martedì 30 ottobre 2007

Ecco l'identikit del perfetto intellettuale. Luigi Mascheroni

Ovvero: fuori dalla comunità politica e nel vuoto pneumatico post moderno, quali sono le identità, il ruolo e lo spazio del “pensatore critico”? Origine, percorsi, scelte, successi, passioni e debolezze di un uomo impegnato.
Anzi, engagé.

Delle origini e della formazione
Il Perfetto Intellettuale – d’ora in avanti P.I. — nasce di preferenza in provincia, nella quiete della campagna, o in una delle cosiddette “città a misura d’uomo” climaticamente invidiabili, Terni ad esempio. La sua è una famiglia borghese di modeste origini che ha saputo integrarsi con il mondo delle professioni e del commercio. Ottime chances ha anche il rampollo di qualche nobile casata decaduta, incapace di stare al passo con i diktat e le esigenze della società dei consumi: cioè un simpatico e inutile squattrinato. Le ascendenze, va da sé, impongono un nonno fascista e una nonna staffetta partigiana, padre in cattedra a via Solferino e madre girotondina, uno zio prete e una sorella filologa, o psicologa, o archeologa, o zitella. Il curriculum scolastico è quello dei bei tempi antichi, o d’antan come piace recitare al P.I., notoriamente poliglotta: liceo, il migliore del territorio oltre che l’unico; studi universitari in una città medio-piccola ma con una grande tradizione alle spalle (Perugia è perfetta, Pavia va abbastanza bene, Urbino è troppo sfruttata, evitare Trieste), facoltà a scelta tra Legge, Medicina, Filosofia o Scienze Politiche con una laurea tardiva ma meritata, irrobustita da disordinati e formativi studi da autodidatta, tra cui letture dei classici della sociologia, Max Weber, Wright Mills e Pier Vittorio Tondelli. Infine, una debosciata vacanza-studio in Inghilterra prima di partire per il militare che possa essere contrabbandata, una volta congedati, per un master a Cambridge.

Di educazione rigidamente cattolica, il P.I. ha fatto il chierichetto da piccolo, le vacanzine con Cielle e la scuola di comunità di Don Giussani prima di transitare da quella di Muccioli. A partire dagli anni universitari ha percorso la parabola laicista (non lo dice quasi mai, ma un paio di volte ha dato il voto ai Radicali, per tacere di quella sbandata per la Rete di Leoluca Orlando…) fino ad approdare a un feroce ma riflettuto anticlericalismo. Oggi, sposato in chiesa con la compagna fuori corso conosciuta durante i disordini di Valle Giulia, un pupo battezzato e una bimba cresimata con il saio bianco e il crocione di legno al collo, vive serenamente un sentito riavvicinamento alla fede cattolica.

Politicamente, il pedigree – parola che come tutti i francesismi il P.I. adora quanto i formaggi grassi – prevede un traumatico allontanamento dalle tradizioni conservatrici della famiglia, quindi una prima grande stagione di militanza politica forgiata da un doveroso volontariato al bar della Festa dell’Unità (o dell’Amicizia, o dei Campi Hobbit) seguita da una cocente delusione per l’immobilismo del partito e la politica politicante. Da studente agitato fiancheggiatore della sinistra extraparlamentare, oggi è magari un quieto senatore di Forza Italia, carica grazie alla quale – lui, già giovane collaboratore sottopagato delle pagine culturali di Paese sera – si è ritrovato nel parco editorialisti del Giornale. Oggi come allora, ritiene che la crisi della Sinistra, così come peraltro della Destra, non è mai una crisi da mancanza di leadership, semmai una crisi morale. Culturalmente parlando – espressione che peraltro il P.I. aborre – a suo tempo fervente sostenitore dei nouveaux philosophes (in camera sua, accanto al poster di Zoff che solleva la Coppa, ha troneggiato a lungo una xilografia di André Glucksmann) è oggi impegnato nella rivalutazione dei fumetti porno vintage. Dicono stia scrivendo un’autobiografia.

Dell’apparire e del vestire
Il P.I. detesta la televisione (sua moglie tra l’altro dice che lo ingrassa) ma sapendo che scriverlo sui giornali non serve a nulla visto il calo filologico (fisiologico?) dei lettori, è costretto – malgré lui – a dirlo in tv, alimentando in questo modo un perverso corto circuito mediatico che comunque è lui stesso il primo a denunciare. «Sì, io vado come opinionista all’Isola dei Famosi, ma per cantargliele belle e dire papale papale che i reality show sono volgari e diseducativi». «Ma scusa, perché non lo scrivi sui giornali?». «No, lì preferisco fare pezzi di politica internazionale, così ho una credibilità quando vado in televisione».
Cresciuto facendo merenda con i saggi della Piccola Biblioteca Einaudi e le repliche di Happy Days, e non così ingenuo da pensare che il pubblico sia una massa di stupidi plagiati dai media, il P.I. dimostra coraggio da vendere quando sfida ogni conformismo ripetendo che la tv non è per forza una cattiva maestra e a Popper gli darebbe volentieri un calcio nel culo. C’è sommessamente da dire, che da questo punto di vista il P.I. non si è mai dichiarato liberale in vita sua, ancor meno liberista e mai e poi mai libertario. Almeno che si ricordi lui.

Per quanto riguarda il vestire, ambito al quale ultimamente dedica più tempo di quanto riservi alla lettura, il P.I. è inflessibile nel combattere il luogo comune che l’abito non fa il monaco. Anzi, memore della lezione di Drieu La Rochelle e di Oscar Giannino, rivendica con orgoglio il titolo di dandy per il solo fatto di essere intellettuale, e ha imparato a sue spese che i dettagli sono tutto. È per questo che predilige le linee sinuose, i risvolti, le svolte improvvise, i revers larghi, le larghe intese, i polsini con i gemelli e le maniche larghe. Affezionato per tradizione al grigio, colore del quale ogni elogio è superfluo, non gradisce invece i colori pieni, preferendo le sfumature e un’ampia gamma di tonalità del rosso, per quanto non abbia remore a cambiare colore, quando è il momento. Costretto ad ammettere che ormai le giacche di velluto e i Montgomery gli vanno stretti, si è rassegnato da tempo ai gessati e i pois. Per quanto su di lui calzi a pennello qualsiasi uniforme, fa la sua porca figura anche in livrea. «E comunque tutti sono testimoni della mia continua e inflessibile critica radicale alla società dei costumi. Consumi. volevo dire consumi: ehm… critica radicale alla società dei consumi...».

Del parlare e del leggere
Il P.I. ama molto le metafore e per questo non si offende se di lui si insinua che ha il “lato A” uguale al “lato B” per dire che ha la faccia come il culo. Perennemente alla ricerca del dialogo, non rinuncia mai all’etica della tolleranza e al sacro diritto della libertà d’espressione, soprattutto se l’espressione è la sua. È uso respingere con inflessibile rigore ogni responsabilità per ciò che ha detto (o scritto), salta a pie’ pari i luoghi comuni, sempre da sfatare, e nonostante l’invidiabile background culturale di cui dispone pronuncia molte parolacce, come: mondializzazione, intellos, essai, Solzenicyn, Zivilisation, strutturalismo, happy few, esprit, Zeitgeist, Le Monde, inciucio, Weltanschauung e Alba Parietti. La sera, invece, si addormenta salmodiando le locuzioni ingiuriose che userà l’indomani nella trasmissione di Bruno Vespa, come: “trasversalismo culturale”, “tolleranza nella diversità”, “simulacro di un intellettualismo organico”, “Sfido poi che la gente preferisce Ilary Blasi”. E comunque la colpa è sempre di Vattimo e del pensiero debole.

Prosa da romanziere, rigore dello storico, brio del libellista, passo del filosofo e afflato del poeta, il P.I. sa pronunciare perfettamente pamphlet senza apparire un parvenu, aspira – ça va sans dire – a diventare un maître à penser, raramente risponde touché e quando scorge un torto con riflesso pavloviano inizia a saltellare qua e là ululando J’accuse!, J’accuse!.
Voce sempre squillante della coscienza morale della nazione, equipaggiato dell’intero arsenale ideologico e dialettico compreso fra Jean-Paul Sartre e Bernard-Henri Lévy passando per Antonio Scurati ed Edmondo Berselli, il P.I. cede volentieri al piacere di rileggere i classici che oggi, in tempi di post-ideologie, si rivelano (per lui) una sorprendente novità. Abbandona raramente le letture flaubertiane e se lo fa è per rispondere – più che altro telefonicamente – alla domanda: «Ma dove va questa Sinistra?» (la Destra, è noto, non è mai partita) ribadendo senza incertezze che l’estetizzazione del trash è responsabilità fortissima degli intellos di Sinistra (la Destra, è noto, non ne ha mai avuti). Nutre un’insana passione per alcuni verbi piuttosto che altri (ad esempio: denunciare, ripartire, riscoprire, va a cagare) ma quello che davvero lo manda in deliquio è “stigmatizzare”.

Stigmatizzare sì, ma cosa? Esempi: la volgarità imperante, il decadimento della cultura, la pornografia dei sentimenti, la deriva lassista della politica, la dittatura dei best-seller, il voyeurismo della tv, gli atteggiamenti razzisti ma anche il politically correct, le idee sciatte, le non idee (e il P.I. ne conosce parecchie), i lacchè del potere, i riciclati. A questo proposito capita di frequente che la moglie, nottetempo, lo senta biascicare nel sonno: «Stigmatizzate, stigmatizzate, quelque chose en restera!».
Amante delle frasi con molte “a”, come l’espressione “Ma va’ da’ via i ciapp, pirla” e fedele al motto latino “Repetita iuvant”, il P.I. ripete le stesse cose da trent’anni: teorizza da sempre la confluenza della periferia al centro, predica il superamento degli steccati tra Destra e Sinistra, implora una classe dirigente migliore, disprezza l’ammucchiata dei partiti e un po’ meno quella degli esseri umani, soprattutto se di sesso femminile. Soprattutto il P.I., se è davvero perfetto, non si stanca di ripetere, a sproposito di qualsiasi occasione: «La mia generazione ha già dato, adesso tocca ai giovani» – nella variante: «Io le mie battaglie le ho fatte, ora sono cazzi vostri». Per il resto ancora non ha trovato una risposta alla domanda chiave della sua generazione: «Ma i film di Lino Banfi e Alvaro Vitali andavano visti con occhio critico?».

Dell’impegno e della morale
Il P.I. dell’impegno se ne spazza il culo. Ha ancora come immaginifico riferimento morale marchiato in fronte il titolo a tutta pagina di Emile Zola sull’Aurore e l’urlo di D’Annunzio dal balcone di Fiume, ma sa che il pensiero può sempre più dell’azione, e ancora di più può il pensiero senza azione. Se l’impegno per un intellettuale tout court è imprescindibile, per il P.I. è invece prescindibilissimo. Concetto espresso magnificamente nello sfogo-manifesto di Umberto Eco pubblicato in calce a una celebre Bustina di Minerva: «Che se la sbrighino gli altri, che a noi ci piace andare a pescare le trote». Caratteristica prima del P.I., infatti, non è quella di essere benpensante o malpensante (al limite di essere anche solamente pensante) ma – come insegna Régis Debray – è il “narcisismo morale”. In piena post modernità (sempre comunque da preferire alla surmodernité) il P.I., pur restando un narciso, a differenza dei predecessori ha imparato a sposare idealismo morale e attivismo pratico: combatte battaglie giuste quando sono già vinte, appicca il fuoco quando i riflettori sono accesi, firma quando l’appello è pubblicato sui giornali, parla quando i microfoni sono accesi: «Mi accusate forse di usare l’impegno per far carriera? Sì, e allora?».

Disposto all’autocritica ma ancor di più pronto a chiamare tutti a un mea culpa collettivo, il P.I. è un artista a 360 gradi che ama mettersi a novanta, declamando con voce chioccia «L’importante è mantenere la schiena dritta». Se dal punto di vista teorico è alieno da qualsiasi tono conciliante, abituato com’è dalle frequenti partite a tennis a urlare “Aut Aut”, il P.I. dal punto di vista pratico è invece riottoso ad assumere posizioni culturali nette in nome di un possibilismo metodologico en plein air: mostra pubblicamente e contemporaneamente simpatie per il Papa, per Nietzsche, per il brasato, i tortellini, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, il relativismo etico e il decisionismo metodologico. A differenza dei “padri” che hanno combattuto la dittatura nazi-fascista, al P.I. i partigiani fanno abbastanza schifo e si ostina ad accusare i colleghi francesi di opportunismo oltre che di avere formaggi che puzzano molto più dei nostri.

Ideologicamente, benché nato a Destra, cresciuto a Sinistra, svoltato di nuovo a Destra e ritornato infine in grembo alla Sinistra, oggi il P.I. è estraneo a qualsiasi idea politica, e più in generale a qualsiasi idea , continuando a proclamare valori di Sinistra pur pensando cose di Destra. Ci tiene molto a essere definito un “irregolare” e gongola quando qualcuno parla di lui come di un “cane sciolto” (invece del più consono “individualista di merda”). Il P.I. predica il disimpegno, il glocalismo (formula bipartisan prudentemente equidistante dal tutto e dal niente), un Cristianesimo sincero ma non fanatico, condanna il comunismo ma salva il comunitarismo, si schiera sempre pur conservando la propria indipendenza, non fornisce rimedi pratici immediati ma soluzioni di ampio respiro, parteggia ma rimanendo da solo, ascolta il “popolo” – categoria che nel segreto della coscienza gli fa molta pena – ma non se ne fa condizionare, dà spazio al calore delle passioni ma le tempera con l’occhio freddo della ragione per quanto sappia adattarsi alle esigenze mediatiche, ad esempio un talk show, dove risulta bravissimo a non ragionare, ma urlare; a non discutere ma a prendere una parte; a non portare argomenti, ma slogan; a non dire parolacce, ma a fare le puzzette silenziose.

Lettore attento del miti antichi, tra i quali predilige quello di Narciso, il P.I. è dotato di un ombelico abbastanza ampio perché tutto gli ruoti attorno: è per questo, secondo alcuni imparziali osservatori, che quella simpatica e curiosa forma di ossimoro culturale che è l’intellettuale-donna ama sfoggiare pantaloni a vita bassa.
Cresciuto nel culto dei mammasantissima del “pensatoio Italia” come Alberto Asor Rosa, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia e Gian Arturo Ferrari – 4 teste per 13 nomi – e allenato dagli anni a galleggiare nella melma del relativismo etico ed estetico, indifferente alle cose del mondo e sempre sicuro del proprio talento, il P.I. sopporta critiche e stroncature con elegante distacco. Pubblicamente preferisce un sobrio silenzio, in privato del suo accusatore è solito sentenziare: «Un frocio di merda» (se uomo) o «Una puttana che è andata avanti facendo pompini al direttore» (se donna). I veri maestri, però, a volte sono capaci anche dell’autocritica: «In fondo ha ragione, il mio non è che sia un gran libro. Però lui rimane un frocio di merda…».

Del cibo e delle malattie
Il P.I. non ha tempo per mangiare (se è per questo neanche per ballare anche se in casi eccezionali non disdegna la quadriglia, il passo dell’oca e il salto della rana). Fosse per lui, si limiterebbe a “Panem et circenses”, ma la carne è debole ed è quindi costretto a soddisfare i bisogni filologici… fisiologici, essendo del resto molto spesso mandato a cagare dal prossimo. Restio ai piaceri della gola, può però contare, per compensazione, su una lunga lista di nutrimenti spirituali: i funghi trifolati, il bonè, la resumada, la rustisciada, il vitel tonné, il tiramisù con i savoiardi e il mascarpone, il pane e Nutella, la cotoletta e il Cointreau. Fermamente contro la caccia, in tutte le sue forme, tranne quella a Giampaolo Pansa, il P.I. a dire il vero non ama troppo neppure la pesca. Però – questo è un fatto – gli piace un sacco gettare i sassi nello stagno e stare seduto sulla sponda del fiume ad aspettare che passi qualcuno dei suoi vecchi amici.

Forse perché poco attento all’alimentazione e all’esercizio fisico, minato dallo scorrere inesorabile del tempo e delle ideologie, il P.I. soffre più malattie di quanto un normale essere senziente potrebbe sopportare: tic e riflessi pavloviani, condizionamenti tardo-novecenteschi, strani silenzi (il deplorevole silenzio degli intellettuali…), devastanti forme di eritemi al solo sentire pronunciare espressioni come “egemonia culturale”, presbitismo politico, deliri di onniscienza, ipertrofia dell’Ego, imbarazzanti trombosi, fastidiosissime allergie religiose. Affetto da ricorrenti attacchi di autismo collettivo, drammatizzazione manichea, narcisismo morale, sistematica inclinazione alle previsioni sbagliate e istantaneismo (la propensione a inserirsi nell’attualità per unire i vantaggi del presenzialismo a quelle del giudizio morale), a causa di una decennale, dolorosa sciatalgia, il P.I. preferisce parlare più volentieri in piedi, di solito ex cathedra, più raramente da un pulpito. Sempre alla ricerca della medicina migliore per risolvere i mali della società che lo venera come un “Maestro”, manifesta in maniera inquietante la cosiddetta “tentazione di Siracusa”, ovvero la sindrome ricorrente a modificare la Storia e consigliare la Politica, sempre con effetti psico-fisici disastrosi (per gli altri, più che per se stesso). Costretto suo malgrado a noiosi esercizi giornalieri di dissenso e dialettica, alternati a estenuanti prove di conformismo culturale, tra tutte il P.I. ama la “terza posizione”, sempre altra rispetto a Destra e Sinistra. A causa di un olfatto iper-sviluppato, ha un fiuto speciale nel sentire puzza di regime, è allergico al popolo e capisce sempre prima di tutti quando si inizia a respirare aria di pensiero unico.

Hobby e sport
Il P.I. ama molto i lavori domestici, soprattutto il giardinaggio. Dedica diversi pomeriggi della settimana a piantare paletti (tra Destra e Sinistra, ma anche tra laici e cattolici, così come tra larici e le cotogne), riempire i profondi fossati scavati dalle ideologie, gettare alle ortiche i frutti marci del marxismo o del capitalismo, strappare le erbacce infestanti del razzismo e dell’intolleranza, spargere a pieni mani i semi della concordia e della convivenza civile. Straordinario bricoleur oltre che amante dei calembour, il P.I. memore dei trascorsi militari nel Genio, ha fatto propria la missione di gettare ponti, costruire piattaforme, abbattere torri, eliminare barriere, ricomporre fratture, divellere steccati, superare gli spartiacque e disegnare mappe, sempre in perenne cambiamento.

Professionista nel conformarsi all’anticonformismo, ama – secondo una scala rigorosamente ascendente – il lavoro, il denaro, la visibilità e il potere. Architettonicamente parlando predilige le torri e le terrazze, impazzisce letteralmente per i salotti e tra gli elementi d’arredo subisce pesantemente il fascino delle poltrone. La regola cui è maggiormente rispettoso è: più rigore nelle presenze in tv e scegliere bene le testate dei giornali, mentre il precetto cui è maggiormente devoto rimane: denunciare con alti lai che i barbari sono alle porte. In genere molto educato, rispettoso, persino ossequiente, il P.I. va in bestia solo in due occasioni: quando qualcuno si azzarda a definirlo maître à penser («Non voglio sentire definizioni del genere, semmai faccio mio il ruolo di intellettuale critico») e se qualcuno osa domandargli: «Ma la democrazia dell’Occidente è l’unica possibile?».

Lontano da pateracchi consociativi e ingorghi istituzionali, il P.I. non ha mai preso la patente ma sa veicolare in maniera eccellente ideali e valori. Fine tuttologo, sempre super partes, sa che per gente come lui non è mai tempo di astensione, considera l’Aventino un’amena località di villeggiatura tra le sue predilette, aborre pubblicamente le lobby pur frequentandole con discrezione in privato, ed è un inguaribile feticista dei piedi, che non resiste alla tentazione di leccare.
L’atto nel quale però il P.I. eccelle è il tradimento: filologicamente… fisiologicamente inevitabile e moralmente deprecabile, il tradimento è l’essenza stessa del P.I. e dell’Intellettuale in genere. Se fosse fedele, l’Intellettuale sarebbe un marito qualsiasi, o un cane (cosa che peraltro spesso è comunque), al limite un interista. Ma se è un Intellettuale significa che pensa, e se pensa vuol dire che a volte può essere sfiorato da un’idea, ma se ha idee è lecito che le cambi (anche sul fascismo ad esempio, o sul terrorismo, o su Berlusconi, persino sui romanzi di Enzo Siciliano) e quindi, in qualche misura, che tradisca. Poi, c’è chi lo fa spesso, e più velocemente degli altri. E chi con maggiore classe e pacatezza. Nel primo caso si parla di “salto della quaglia”. Nel secondo di “decisione sofferta e ponderata”.

Tollerante e affabile come Jean Paul Sarte con i suoi avversari, intransigente come Thomas Mann nel suo “No” a Hitler, sempre pronto a rivedere il proprio giudizio come George Bernard Shaw dopo il soggiorno in Unione Sovietica, limpido nelle sue scelte di campo come Ignazio Silone rispetto al fascismo, il P.I. sa che il valore e il successo commerciale raramente coincidono. È per questo che tra cultura alta e cultura bassa, predica la prima ma consuma la seconda, passando con disinvoltura da Claudio Lolli a Ligabue (il cantante) e da Uccellacci e uccellini a La rivincita dei Nerd. La sera vorrebbe leggere Jacob Burckhardt, o almeno Ferruccio Parazzoli. Ma poi si masturba guardando La pupa e il secchione. Commettendo così un imperdonabile errore intellettuale, sia nel contenuto che nella forma. «Pazienta», dice tra sé. Nessun discorso sull’impegno – che il P.I., notoriamente senza peli sulla lingua, preferisce definire engagement – è possibile senza una riflessione sull’etica. Figuriamoci sull’etichetta. (il Domenicale)

1 commento:

Anonimo ha detto...

commento di prova. prego cancellare. grazie scusate