mercoledì 17 ottobre 2007

Dal 1998 al 2007. La storia si ripete. Gianteo Bordero

L'altra volta, nel 1998, gli diedero il benservito di schianto, facendogli cadere il governo dopo una drammatica votazione alla Camera e sostituendolo pochi giorni dopo con uno dei loro a Palazzo Chigi. Stavolta hanno deciso di indorare la polpetta avvelenata, di procedere gradualmente senza strappi improvvisi, di ammantare con quanto più velluto possibile la loro strategia. Ma la sostanza, da allora ad oggi, non è cambiata: i due azionisti di maggioranza del Partito Democratico, Massimo D'Alema per i Ds e Franco Marini per la Margherita, non si fidano fino in fondo di Romano Prodi; sono preoccupati per i riflessi negativi che la sua gestione del governo produce sui partiti che essi rappresentano; soprattutto, vedono come fumo negli occhi la concezione prodiana del Pd come «partito di cittadini» oltre gli apparati, come elisione totale delle identità e delle storie politiche di provenienza, come «ulivismo puro» senza mediazione partitica.

Per questo hanno accettato di bere l'amaro calice della scomparsa delle sigle in cambio di un piatto ben più succulento: tenere in mano il pallino del Pd sottraendolo al Professore, gestendo alla vecchia maniera la formazione delle liste e la cooptazione della futura dirigenza, lanciando la candidatura di Walter Veltroni, di fatto, come candidatura dei partiti. Così anche lo scaltro sindaco di Roma, un tempo ulivista convinto e spalla di Prodi nella campagna elettorale del ‘96 e poi nel primo governo del Professore, si è di fatto riposizionato sul versante dei suoi avversari di un tempo, legittimandone la strategia e ponendosi in (più o meno aperta) concorrenza col presidente del Consiglio. Il quale, sospettoso com'è e memore dell'esperienza passata, ben comprende la direzione in cui vanno le mosse dei suoi «alleati» e cerca perciò di limitare i danni.

Domenica sera, ad esempio, dopo la chiusura dei seggi delle primarie, a Piazza Santi Apostoli ha tentato di rubare la scena al neo-eletto segretario, tenendo prima un discorso di commento al risultato della votazione e poi prendendo - lui solo - la parola nel momento in cui si sono ritrovati davanti alle telecamere i cinque candidati alla guida del partito. Il Professore, nei suoi due interventi, ha ribadito fino alla nausea che il Pd, da un lato, realizza il sogno per cui lui era sceso in campo undici anni fa, e, dall'altro, rafforza l'azione del suo governo. Prodi è senz'atro cosciente del fatto che le cose non stanno in questi termini. Sa benissimo, cioè, in primis che il Partito Democratico che sta prendendo forma assomiglia soltanto lontanamente a quello che egli immaginava e per cui si è speso in questi anni; e poi sa che una leadership (forte) di partito come quella di Veltroni non potrà che creare attrito con la sua leadership (debole) di governo e proiettare il Pd oltre le sorti dell'esecutivo attuale. Due dati, questi, confermati dal fatto che nei suoi discorsi post-primarie il presidente del Consiglio non ha citato neppure una volta il sindaco di Roma, segno, nonostante i sorrisi e le belle parole di circostanza, di un evidente disagio e di un pesante clima di tensione destinato ad aumentare col passare del tempo.

Ancora una volta dunque, come già accadde nel 1998, sembra che la vicenda politica di Romano Prodi e dell'ulivismo duro e puro venga contrastata proprio da coloro che, sempre con una operazione di vertice, hanno «creato» la figura politica del Professore come unica in grado di opporsi al centrodestra e a Silvio Berlusconi. Si è detto, in tutti questi anni, che uno dei punti deboli di Prodi consisteva nel fatto che egli non aveva un partito alle spalle ed era, per questo, in balia dei partiti che lo avevano elevato al rango di leader del centrosinistra. Ora, è evidente che il Pd che nasce non è il partito di Prodi, e se una lezione si può trarre dalle primarie di domenica è che, nei corsi e ricorsi della storia politica italiana, la forma partito rimane, al netto di tutto, con i suoi pregi ed i suoi difetti, l'unica in grado di garantire a una leadership la possibilità di durare nel tempo e di essere il motore di una buona politica di governo. Il contrario, cioè, di quanto è accaduto e sta nuovamente accadendo nel caso di Romano Prodi. (Ragionpolitica)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny