lunedì 29 ottobre 2007

Non basta l'adorazione dei media per fare del Pd una novità. Gaetano Quagliariello

La stampa del week-end - quella che in Italia conta -, si è trasformata in uno smisurato peana mediatico per il Partito democratico e per il suo leader Walter Veltroni. Dalla enfatizzazione del significato simbolico del luogo dell’assemblea - Milano - considerato, con ogni evidenza, esotico; fino alla celebrazione della supposta portata epocale dell’evento. Il tutto condito dall’immancabile “lacrima sul viso” della studentessa in cerca di un futuro migliore, all’ombra dello sguardo compassionevole del “piccolo padre”. E dall’ancora più stucchevole lettera dell’ “imprenditore corretto” che invoca un riferimento politico sobrio e solido, in grado di comprendere quanta generosità vi sia nella sua ricerca del profitto.
Lettura didatticamente istruttiva per chi sa leggere. Perché squarcia il velo di facili inchieste su qualche casta passeggera, mostrando finalmente il grado d’effettiva indipendenza del giornalismo nostrano dal potere vero. E perché lascia in bocca l’inconfondibile retrogusto del regime facendo intuire, a chi non l’ha vissuto, quanto possa essere opprimente il conformismo quando non vi sono voci, per quanto flebili, fuori dal coro.
Ma non solo per queste ragioni i giornali della domenica fanno apprezzare la democrazia. Il fatto è che quando vi è anche solo uno straccio di competizione politica, persino gli endorsement più spudorati possono provocare effetti non voluti, ritorcendosi contro coloro che si vorrebbe in realtà favorire. Ed è proprio questo che potrebbe accadere al Partito Democratico e al suo leader se presto non si scioglieranno le contraddizioni che la grande stampa, con il suo atteggiamento tra l’ammirato e il supino, sta amplificando.
Il Partito Democratico, infatti, ha scelto di abolire le tessere e di eleggere il proprio leader carismatico attraverso una consultazione popolare precedente alla costituzione di qualsivoglia organismo. L’assemblea di Milano ha amplificato la portata della scelta mettendo al cospetto del leader una platea di quasi tremila delegati senza intermediazioni di sorta. I giornali che contano, dal loro canto, hanno enfatizzato il potere salvifico di Walter Veltroni rispetto alla stessa maggioranza nella quale è in qualche misura coinvolto. E, a riprova della non casualità di questa catena, Bindi e Parisi – due che, a dispetto di una supposta differenza sessuale, sono tra i pochi nel Pd a mostrar di avere attributi – fanno sapere di non volerci stare a far la parte dei comprimari.
Un partito siffatto, e per di più presentato come prodigioso evento, per non entrare in contraddizione patente con sé medesimo, ha bisogno che il sistema politico al quale si riferisce abbia una vocazione maggioritaria. Non è solo questione di sistema elettorale; è qualcosa di più complesso. Per l’essenziale, ha bisogno di un sistema nel quale esso rappresenti senza possibilità d’equivoco una delle due polarità prevalenti, in una situazione di riconosciuta egemonia all’interno del proprio schieramento e di reciproca legittimazione con il partito più forte del campo avverso.
Veltroni nel suo discorso d’insediamento non ha eluso del tutto questo nodo. Lo ha affrontato indirettamente ma chiaramente, affermando di essere disposto ad allearsi solo con quanti concorderanno sul programma e accetteranno l’egemonia del Partito Democratico. Implicitamente, ha così ammesso che il nuovo partito è lo strumento attraverso il quale intende muovere alla conquista di Palazzo Chigi.
Tutto il resto del suo discorso, però, è andato in controtendenza evidenziando quanto, a dispetto di certi entusiasmi giornalistici, la via sia in realtà stretta. Per quanto concerne la riforma delle istituzioni, per lui parlano i fatti. Se si prende in considerazione quella attualmente in discussione alla Camera, fortemente voluta da Luciano Violante, si scopre che consiste, nella sostanza, nel consolidamento del “parlamentarismo debole”: tutt’altra cosa rispetto alla “rivoluzione maggioritaria” necessaria al Pd. Se poi si passa al fondamentale capitolo della legge elettorale, l’indeterminazione di Veltroni diviene addirittura patetica. Sul referendum ha ribadito l’ormai abituale “vorrei ma non posso”. Sul resto è riuscito persino a far di meglio. Dopo aver espresso nella relazione introduttiva la preferenza per il modello francese, nella replica ha affermato che, più realisticamente, andrebbero anche bene un sistema tedesco con ascendenze spagnole o, perché no?, un sistema spagnolo con ascendenze tedesche. Per concludere che, vista la necessità di ricercare maggioranze ampie, a sciogliere la matassa è bene che sia il Parlamento. Infine, se si registrano i toni dell’assemblea, non sembra proprio che il Pd abbia voglia di girare la pagina dell’anti-berlusconismo: circostanza che allontana l’inverarsi del fatto maggioritario complicando, nel contempo, l’assalto al voto centrista e borghese-moderato.
C’è ora da chiedersi: dietro queste incongruenze vi è solo la tradizionale indeterminatezza veltroniana, corollario del suo “buonismo”, o qualcosa di più politicamente significativo? Veltroni, in realtà, se volesse muoversi con efficacia nella direzione nella quale la stampa che lo appoggia cerca di sospingerlo, dovrebbe mettere a repentaglio il governo della sinistra e, così facendo, aprire un contenzioso di lungo periodo con Romano Prodi che lui, memore di precedenti esperienze di compagni del suo ex-partito, non intende aprire. Può sperare che il lavoro sporco lo faccia Berlusconi, riuscendo nel tentativo di mandare a casa l’attuale governo. Ma, a questo punto, la scelta si farà stringente. Potrà decidere di andare alle urne. In questo caso correrà il rischio della sconfitta ma, in compenso, potrà determinare i futuri gruppi parlamentari e, quel che più conta, salvare una seppur precaria incardinatura maggioritaria del sistema. Potrà, invece, tener fede a quanto affermato: assecondare i progetti di governo tecnico concedendo, per quanto concerne le riforme – e in particolare quella elettorale - le mani libere ad alleati e avversari. Ma a quel punto, verrebbero meno le condizioni strutturali per l’esistenza di un partito a vocazione maggioritaria. E il Partito democratico si trasformerebbe presto nel ridicolo simulacro di un progetto che, per qualche giorno, qualcuno avrà proclamato grande. (l'Occidentale)

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