lunedì 26 novembre 2007

Perché bisogna ripensare i miti fondanti della nazione. Angelo Crespi

Giorno dopo giorno, la cronaca mostra i limiti della nostra nazione. I gravi casi di violenza legati all’immigrazione o, per esempio, quelli recentissimi che hanno protagonisti gli ultrà delle squadre di calcio, senza contare il malaffare della politica e della finanza, impongono alla classe dirigente una riflessione non più rimandabile e di certo non limitabile al giochino destra e sinistra.
L’Italia è un non Paese, tristemente ancora succube di una perversa cultura, frutto di un cinquantennio di egemonia cattocomunista, che impedisce di progettare un futuro migliore. E non si vede chi, come è successo in Francia con Sarkozy, sia in grado di dare una vera svolta.

Per fare un passo in avanti, innanzitutto, è necessaria una definitiva pacificazione della memoria. Spiace per la Sinistra, ma bisogna archiviare i miti pseudofondanti dell’Italia repubblicana e abbandonare parimenti l’ideologia del Sessantotto che ne è figlia degenere. Certo, siamo consapevoli delle difficoltà, ma crediamo che la sinistra democratica voglia partecipare a questa rifondazione.
Se ci pensiamo bene, ogni data simbolo della nostra storia è fonte di divisioni e qualora non lo sia di principio, l’ideologia ne ha usurato il senso. Il Risorgimento riletto dal Fascismo, prima, e poi dalla Resistenza è inutilizzabile. Tra l’altro, esclude la parte cattolica del Paese. La mitologia nazionalista che pure il Fascismo s’inventò ovviamente è inservibile. La sineddoche “Resistenza comunista”, alla luce dei massacri a guerra finita, divide gli stessi resistenti, oltre ad escludere l’altra metà della nazione. Grandi prove militari per cui inorgoglirci non ne abbiamo: le uniche sono débâcle (la ritirata di Russia, El Alamein, Cefalonia); le conquiste coloniali meglio dimenticarle; la Prima guerra mondiale si concluse con una “vittoria mutilata”; la Seconda con la sconfitta.

Anche i recenti atti eroici dei nostri soldati impegnati in azioni di peace keeping sono depotenziati dall’ideologia di una sinistra massimalista ottusa che svilisce ogni istituzione statuale in nome di non si sa quale idea di mondo. Si veda anche il caso G8 di Genova, dove orde di teppisti assurgono ad eroi della controrivoluzione.
In chiave civile, poi, non ci resta granché se si eccettua qualche azienda di eccellenza, come la Ferrari, qualche scienziato, qualche imprenditore pur sempre sottoposto alla gogna di un Paese nell’intimo anticapitalista. Alla fine esaltare le vittorie della nazionale di calcio come unico momento identitario appare quanto mai mortificante.

Patriottismo positivo
Ciò nonostante, una memoria condivisa serve per fondare l’identità che manca e che invece altre nazioni stanno riscoprendo. Per affrontare le sfide dei prossimi anni – come ha scritto sul Domenicale Carlo Pelanda nella sua “Formula Italia” – sarebbe opportuno suscitare un’ondata di patriottismo positivo, cioè una cultura che induca il cittadino a sostenere la propria nazione, essendone orgoglioso.
Durante la preparazione di questo numero, discutendo in redazione, ci siamo però resi conto che non esiste neppure un’immagine della storia postunitaria che possa rappresentare tutte le componenti politiche e culturali del Paese, che sia al di sopra della discussione faziosa, sulla quale anche i distinguo alla fine lascino il posto a una sana condivisione.
Eppure l’Italia esiste, gli italiani hanno ben chiaro cosa significa essere italiani. Molti hanno combattuto e sono morti per la patria, molti tutti i giorni lavorano perché essa sia viva. E in effetti tutti noi percepiamo l’italianità quando guardiamo un paesaggio del nostro Paese, oppure quando godiamo di una delle infinite opere d’arte che abbiamo regalato alla disponibilità del mondo intero. E ce ne vantiamo.

Feticcio costituzionale
Se poi vogliamo dare ragione a Elias Canetti, dobbiamo dire che la “nostra patria è una lingua” più che un’entità geografica. Quindi, sommando il paesaggio, l’arte del nostro grande passato e la lingua non possiamo che tornare a Dante come simbolo eccelso del nostro essere italiani. E da qui ripartire per individuare il senso del nostro stare assime, specie in un momento in cui, stando al progetto europeo, dovremmo cedere parti di sovranità nazionale.
Serve un nuovo patto tra gli italiani, meglio se consacrato nella Costituzione che oggi non è altro che un feticcio identitario. Questo patto deve essere fondato sui valori della nostra tradizione millenaria, fatta di arte e di grandi ingegni. Altrimenti non resta all’Italia che rappresentare la Cristianità, essendo Roma capitale d’entrambe. Non è cosa da poco. E neppure disdicevole. Essere la roccaforte della Cristianità è sempre meglio di non essere nulla, una piccola nazione litigiosa, oggi già provincia dell’impero e che avrà sempre meno peso nello scenario internazionale. (il Domenicale)

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