione, una robaccia dotata, tra l’altro, di standard etici del tutto ordinari, se non insufficienti. Chissenefrega se chiudono quella robaccia, superlecita, ci mancherebbe, “ma di cui non sentiremo la mancanza e per cui non è il caso di condurre battaglie, dato che niente di buono aggiunge alla nostra civiltà”. Non è il caso. Punto. Milioni o no di copie vendute, abilità o meno dei suoi redattori, pubblicità o meno che possa portare a casa, successo o no che gli decreti il pubblico. Bravo Luca. Smack! Come per Santoro.

mercoledì 6 luglio 2011

Verrebbe da chiedersi chi ha fottuto gli inglesi ma è meglio chiuderla qui. Carlo Serrani


La linea generalmente denigratoria e insultante della stampa inglese verso l’Italia, e in particolare dell'Economist, si colloca da tempo notoriamente in relazione inversa rispetto alle sorti del nostro Paese: meglio l’Italia va, più viene attaccata. E ciò in quanto le ragioni primarie della costante denigrazione inglese si radicano, in primis, in due vizi: invidia e rabbia (mal repressa). Cominciamo dall’invidia. Tutti sanno che non è possibile alcun reale paragone tra vivere in Italia e in Gran Bretagna: per geografia, paesaggio, clima, bellezza delle città, cultura e tradizioni gastronomiche e vinicole. Gli inglesi lo sanno, e non sono per nulla contenti di vivere nelle loro isole fredde, grigie e piovose; e infatti, sono emigrati a milioni per diversi secoli. L’Italia, poi, è uno dei Paesi che più hanno contribuito alla storia dell’Europa e dell’Occidente, quanto e più delle isole britanniche che iniziarono a uscire da uno stato assolutamente primitivo grazie all’Impero Romano.

Passiamo alla rabbia. Dalla seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, vittoriosa, ha subito danni infinitamente più profondi ed estesi di quelli sofferti dall’Italia sconfitta. La Gran Bretagna perse il ruolo dominante a livello mondiale e l’Impero Britannico, e ciò anche a causa dell’entrata in guerra dell’Italia che allargò il teatro bellico a Mediterraneo, Medio Oriente e Africa. Non accade spesso che un Paese vittorioso sia, alla lunga, molto più danneggiato di un Paese sconfitto. Per nostra fortuna, nel luglio del 1943 comprendemmo (a differenza dei Tedeschi) che la guerra per l’Asse era ormai persa e successivamente gli Stati Uniti provvidero saggiamente a impedire sanguinose e distruttive vendette, anche da parte della Gran Bretagna, secondo il modello del Trattato di Versailles" (nella Grande Guerra, per inciso, i morti italiani superarono di molto quelli inglesi, con i noti risultati).

L’enorme differenziale tra Gran Bretagna e Italia nei danni di medio-lungo termine inferti dalla seconda guerra mondiale non fu immediatamente visibile. Nel 1950 l’Italia aveva un Pil pari a solo un terzo di quello della Gran Bretagna. Quando, nel 1987, l’Italia raggiunse e superò la Gran Bretagna, gli Inglesi soffrirono molto. E soffrono ancora oggi, dato che tra i due Pil, anche pro capite e/o ai prezzi interni, la differenza è da tempo irrisoria e, probabilmente, grazie allo sfacelo della loro economia, li ri-superemo nel giro di qualche anno – per quello che conta (poco per noi, ma moltissimo per loro). La Gran Bretagna, sotto il profilo economico, è infatti in una situazione peggiore dell’Italia. Sommando debito pubblico (120%) e privato (65%) dell’economia italiana, si arriva a circa il 185% del Pil. Sommando debito pubblico (60%) e privato (225%) dell’economia britannica, si arriva invece a circa il 285% del Pil. La stampa inglese continua a cercare di darci lezioni ed a diramare tabelline sul debito pubblico, come se il privato non contasse. Eppure l’economia dell’Irlanda, membro di prima fila del club "PIGS" (secondo l’offensivo acronimo che doveva includere l’Italia e coniato, tanto per cambiare, dagli Inglesi) è implosa per il debito privato, non per quello pubblico.

Ma come sono arrivati, i nostri Inglesi, a questa situazione di quasi bancarotta? E’ molto semplice: a suon di costi bellici (il solito vizio) e di speculazioni finanziarie. E chi ha deciso sia la guerra in Iraq che la liberalizzazione finanziaria? Il signor Tony Blair. Per cercare di rimettere i conti a posto l’attuale Governo sta adottando misure che qui in Italia non ci sogniamo nemmeno. La riforma delle pensioni in corso avrà un impatto superiore al cumulo di tutte le misure adottate in Italia dai Governi di Amato, Dini, Prodi e Berlusconi. I recenti tagli della spesa pubblica e sociale approvati dal Governo Cameron superano i tagli italiani dell’intero ultimo decennio. La riforma dei costi universitari ha elevato le tasse d'iscrizione da 3.300 pounds a somme ricomprese tra i 6.000 ed i 9.000 pounds annuali, spostando brutalmente il peso del risanamento sulle giovani generazioni. Per decenni gli inglesi – come la maggior parte degli Europei – hanno frequentato le università praticamente gratis (la tassa d’iscrizione era stata elevata da 1000 a 3300 pounds da Tony Blair, tanto per cambiare). L’attuale generazione dovrà invece pagare cifre ricomprese tra i 24.000 ed i 36.000 pounds per corso universitario quadriennale, ed è molto scontenta, perché ritiene – non a torto – ingiusto dover pagare il conto delle avventure belliche e delle follie finanziarie innescate da Blair.

E noi dovremo sentirci dire che Berlusconi avrebbe "rovinato" un intero Paese? Per favore: se c’è qualcuno che ha rovinato il Regno Unito, quell'uomo è Tony Blair. Visto che ci siamo, tocchiamo anche un terzo difetto nazionale degli inglesi: la loro cronica, sistematica e incorreggibile tendenza a costruire una storia che gli faccia comodo. Basta leggere i loro libri che fino a qualche decennio fa liquidavano oltre quattrocento anni di dominazione romana in qualche pagina, asserendo, in modo assolutamente ridicolo, che "non aveva lasciato traccia rilevante". O pensate alla continua, perdurante esaltazione – oggi in chiave neofemminista – della regina Budicca che, nel corso della sua campagna contro i Romani, non solo sterminò l’intera popolazione di Londra perché "contaminata" dal collaborazionismo, ma sottopose migliaia di altri prigionieri a mortali torture druidiche di un'atrocità impensabile, e probabilmente insuperata, per efferatezza e lunghezza.
Ancora oggi, i loro libri di storia continuano a fare allegramente finta che la Gran Bretagna abbia inventato il capitalismo – e non solo la sua sistematica applicazione industriale, con l’impiego forzato di donne e bambini per 16 ore al giorno – quando tutti gli storici onesti riconoscono  che il capitalismo è nato in Italia nel 1400-1500, come dimostrato dall’invenzione della banca, della contabilità a partita doppia, dei contratti commerciali, etc. Ancora, pensate allo storico Denis Mack Smith e alle sue opere, tutte costellate di negativismo e disprezzo verso il nostro Paese. Che tipo di persona può essere uno storico che sceglie di dedicare la sua vita ad un Paese che disprezza?

Nell’ultimo velenoso servizio dedicato all’Italia – che ho deciso di non leggere –  mi dicono che l'Economist avrebbe esteso le sue velenose e rabbiose considerazioni anche alla storia del nostro Paese e particolarmente al Risorgimento. Qualche nostro connazionale ha scritto lettere di protesta alla redazione del settimanale inglese, restando comunque in un'ottica difensiva e antinazionale, peraltro tipica della nostra minoranza di anglofili, più o meno complessati. Si tratta, a mio parere, di un errore. Non abbiamo veramente proprio nulla di cui difenderci con gli inglesi, neanche in termini storici. Chiunque conosca la loro storia, in particolare degli ultimi due secoli, sa che essa è letteralmente costellata da aggressioni, occupazioni e massacri di inermi e innocenti civili.

Dai milioni di irlandesi oppressi e decimati per tre secoli e lasciati morire di fame mentre gli inglesi si appropriavano dei loro miseri raccolti, alle decine di migliaia di indù bruciati vivi nella rivolta anticoloniale di metà Ottocento, dall’invenzione dei campi di concentramento in cui, agli inizi del Novecento, morirono di fame e di stenti circa 150.000 donne, vecchi e bambini boeri, fino ai bombardamenti che uccisero 800.000 civili tedeschi (dei quali 150.000 bambini) nella seconda guerra mondiale e agli oltre 600.000 civili morti nella recente guerra in Iraq. Ma di cosa dovremmo scusarci, con loro? Del nostro tardivo tentativo – attraverso le occupazioni di Libia ed Etiopia – di assumere la dimensione imperiale che la maggior parte dei Paesi dell’ Europa Occidentale – Gran Bretagna e Francia in testa – aveva già raggiunto? Ma per favore! O per la seconda guerra mondiale? Ci siamo già scusati con tutti, e comunque l’abbiamo persa. Ma visto che ci siamo, una domandina provocatoria: come mai, a fronte della fermissima resistenza greca contro l’ingiusta aggressione italiana, nessuno nell’Italia fascista pensò mai di bombardare a tappeto le città greche e sterminarne gli innocenti civili? Chiudiamola qui, e rapidamente, che è veramente meglio per tutti.

Gli inglesi oggi soffrono perché il loro Pil sta ri-scivolando dietro quello italiano e, soprattutto, perché l’Italia non è stata e non sarà coinvolta nella crisi che ha travolto Grecia, Irlanda e Portogallo e che mette a rischio, oltre che la Spagna, la stessa Gran Bretagna. In altri termini, gli Inglesi – che ricordano quando nell’autunno del 1992 lira e sterlina dovettero insieme uscire dal Sistema Monetario Europeo – oggi soffrono perché l’Italia, per la prima volta in oltre 40 anni, non è al centro di una crisi finanziaria o monetaria europea. Si tratta di una svolta storica per il nostro Paese, ma a loro, ovviamente, dà fastidio. Alcuni affermano che dovremmo essere più pazienti, anche perché gli inglesi spesso hanno grosse difficoltà ad adeguarsi al presente e restano un po' indietro. Basterebbe pensare alla storica riforma con la quale Papa Gregorio XIII nel 1582 introdusse l’odierno calendario gregoriano, riconosciuto dalla Gran Bretagna solo nel 1752, dopo ben 170 anni di ritardo (e calendario sbagliato). Oggi, quindi, non ci resterebbe che sperare, più o meno pazientemente, che gli inglesi ci mettano un po' di meno ad adeguarsi alla realtà. Personalmente non sono d’accordo con tale visione, in quanto vedo, in primis, tantissima mala fede. In ogni caso, nel frattempo, direi di lasciarli letteralmente ragliare al vento, o abbaiare alla luna. Ignoriamoli e basta. (l'Occidentale)

venerdì 1 luglio 2011

Il Pd adesso fa la morale ma soltanto agli altri. Fabrizio Rondolino

«Mi lasci anche dire che questa cosa che uno che è stato consigliere al ministero dei Trasporti diventi il braccio destro di Bersani fa parte di un immaginario polemico che non ha consistenza», s’è lamentato il segretario del Pd in un’intervista al Messaggero. Bersani ha ragione: Franco Pronzato, arrestato l’altro giorno per corruzione e frode fiscale, non era il capo del suo staff. Ma è stato pur sempre il responsabile nazionale per il trasporto aereo del Partito democratico, e molto probabilmente è per questo che è diventato consigliere d’amministrazione dell’Enac. I giornali esagerano sempre, e la semplificazione fa parte del nostro mestiere: ma semplificare a volte aiuta a capire, mentre minimizzare può essere un modo (pericoloso) per nascondere la testa sotto la sabbia, fingere che non sia accaduto nulla, e continuare come prima.

Bersani nega che nel Pd esista una «questione morale», e anche su questo possiamo convenire. «Questione morale», del resto, è un termine particolarmente odioso, coniato a suo tempo da Enrico Berlinguer per distinguere il Pci - un partito «onesto» che però non vinceva mai le elezioni - dagli altri partiti, che invece raccoglievano il consenso degli italiani e governavano da decenni, ma, appunto, soltanto in virtù di un patto sciagurato fondato sulla corruzione e sull’appropriazione indebita delle risorse pubbliche. La «diversità» del Pci, che scaturiva da una sua presunta superiorità «morale», condannò quel partito all’impotenza e alla marginalità politica e, soprattutto, introdusse nel dibattito politico una categoria - la «morale», appunto - che con la politica non c’entra nulla e che invece, come la storia successiva si incaricò di dimostrare, c’entra molto con l’idea che i tribunali contino più dei Parlamenti. Quel veleno continua a circolare nelle vene del nostro scassatissimo sistema politico, e se Bersani ne prende le distanze - s’immagina non soltanto per il suo partito, ma per tutti - non si può che applaudire.

Esiste però una «questione politica», e su questa il segretario del Pd dovrebbe mostrare più coraggio e maggiore nettezza nei giudizi. Tanto più che Bersani sarà con ogni probabilità il candidato del centrosinistra per palazzo Chigi, e fra due anni (o anche prima) potrebbe guidare il governo del Paese. Non è sufficiente, per un premier in pectore, esprimere «amarezza». Non è sufficiente circoscrivere l’episodio sminuendone la portata e il significato. E non è neppure sufficiente - sebbene sia giusto e corretto - mostrarsi garantisti e rispettosi delle prerogative della magistratura.
La Prima repubblica naufragò sullo scoglio di un’inchiesta giudiziaria che, se pure risparmiò almeno in parte il Pci-Pds, travolse un intero sistema politico con conseguenze che tuttora fatichiamo a valutare nella loro immensa, devastante portata. La Seconda repubblica, nata sull’onda di una ribellione «morale» sapientemente alimentata da giornali, giudici e politici in cerca di facile successo, rischia ora un destino analogo: ma più volgare, più meschino, più subdolo.

Ai partiti e ai loro tesorieri si sono sostituiti i faccendieri, gli intermediatori d’affari, i lobbisti più o meno occulti, che lavorano prima di tutto per sé e per i propri amici, e soltanto indirettamente per i politici di riferimento, mestamente ridotti da burattinai a burattini più o meno consapevoli.
Dal segretario del Pd ci si aspetta dunque qualcosa di più, molto di più. Il «sistema Morichini» (e ci perdonerà Bersani per questa ulteriore semplificazione polemica) non appare molto diverso da altri «sistemi» prossimi o contigui alla politica: favori, affari, corruzione, concorsi truccati, condizionamenti più o meno occulti della vita economica e finanziaria del Paese, finanziamenti non trasparenti, imbrogli e inganni all’insegna di una sostanziale, devastante «privatizzazione» della politica.

Non è qui in discussione il moralismo peloso di chi sventola la propria presunta purezza per mettere alla gogna gli avversari; o il qualunquismo consolatorio e autoassolutorio di chi dice che «sono tutti uguali», e da questo deriva l’autorizzazione a comportarsi come gli pare; e neppure il giustizialismo - che pure tanti danni feroci ha prodotto in quel che resta della sinistra italiana - che s’illude di affidare al codice penale, e all’arbitrio dei magistrati che lo applicano, la salvezza della nazione. È in discussione la capacità della politica di riprendere le redini del Paese, di assumersi le proprie responsabilità, di rinnovarsi senza cedere alla demagogia né al populismo, e di indicare un orizzonte di riscatto che sappia liberare le tante energie positive che, a sinistra come a destra, sono oggi imprigionate da un sistema truccato. Denunciare i difetti degli altri e nascondere i propri non è la strada giusta. Qualcuno deve pur cominciare a dire la verità agli italiani: e se fosse Bersani a farlo, non potrebbe che venirgli del bene. (il Giornale)

giovedì 30 giugno 2011

Il popolo non ha il "diritto di sapere tutto". Gianni Pardo


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L’uguaglianza dei cittadini è un mito che, inteso male, si potrebbe trasformare in letto di Procuste. Naturalmente nessuno l’intende così ma è ovvio che il principio va interpretato: il povero e il ricco devono essere giudicati e condannati nello stesso modo, se uccidono, ma non è giusto che il grande tenore e l’attrezzista siano retribuiti nella stessa misura; è giusto che ciascuno si occupi della propria sicurezza ma non è giusto che un magistrato minacciato dalla mafia debba pagare la sua scorta; è giusto che tutti abbiano il biglietto, al cinema, ma non è giusto che i poliziotti che entrano per sedare una rissa si fermino al botteghino. La parità di trattamento è giusta, ma bisogna sempre chiedersi riguardo a quali cittadini e riguardo a che cosa.
Nei secoli recenti si è parlato di uguaglianza a partire dalla Rivoluzione Francese. Allora i nobili erano esentati dalle tasse ed erano giudicati da tribunali a loro dedicati e si è reagito a questa ingiustizia in difesa dei più umili. Purtroppo qualunque principio, se lo si spinge troppo lontano, produce risultati negativi: e infatti oggi in Italia si pretende che il potente sia trattato peggio dell’umile.
Silvio Berlusconi è stato perseguitato come nessun altro imprenditore: se fosse stato il delinquente che dicono le Procure, in quindici anni l’avrebbero condannato cento volte. Un altro esempio di eccesso è la revoca dell’immunità parlamentare. Si è dimenticato che essa non è stata stabilita come privilegio dei deputati del Terzo Stato ma come loro protezione dagli abusi delle classi dominanti. E della magistratura loro alleata. Infine siamo alla discriminazione in quanto alla privatezza. Molti sono arrivati a dire che il popolo ha il diritto di “sapere tutto”! E questo è assurdo. Non si ha affatto il diritto di sapere ciò che si dicono due persone in privato. La stessa Chiesa, stabilendo il segreto della confessione, ha sancito il principio: “Lo dico solo a te”. Che poi sia: “Solo a te, in quanto ministro di Dio” è secondario. Dio non rivelerà mai ciò che è stato detto.
La nostra Costituzione da parte sua (art.15) statuisce che: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. E viceversa attualmente, nei media e nelle conversazioni private, circola lo strano principio secondo cui: “Il popolo ha diritto di sapere tutto”. Un politico dell’Idv ha avuto l’incoscienza di bestemmiare con queste parole: “I politici devono avere una privacy molto ridotta”. Senza capire che al massimo devono essere disposti a sopportare di essere fotografati più spesso.
In realtà, secondo la Costituzione, secondo il Codice Penale, nessuno ha il diritto di sapere se il suo vicino ha un’amante; nessuno ha il diritto di leggere la sua corrispondenza; nessuno ha il diritto di origliare alla sua porta. Ma ecco che questi sciocchi, questi fanatici, questi  Girolamo Savonarola d’accatto, vorrebbero negare questa privatezza a chi è Sottosegretario, a chi è Senatore, a chi è Ministro. Ecco il ribaltamento. Si passa dalla disuguaglianza a sfavore del popolo alla disuguaglianza a sfavore dei potenti. Come se due ingiustizie facessero una giustizia.
Ma è difficile ragionare con una parte del Paese dagli occhi iniettati di sangue e con la bava alla bocca. Questi anarchici da Ginnasio, questi  politologi da bettola vorrebbero che mentre tutti devono avere diritto alla loro privata immoralità, lo stesso diritto non l’abbiano gli uomini pubblici: questi dovrebbero essere trasparenti come il cristallo e irreprensibili come trappisti. Ciò contro la più banale esperienza storica: quella che fece dire a Bismarck che è meglio non chiedere come si fanno le salsicce e la politica. In queste condizioni tutti, non solo i politici, saremmo pressoché dei pendagli da forca.
Il popolo non ha diritto di sapere nulla di ciò che deve rimanere segreto. Chi lascia filtrare le intercettazioni (verbo più corrente: “passa”) intende danneggiare qualcuno. Non è il popolo che ha diritto di sapere, sono alcuni magistrati che usano del loro potere per andare contro una parte politica. E i giornali gli tengono il sacco.
Il Parlamento non ha solo il diritto, ha il dovere di proteggere lo Stato da queste intrusioni. Deve mettere il morso a chi crede, essendo un magistrato, che l’Italia abbia deposto ai suoi piedi tutti i poteri. Inclusi quelli del tiranno Dionisio di Siracusa. (Legnostorto)

mercoledì 29 giugno 2011

Quelle piccole bugie sul grande Indro. Marcello Veneziani

Esce oggi in libreria un'antologia di In­dro Montanelli su Berlusconi. Per i die­ci anni dalla morte di Indro c'è chi vuol barattare settant'anni di grande giornali­smo montanelliano con gli ultimi sette di antiberlusconismo.

O settant'anni di critica alla sinistra con gli ultimi sette di reciproche carezze. Sulla sua rottura con Berlusconi vorrei dire quattro cose, di solito dimenticate. La prima. Montanelli non fu profetico nel cri­ticare Berlusconi in politica, come il titolo del libro lascia capire ( Ve l'avevo detto ), ma il contrario: egli pensò che la sua disce­sa i­n politica sarebbe stata un disastro elet­torale e avrebbe trascinato nella rovina il Giornale . Fu soprattutto per questo che se ne tirò fuori. Così poi non fu perché Berlu­sconi ottenne un gran successo ripetuto.

La seconda. Montanelli non era indigna­to dal Berlusconi uomo d'affari, lo aveva avuto come editore anche dopo la P2 e col lodo Mondadori. In politica lo preoccupa­vano più i suoi alleati, gli ex-missini e i le­ghisti, che il partito-azienda. Magari un Berlusconi sceso in campo con gli ex dc, Segni o affini, non gli sarebbe dispiaciuto, turandosi o no il naso.

La terza. Quando lasciò il Giornale, Montanelli era convinto di portarsi larga parte dei lettori. Invece la Voce fu un mez­zo aborto, decorosa ma troppo intrisa di rancore antiberlusconiano. E i lettori ri­masero in gran parte col suo Giornale , per­ché la pensavano come il Montanelli di sempre e non come l'ultimo Indro. Anzi, ad essi si aggiunsero quelli venuti sull'on­da della svolta politica.

La quarta. Quando Montanelli descrive­va Berlusconi come­ un narratore di esage­rate chansons de geste sulle proprie impre­se, ci vedeva giusto; ma aveva torto a ripu­diarlo come figlio, perché in quello Silvio aveva preso molto da suo padre putativo, Indro. Infatti Montanelli costruì mirabili reportage su eventi che non vide di perso­na e splendidi ritratti su aneddoti assai modificati dal suo talento narrativo.
Dico tutto questo non per allungare om­bre su Montanelli ma per liberare Indro da quel monumento di stucco e lacca in cui lo hanno imprigionato. Del Montanel­li intero, e non di fine stagione, nutriamo incolmata nostalgia. (il Giornale)

venerdì 24 giugno 2011

Interferire è reato?

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Mi raccomando quell’emendamento. Abbiamo una banca. Frasi che isolate dal loro contesto danno l’impressione di una commistione impropria tra politica e interessi particolari, magari legittimi, come quello di un gruppo assicurativo che intende scalare un istituto bancario e di un’impresa di indubbio peso nazionale e internazionale che desidera ottenere un vantaggio attraverso una modifica legislativa. Tutto ciò, però, non è regolato da apposite leggi, come quella che riconosce e delimita la funzione delle lobby in America, e questo crea una zona grigia che può essere interpretata in modi assai controversi. Nel caso di Luigi Bisignani, la procura di Napoli considera un reato l’azione di lobbying “diretta a interferire sulle funzioni di organi costituzionali, amministrazioni pubbliche, enti pubblici”.
Che cosa vuol dire “interferire”? Dare informazioni, fornire documentazione, presentare proposte è ovviamente lecito a chiunque. Ma, si dice, chi interveniva su queste materie disponeva di informazioni particolareggiate, e “conoscere e avere informazioni che altri non hanno è la premessa indispensabile per esercitare il potere”. E’ un bel principio di trasparenza, ma alla prova dei fatti non significa nulla. E’ ovvio che chi è interessato a un particolare problema, specialmente se riguarda interessi aziendali, industriali o finanziari, dispone di informazioni che non sono di pubblico dominio e anche di una capacità di pressione, se si vuole di un potere di condizionamento, diverso da quello di un comune cittadino. Partendo da questo “principio” si potrebbe incriminare chiunque agisca per sostenere interessi specifici, il che è ovviamente assurdo.
In assenza di una legislazione di merito, la discrezionalità della magistratura nell’interpretare e sanzionare, magari in modo selettivo, le attività di lobbying si estende senza limiti razionali. Converrebbe a tutti studiare una regolamentazione e un controllo di queste attività, in modo da renderle obbligatoriamente esplicite e, nel contempo, autorizzate e accettate. Altrimenti chiunque riceva informazioni atte a promuovere atti legislativi, segnalazioni per l’attribuzione di incarichi, suggerimenti su scelte di investimento pubblico, rischia di essere travolto dallo scandalismo, che è poi un modo per evitare di giudicare nel merito le decisioni politiche. (il Foglio)

martedì 21 giugno 2011

Rogo del diritto. Davide Giacalone


E, badate, non si gridi alla persecuzione politica, perché Moretti viene dalla Cgil. E’ di sinistra. Quello che lo travolge non è un disegno politico, è un frullatore nel quale si gettano pezzi interi di un’Italia oramai pronta a tutto. Del resto, il Corriere della Sera s’accorge che il processo Mills non potrà mai giungere ad alcuna conclusione, che se ci avessero letti lo saprebbero da sempre, e fuori dal tribunale sono spariti sia avversari che tifosi. Le elezioni sono passate. E’ il turno della bancarotta giudiziaria. Del ministro Stefania Prestigiacomo leggiamo l’accorata supplica a Luigi Bisignani: se escono le intercettazioni mi rovinano. Ce ne risparmieremo la lettura: se lo dice lei …

C’è ancora qualcuno in grado di capire che questo è il rogo del diritto?  oppure sono tutti morti soffocati dalla viltà ipocrita di chi ripete: la giustizia faccia il suo corso? Noi alla giustizia ci crediamo, per questo non la riconosciamo.

venerdì 17 giugno 2011

Mi dispiace, cocchi de mamma, ma Brunetta ha ragione. Aldo Reggiani

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Ora che Brunetta ha detto ai dei fastidiossissimi e beceri “Precari Organizzati” ciò che moltissimi, a destra come a sinistra, pensano, e cioè che sono la parte peggiore del Paese, apriti cielo.
Condanne da tutte le parti, perché i precari italiani sono diventati come i “Disoccupati Organizzati” napoletani, una categoria di Madonne Pellegrine che la demagogia cattocomunista, da Santoro a Ballarò, porta in giro per colpevolizzare l’egoista Società capitalistica di non aver abbastanza a cuore i loro destini. Non se ne può più di gente che ti prende d’assalto e ti piazza le proprie telecamerine in faccia convinta di esser gli inviati di Striscia la Notizia, per poi mandarti su internet a raccogliere sputi e sbertuli da parte di una categoria tra le più socialmente inutili: quella di coloro che si sentono importati perché pubblicano i loro onanistici filmati su YouTube.

D’altronde non a caso Andy Warhol profetò che “La Televisione è quella cosa che renderà tutti (quasi tutti), famosi per quindici minuti”. Figuriamoci Internet.

Ma cosa volete che risponda uno come Brunetta che non ha fatto obiezioni a dare una mano fin da ragazzino e suo padre, ambulante veneziano, mentre studiava e si faceva largo nella vita, a piangenti italiche mamme che gli chiedono cosa possano fare i loro superdotati figlioli, che a petto del loro quoziente intellettivo, secondo le mamme, che Einstein era un minorato mentale, non trovano lavoro?
Esattamente quello che risponderei io: vadano a scaricare frutta e verdura ai mercati generali. Poi da cosa nasce cosa.
Visto che a petto di tanta piangente disoccupazione giovanile, godiamo di più di quattro milioni di immigrati che fanno lavori che i nostri cocchi de mamma si schifano di fare.
E la matematica non è un’opinione.

Chi, come un superintelligente e pozzo infinito di cultura del calibro di Oscar Giannino, si è fatto il culo partendo da condizioni sociali disperate, non può rispondere che la stessa cosa a beceri disoccupati palermitani che durante una trasmissione de “L’Ultimaparola”  battevano i piedini per terra perché non volevano andare a lavorare fuori città.
In una trasmissione successiva Giannino venne insultato e minacciato da un esponente della categoria di tali “disoccupati-precari”.

Perché questi disoccupatosi e precariosi hanno in comune  che sono maleducati e violenti, per il fatto che trasmissioni del cosiddetto “Servizio Pubblico” radiotelevisivo, come quella di Santoro,  li usano come utili idioti (per poi magari togliere loro di brutto il microfono quando si prendono un po' troppo spazio), e hanno loro insegnato che solo facendo un gran casino e insultando riescono ad emergere e, forse, a farsi sentire.
E loro possono dire e fare tutto perché sono “Vittime della Società”.

Beh, mi dispiace, ma  uno come il sottoscritto, che cominciò quindicenne a non solo  sgambettare sui palcoscenici, ma anche a imbottigliar medicamenti veterinari in oscure cantine o a battere a macchina paghe e contributi in grigi uffici di periferia, perché la famiglia stava andando in rovina (anche il mutuo da pagare) per via che il padre di famiglia, ottimo Perito Industriale Edile,  a causa di vecchie ferite e traumi di guerra, cadde malato per alcuni anni  e a differenza degli impiegati pubblici non godeva di stipendio assicurato sempre e comunque;  che a diciassette già guadagnava quanto il genitore, lavorando come un ciuco, in Teatro e altrove,  senza mai lamentarsi e maledire Vita e Società, anzi divertendosi un mondo a fare sempre nuove esperienze, non può che condividere le diagnosi di quelli come Brunetta e Giannino: si mettano un’elica tra le chiappe e si diano da fare.
Altro che gioventù senza un futuro.

Ma “sociologicamente” (ah ah) parlando, la faccenda di questa massa di imbecilli che magari hanno fatto l’università e che, come si è visto durante le ultime becerate studentesche contro la salvifica  Riforma dell’Università della geniale Gelmini, in un comunicato stampa di quattro frasi semplici semplici, sono riusciti ad infilare sei strafalcioni che una volta non sarebbero stati condonati in seconda media,  la dobbiamo a quella penetrazione gramsciana di concetti comunistici nella nostra Società, per cui uno che si è appena diplomato ragioniere, dà per scontato che deve trovare subito un bel posto, magari fisso, e lautamente pagato.
Di tirocinio non si parla più.
Perché lo Stato Mammo ha da garantirti pane, companatico, e oggi anche spinello.
Comunque.
Beh, mi dispiace tanto: io sono d’accordo con quanto diceva un maestro indiano.
“Vivi la tua vita come tu fossi una cascata di scintille”.

Queste becere e spossate masse, non hanno neanche la voglia di metter a frutto il tempo che passano su Internet per inventarsi qualcosa da fare.
Come ha fatto, con molto successo,  la famiglia della bella Kate che recentemente ha impalmato un Principe Azzurro inglese.
Invece abbiamo una razza di segaioli che, sia che lavorino o non lavorino, passano il tempo on-line per insultare e dire cazzate immani, scambiando la libertà di parola per il diritto di dire parole in libertà.
Per poi affollare fino alla sei di mattina  le Colonne di San Lorenzo a Milano o Campo de’ Fiori a Roma.

Un grande filosofo contemporaneo, Marlene Dietrich, osservava che l’umanità è fatta da “confortable and uncofortable persons”.
E che quelle confortevoli fungevano da locomotive.
Mentre le altre si fanno faticosamente trainare come vagoni, cigolando e lamentandosi magari perché la locomotiva va troppo veloce.

Questa società comincia ad esser troppo affollata da vagoni cigolanti e sgarrupati già a vent’anni. (Legno Storto)

domenica 12 giugno 2011

I pentimenti erotici di papa Silvio. Marcello Veneziani

Si chiamava Silvio, segno zodiacale Bi­lancia, cognome Piccolomini, allusi­vo alla statura. Ambizioso, esuberante, intraprendente, aveva però un debole: le donne. Ne amava a stecche intere - plu­res amavi foeminas, diceva di sé il gran marpione. Poi, dopo una vita allegra e fi­gli spuri, arrivò il giorno della Quaresi­ma, come egli stesso scrisse: «Ora giunge il giorno della salvezza, l'ora della miseri­cordia. Sono satollo, sono nauseato, il piacere carnale (Venere) mi ripugna. Ve­ro è altresì che le forze mi vengono meno, i capelli mi si sono imbiancati, ho i nervi aridi, le ossa cariate, la pelle solcata da rughe, e non posso più dare piacere a una donna veruna, né donna può dar piacere a me».

Grazie a Dio all'epoca non esiste­vano lifting, trapianti, cialis e pompette; così il Piccolomini, reso inabile dagli an­ni e dai malanni, si pentì e diventò pio, anche di nome; Pio II Papa. Oltre che fem­miniero lui però era umanista, oltre che Silvio era anche Enea. E la città che si co­struì non fu una specie di Milano due ma Pienza, dal suo nome pontificale. Vedi i vantaggi del mondo antico? Arrivava il momento della Quaresima e non potevi opporre resistenza, così sublimavi e ti da­vi alla santità. La colpa è del progresso tec­nico, scientifico e sanitario, dei telefoni e delle intercettazioni, oltre che della tele­visione (è sempre colpa della televisio­ne). Forza Silvio, dopo l'ennesima pubbli­cazione di intercettazioni sui festini che la presentano come un malato di sesso, dichiari urbi et orbi il suo pentimento, ci­tando il precedessore in lingua originale: «Plenus sum, stomachatus sum, nause­am mihi Venus facit », appellandosi a Bo­na Fides et Mores (si traduce con buona fede e buoni costumi, e non Fede, Mora e le bonazze).

Si dissoci dall'eurotismo, l'unione europea degli arrapati, che va dalla sinistra (Strauss Kahn) ai Re (Gusta­vo di Svezia). Si penta, Cavaliere: i giudici non l'assolveranno, ma potrà aspirare, dopo Palazzo Chigi, al soglio di San Pie­tro, che per l'immunità e la gloria vale molto più di un lodo Alfano o del legitti­mo impedimento... Papi non si nasce, si diventa. Tradotto nel gergo di Santa Ro­manesca Chiesa: Io Pio ma voi nun me piiate. (il Giornale)

sabato 11 giugno 2011

Calci all'impresa. Davide Giacalone

Se qualcuno, in giro per il mondo, leggerà la storia recente di Gian Mario Rossignolo state sicuri che ne trarrà una sola conseguenza: stiamo lontani dall’Italia, investiamo altrove i nostri soldi. Se la racconto è perché desidererei l’esatto contrario. Ma non basta desiderare, occorre darsi da fare. Rossignolo è stato preso a calci e bottigliate, ma tale violenza non è solo fine a se stessa, è una dimostrazione che il Paese è refrattario all’impresa. Cosa assai più grave.

Il caso è, negativamente, esemplare. Rossignolo (di cui sono amico e alla cui avventura ho dato una mano, com’è giusto che il lettore sappia) ha preso un vecchio marchio della storia automobilistica italiana, De Tomaso, e ne ha fatto una nuova casa di produzione. Il vantaggio competitivo sul quale ha puntato è l’innovazione tecnologica: tagli laser, pochi stampi, grande versatilità, auto di lusso rifinite a mano. Che il suo progetto stia in piedi o meno lo deve stabilire il mercato, naturalmente, ma che abbia investito soldi propri e abbia realizzato già il primo modello è un fatto sicuro. Altrimenti non avrebbero potuto prendere a calci la macchina De Tomaso.

Il primo insediamento industriale De Tomaso si trova in Toscana, dove ci sono i normali problemi industriali. A Grugliasco, Torino, gli operai Pininfarina erano da due anni in cassa integrazione. A Rossignolo è stato chiesto se pensava di potere salvare quei 1.100 posti di lavoro. Lo ha fatto. Avesse rifiutato si sarebbe risparmiato gli insulti e quelle persone sarebbero oggi senza lavoro. Il salvataggio è avvenuto alle condizioni che il mercato consentiva: un progetto di ristrutturazione e rilancio, approvato dalle istituzioni nazionali, regionali e comunali, che potesse accedere ai fondi europei. Oggi disponibili. Nel frattempo l’impresa ha anticipato i soldi, facendo da banca per pagamenti che dovevano essere pubblici. Non ci sono, quindi, ritardi nel pagamento degli stipendi, semmai ci sono molti salari pagati per conto d’altri. Si sarebbe dovuto ringraziare, invece si maltratta.

Per ragioni amministrative s’è chiesto all’impresa, rispetto ai primitivi accordi presi, di spacchettare i finanziamenti richiesti, dividendoli in innovazione di prodotto e innovazione di processo. E’ stato fatto. Solo che, nel troppo tempo passato, è cambiata l’amministrazione regionale e, ora, i nuovi governanti non riconoscono gli impegni presi dai predecessori. Il che crea un problema enorme.

Immaginate che, negli Stati Uniti, nel mentre Sergio Marchionne e Fiat erano impegnati a salvare Chrysler fosse cambiata l’amministrazione statunitense e il nuovo Presidente avesse deciso di cambiare le regole del gioco e dei finanziamenti. Lo so, è inverosimile, perché gli Stati Uniti si sarebbero giocati la faccia, ma è quello che sta succedendo da noi. La conseguenza sarebbe stata ovvia: anziché la visita di complimenti e la felicità collettiva ci sarebbe stato un saluto degli italiani e un invito a farsi benedire.

Attenzione: De Tomaso non è una vecchia azienda, oggi in crisi, è un nuovo (vecchio) marchio, una nuova produzione, una nuova fabbrica che è nata alle condizioni date dal mercato, quindi non c’è una sola lira pubblica, o europea, destinata a “salvarla”, bensì un imprenditore che rischia il suo nel rispetto delle regole. Le regole, però, devono rispettarle tutti. Capita, invece, che mentre la regione ritarda i propri impegni, o, addirittura, li nega, pretende il pagamento degli affitti degli stabilimenti, come originariamente stabilito, e siccome i pagamenti tardano, visto che i soldi sono serviti a sviluppare il prodotto e pagare gli operai, dichiara inaffidabile il pagatore, il quale non trova più gli appoggi bancari per garantire i fondi europei, che restano congelati. E’ una storia di collettivo masochismo e, appunto, chiunque la legga, nel mondo, verrà in Italia solo in vacanza, non certo a investire.

La cosa impressionante è che, a torto o a ragione, attorno all’avventura De Tomaso c’è stato un forte interesse, e relativi ordini, al salone di Ginevra, così come ci sono investitori esteri che stanno negoziando il loro ingresso. Ciò vuol dire che potremmo presto trovarci con fabbriche De Tomaso all’estero, o con l’uso della tecnologia innovativa in altre parti del mondo, ma non in Italia. A quel punto che si fa, si riprende a dare calci e bottigliate? E a chi?

Gli amministratori piemontesi, pur condannando la violenza, si dicono comprensivi con la rabbia degli operai. Ma senza gli investimenti di De Tomaso quelli sarebbero dei disoccupati. Senza la follia (perché tale è) di un anziano signore che potrebbe comodamente vivere del suo, senza la sua voglia di tornare a rischiare (tutto), la politica si sarebbe trovata una piazza che avrebbe preso altri a calci e bottigliate. A quel punto, per essere comprensivi, non sarebbe rimasto altro che usare soldi pubblici per finanziare la non produzione e sovvenzionare quel che non è produttivo. Esattamente la via che ci ha portati ad essere patologicamente indebitati.

Quindi, con tutto il rispetto per Rossignolo, egli può anche andarsene. Gli si possono rimproverare gli errori e indurlo a chiudere, rinunciando anche a salvare lo stabilimento Fiat di Termini Imerese che, qualora ci se ne fosse dimenticati, chiude i battenti e licenzia tutti. Ma quello che si pone non è il problema di un singolo imprenditore, bensì quello di un mercato governato senza un minimo di rispetto per le regole. Ricetta sicura per produrre rabbia, violenza e fallimenti.

La vacanza dell'assassino. Claudio Magris

Dunque Cesare Battisti, il killer che ha assassinato quattro persone e reso paralizzata per sempre una quinta - senza dimostrare mai, a differenza di altri suoi colleghi nel crimine, pentimento per i suoi delitti o pietà per le sue vittime e i loro familiari, a parte una frettolosa dichiarazione di queste ultime ore - potrà godersi deliziose vacanze a Copacabana, coltivare le sue amicizie altolocate.
La Francia - che ha rifiutato a suo tempo l'estradizione di Battisti in Italia - è forse il Paese migliore del mondo, quello che combina nella misura più felice o meno infelice ordine e libertà, i due poli della vita civile. Ma anche la Francia è culla di qualche supponente e spesso ignorante conventicola intellettualoide che trancia giudizi ignorando i fatti. In questo caso, per pura ignoranza - mista a civetteria - alcuni autentici e/o sedicenti intellettuali hanno scambiato Battisti per un martire della Resistenza, come se noi dichiarassimo che un fascistoide antisemita quale Papon è un eroe della Résistence.

Con i terroristi di casa loro, quali i membri di «Action Directe», il governo francese ha usato il pugno di ferro e non ci sono state grandi proteste. Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro disse il presidente Pertini - hanno colpito l'Italia più aperta e civile; hanno assassinato non già corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell'Italia migliore, un'Italia più libera e democratica che avrebbe potuto essere diversa da quella di oggi; uomini come l'avvocato Croce, l'operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati. (Il 5 maggio 2003 in un'intervista sul Corriere, Toni Negri si dichiarava solidale con Berlusconi in quanto entrambi perseguitati dalla magistratura). Non a caso, all'epoca dei processi contro i brigatisti rei di omicidio, quando alcuni giurati declinavano per timore l'incarico, ad offrirsi di sostituirli era, ad esempio a Torino, un militante antifascista resistente come Galante Garrone; sempre a Torino, un altro impavido comandante partigiano, il grande storico Franco Venturi, appresa la notizia del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta - eravamo per caso insieme, nella presidenza della facoltà di Lettere - disse che forse si sarebbe dovuto ritornare in montagna. La profondità politico-filosofica delle Brigate Rosse può essere riassunta nella frase di quel brigatista pentito il quale dichiarò che, avendo avuto nel frattempo una figlia, aveva capito che non è lecito uccidere un papà, come se fosse invece meno grave uccidere chi è soltanto zio. Francesco Merlo ha scolpito con la sua consueta forza la malafede di tutta questa vicenda, ricordando, egli scrive, il ghigno ammiccante di Battisti che non ha neppure la dignità del duro. Si pensi, per contrasto, alla dignità con la quale altri pure passati attraverso quegli anni di piombo - ad esempio Sofri - hanno saputo fare i conti con se stessi.

Ora Battisti potrà scrivere in pace i suoi gialli - anzi, noir suona più fascinoso - anche perché è un genere in cui si muove bene, grazie alla sua familiarità con gli assassinii. Mi viene in mente un vecchio racconto di fantascienza, in cui si immagina che i fatti e gli eventi obbediscano a un copione in cui tutto è già stato scritto da sempre, ma in cui ci sono errori di stampa che, tradotti in realtà come ogni parola di quel testo misterioso, creano assurdi pasticci: ad esempio, se invece di scrivere «negare i fatti» si digita «annegare i gatti», ecco che ciò provoca una strage di felini. Forse, in quel testo, si è fatta confusione tra due Cesare Battisti, il patriota di cent'anni fa e il killer di oggi, e a finire impiccato a Trento, quella volta, non è stato quello che era previsto. (Corriere della Sera)

venerdì 3 giugno 2011

3 giugno 2011

Silvio Berlusconi è proprio un sovversivo. Durante la parata militare del 2 giugno, infatti, ha toccato il Re di Spagna. Subito, il nostro Capo dello stato, pur in pieno festeggiamento repubblicano, lo ha rimproverato: “Sua Altezza non si tocca”. Sempre così i comunisti. Hanno un innato uso di mondo, specie con i titolati. Sono i custodi del bel tempo antico. Non c’è che dire: noblesse obblige.

Ma il centrodestra non sa più comunicare: anche per questo perde. Marcello Foa

Fino a qualche tempo fa il quadro era chiaro: intellighenzia a sinistra, comunicazione a destra. Ovvero: il mondo della cultura, dei libri, i talk-show (Santoro, Lerner) e l’intrattenimento chic (Fazio, Dandini) erano solidamente in mano a intellettuali e giornalisti progressisti, ma in campagna elettorale Berlusconi e, al nord, Bossi sapevano toccare le corde giuste per entrare in sintonia con l’elettorato; insomma sapevano comunicare meglio. E per questo vincevano.

Il primo assunto resta valido, come dimostra, tra l’altro, il flop di Sgarbi, che conferma un paradosso storico: l’Italia in questi anni è andata a destra, ma Berlusconi non ha mai saputo – e forse nemmeno voluto – creare un’élite culturale di destra, capace di contrastare sia in televisione che nei giornali e nelle case editrici lo strapotere della sinistra. Perché in vent’anni non è emerso un solo volto televisivo di destra capace di reggere una trasmissione in prima serata, come fa Floris? Non avendo costruito una nuova élite culturale e non essendo stato capace di preservare la grande tradizione liberale del Giornale di Montanelli, Bettiza, Piovene, Zappulli, Aron, il centrodestra ha di fatto regalato quel mondo alla sinistra. E oggi ne paga le conseguenze, lasciando tutto un mondo in mano agli altri .

Il secondo assunto è invece molto sorprendente. Degli errori di comunicazione commessi in questa campagna elettorale ho scritto di recente sia sul blog sia su il Giornale (vedi qui, qui e qui); però ho l’impressione che il centrodestra sia ancora sotto choc e che improvvisamente non riconosca più il mondo che lo circonda. Non sa più capire gli umori (e i malumori) dei cittadini e non sa più farsi capire. Pdl e Lega continuano a proporre la solita comunicazione, basata sul richiamo carismatico di Berlusconi e Bossi, che però non è più sufficiente e, talvolta, appare inadeguata. I leader del centrodestra da un lato non sanno più proporre i messaggi necessari per entrare in sintonia con i cittadini, sembrano aver perso il tocco magico. Dall’altro non sanno usare internet e i social network. Guardate come ha reagito la sinistra alla sentenza della Cassazione sul referendum sul nucleare: è partita immediatamente la mobilitazione, imperniata su internet. I comunicatori di sinistra hanno capito che internet serve a far circolare l’informazione, a creare aggregazioni nella società civile nella Rete, ma anche fuori. Poco importa che la signora Maria non vada su internet, l’importante è che ci vadano i suoi figli, i suoi nipoti, il suo giovare vicino di casa. Saranno loro a spiegare, informare, coinvolgere nel modo più efficace proprio grazie alla confidenzialità, al dialogo uno a uno con una persona di cui ci si fida.

Il volano garantito da Santoro e affini, Travaglio, Repubblica, le radio serve a rendere universale il messaggio e davvero completa la comunicazione. E la destra? Ha ripetuto i soliti slogan, mandato in tv i soliti politici, a cui la gente crede sempre meno associandoli a un’immagine perdente. Su internet è estremamente lacunosa. Il centrodestra rincorre la sinistra o tenta di controllare rigidamente il messaggio; non monitora gli umori, non promuove campagne, non ha nemmeno capito come si incentiva la circolarità e come si usano i social network. Insomma, non sa più comunicare né in tv né sulla Rete. C’è da stupirsi se poi perde? (il Giornale)