venerdì 7 dicembre 2007

Un Paese che cresce, senza sviluppo. Paolo Ligammari

La radiografia del Censis: in Italia è arrivata la famiglia "low cost".
Continua il boom silenzioso: maggioranza inerte, ma imprenditori, giovani e professionisti allontanano il declino.

Un'Italia in chiaroscuro, ma che reagisce. Che «cresce, anche se non si sviluppa». Dove una maggioranza apatica, quasi rassegnata, si lascia trascinare da un'élite imprenditoriale che ha nell'orgoglio l'arma migliore, da alcuni grandi attori industriali (si pensi a Enel, Eni e Fiat) capaci di recitare un ruolo da protagonisti sui mercati esteri, dal dinamismo delle pmi e da una fascia di lavoratori - soprattutto giovani e professionisti - che hanno saputo raccogliere la sfida della competizione. E' la fotografia che emerge dal 41° rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato venerdì a Roma. Un'istantanea che conferma l'impressione degli anni passati: malgrado gli indubbi problemi, non ci sono ragioni per disperare e considerare il Paese sul sentiero del declino e dell'impoverimento, anche se la dinamica è il risultato di una «minoranza vitale», mentre il Paese si disperde in una «poltiglia di massa», una «mucillagine» di elementi individuali e di «ritagli umani» tenuti insieme da un tessuto sociale inconsistente, nel quale le istituzioni non riescono a svolgere alcuna funzione di coesione.

IL BOOM SILENZIOSO - L'Italia continua a crescere, anche se non si sviluppa. L'apparente contraddizione è così spiegata da Giuseppe De Rita, il presidente del Censis che ha firmato le considerazioni generali del rapporto: «il boom silenzioso italiano» continua, grazie soprattutto a una minoranza industriale orientata alla globalizzazione, grazie alle pmi, a una specializzazione nella fascia altissima del mercato, in prodotti di qualità, nell'alto di gamma. Da queste fasce imprenditoriali arriva «un crescendo di visione positiva: forse come reazione, certo in controtendenza, all’afflosciato pessimismo imperante». Eppure la «buona ripresa» in corso non diventa «sviluppo di lungo periodo». Perché, si chiede De Rita, «il successo della minoranza industriale» non riesce a coinvolgere l’intero sistema sociale? La riposta: «Siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non uno sviluppo di popolo», come quelli che l'Italia ha vissuto nel secondo dopoguerra.

I MACIGNI - Sullo sviluppo gravano alcuni macigni: innanzi tutto il debito pubblico, che «pesa sulla libertà psicologica dei cittadini» con la mole impressionante di interessi, mentre la politica, critica il Censis, ha destinato i «tesoretti» fiscali ad altri fini (ovvero a finanziare ulteriori spese) invece di pensare in primo luogo ad assorbire il debito; altro macigno: la mancata crescita dei salari. Risultato: «La maggioranza resta nella vulnerabilità, lasciata a se stessa. Più rassegnata che incarognita, in un’inerzia di fondo che forse è la cifra più profonda della nostra attuale società». La ripresa non riesce a coinvolgere l'intero sistema sociale anche per l’acuirsi di vecchi problemi: il divario Nord-Sud, ancora oggi lungi dal ridursi; la carenza di infrastrutture (un immobilismo provocato anche da veti incrociati che alla gran parte della società suonano come incomprensibili); la lentezza della burocrazia e la scarsa produttività della pubblica amministrazione.

LA FAMIGLIA LOW COST - Gravata dai salari bassi e non ancora riemersa dalla fortissima compressione dei consumi seguita all'introduzione dell'euro, la famiglia italiana, spiega il Censis, ha dovuto reinventare una strategia di spesa basata su tre punti: gestire gli acquisti quotidiani in una logica «low cost»; usufruire del credito al consumo per accedere a beni durevoli; dedicare quel (poco) che rimane del reddito allo sfizio gastronomico, turistico o culturale (peraltro, nota il Censis, i consumi a maggiore incremento).

POLTIGLIA DI MASSA - Il vero problema, rileva il Censis, non è tanto economico quanto sociale. Ed è uno scenario di notevole depressione, impotenza, abbattimento: la società resta inerte, impermeabile alla crescita economica, dove lo sviluppo non filtra. Così, scrive De Rita, la realtà sociale diventa giorno dopo giorno «poltiglia di massa» (o peggio ancora «mucillagine», dove restano avviluppati «ritagli umani» senza identità) nella quale pulsioni, emozioni ed esperienze risultano impastate e che, di conseguenza, risulta «particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa», orientata la pessimismo e al peggio, e nella quale le istituzioni hanno perduto ogni funzioni di coesione.

ESPERIENZA DEL PEGGIO - Non sorprende quindi che l'opinione dell'individuo, in questa società, volga continuamente al peggio: «Dovunque si giri il guardo - sembra pensare l’italiano medio – facciamo esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. E’ abituale allora - si legge nelle considerazioni generali del Censis - ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del peggio».

POLITICA - In più è diffusa fra gli italiani l'idea che in politica non ci si possa fidare di nessuno: a pensarla così è l'85,9% degli intervistati dal Censis sul tema dell'appartenenza ai valori. Sempre in politica, per il 76,1% «nessuno si preoccupa di ciò che accade agli altri», mentre per il 56,4%, si «pensa di più ai propri interessi che agli altri». Al tempo stesso gli italiani si dicono distaccati e disincantati dalle istituzioni: il 52,4% dice di essere “poco” o “per niente” soddisfatto dell'operato dello Stato. Il Censis sottolinea nel rapporto annuale una bassissima conoscenza da parte dei cittadini dei soggetti che svolgono attività sociali e un altrettanto bassissima partecipazione alle loro attività (6,2% riguardo al sindacato, 3% riguardo ai partiti). Questo distacco dalle istituzione crea una sorta di legittimazione della scorrettezza che è percepita come una risposta sana e fisiologica: ed allora si evade il fisco, si chiedono raccomandazioni, e così via. È «tutto un tessere di astuzie, piccole illegalità e connivenze. Salvo poi con l'esercizio antico della doppia morale, scandalizzarsi per furberie più altisonanti. L'Italia continua ad essere un paese troppo indulgente con se stesso».

ALL’ESTERO – Così accade che il Paese registra una fuga di massa che lo impoverisce ancora di più: sempre più persone, spesso e volentieri le più qualificate, sfuggono all’immobilismo per «intraprendere percorsi di studio e lavoro al di fuori dei confini». «La sensazione che emerge - osserva il Censis - è che flussi sempre più consistenti di italiani stiano ormai indirizzando e riorganizzando le proprie strategie di sviluppo, di business, di investimento all'estero». Insomma, per uscire dalle pastoie di un sistema «bloccato» non sembrano esserci che soluzioni individuali, in mancanza di un percorso evolutivo compiuto dalla collettività: nel 2006, uno studente su cinque emigra: l'anno scorso erano iscritti a università straniere 38.690 studenti, di cui il 19,9 per cento in Germania, seguiti da Austria, Gran Bretagna, Svizzera, Francia e Stati Uniti. Dal 2001 al 2006 inoltre l'Italia è al quarto posto per studenti che hanno aderito ai programmi Erasmus (in totale 92.010), dietro Francia, Germania e Spagna. Nel 2006 oltre 11.700 laureati hanno trovato lavoro all'estero. E se tornando agli studenti, uno su 5 preferisce andare all'estero, ben 350mila sono gli universitari «fuori sede», ovvero iscritti a un Ateneo fuori dalla propria regione.

NUOVA CULTURA COLLETTIVA - Secondo De Rita, il «benessere piccolo borghese» degli ultimi decenni avrebbe creato un «monstrum alchemicum» che ci rende «impotenti, come di fronte a una generale entropia». «Occorre saper elaborare - si legge - nuove offerte di cultura collettiva», «bisogna andare a riscoprire le forze reattive nel sottosuolo della nostra società e ridargli vigore». Forze reattive che non sembrano riscontrabili nella politica, che viene meno alla sua «tradizionale funzione di mobilitazione sociale». Tanto più che la classe dirigente appare «scossa» dall’attuale ventata di antipolitica. «Non può venire da lì il ruolo di collettore di energie e di riconcentrazione di alleanze sociopolitiche». L'unica speranza sembra affidata alle minoranze «attive»: non quella industriale, però, concentrata sulla conquista di mercati lontani. Allora l'unica scommessa possibile è sulle minoranze attive nell’economia, nella società e nelle scienze. Sperando che il resto della popolazione si faccia contagiare dalla loro voglia di costruire. (Corriere della Sera)

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