martedì 20 novembre 2007

Non giochiamo con i lavori usuranti. Tito Boeri

Oggi un vertice di maggioranza dovrà stabilire quali lavoratori potranno evitare gli scalini previsti dall’accordo sulla previdenza del luglio scorso, perché addetti a mansioni cosiddette usuranti.

La posta in gioco è molto alta, molto più alta di quanto si pensi. Non è solo una questione di tenuta della maggioranza («voteremo contro se non arriveranno risposte convincenti sul punto dei lavoratori usuranti», ha dichiarato Dini). Né si tratta unicamente di evitare che lieviti ulteriormente la spesa pensionistica dopo che il Parlamento ha rimosso il tetto delle 5000 uscite su cui si basano le stime della Finanziaria.

Se si dovesse superare quella cifra, bisognerà trovare adeguate coperture, ingrossando ulteriormente una manovra finanziaria che doveva essere leggera e che invece è diventata sempre più corposa durante il primo passaggio al Senato. Ma la vera posta in gioco è ancora più importante: riguarda la fiducia degli italiani nei confronti degli altri e delle nostre istituzioni. Un accordo che dovesse premiare alcune categorie di lavoratori maggiormente rappresentate nel processo politico, indipendentemente da riscontri obiettivi sulla natura usurante delle loro prestazioni, finirebbe per usurare davvero tutti, a partire da chi lo sottoscrive.

L’Italia è il Paese dell’area Ocse in cui storicamente c’è stato il più alto numero di regimi previdenziali pubblici, differenziati a seconda della professione. Gosta Esping-Andersen ne ha censiti 12, contro l’unico dell’Irlanda e i due degli altri Paesi anglosassoni e dei Paesi nordici. Anche nei Paesi corporativisti, quelli in cui la professione conta molto nell’accesso alle prestazioni sociali, si contano al massimo 5 o 6 diversi regimi previdenziali pubblici. Da noi il doppio, cui si aggiungono le asimmetrie nella copertura contro il rischio di disoccupazione. Queste differenze di trattamento sono il frutto di privilegi accordati spesso alla vigilia di qualche tornata elettorale per ingraziarsi una componente dell’elettorato oppure concessi da governi deboli sotto la forte pressione di rappresentanze dotate di forte potere contrattuale. I 12 regimi previdenziali pubblici della storia italiana non hanno nulla, proprio nulla, a che vedere con l’equità: a differenza che negli altri Paesi europei, le nostre pensioni sono generose soprattutto per il ceto medio, non per i più poveri. L’Italia è anche il Paese in cui ci si fida meno gli uni degli altri e in cui molti ritengono che «le disuguaglianze di reddito persistono perché ne beneficiano i potenti». Queste percezioni diffuse - la sfiducia negli altri e la visione delle fortune degli altri come frutto di potere e privilegi - sono maggiormente radicate proprio nei Paesi in cui c’è un numero maggiore di regimi previdenziali pubblici. Forse perché si ritiene che di fronte a un fenomeno che ci riguarda tutti, come l’invecchiamento, dovremmo essere trattati tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla casta di appartenenza. E quando non ci si fida degli altri diventa tutto più costoso. Ogni scambio è più difficile, spesso non ha luogo o, comunque, è più costoso per i contraenti. Per reggere alle sfide della globalizzazione, c’è bisogno di cittadini che si fidino gli uni degli altri. Il divario crescente fra il nostro Paese e il resto d’Europa, l’arretratezza del Sud, sono anche un problema di fiducia che non c'è, soprattutto nel nostro Mezzogiorno.

Nel 1996 abbiamo avviato un lento processo di armonizzazione fra i diversi regimi previdenziali pubblici del nostro Paese. Bisogna ora evitare in tutti i modi di tornare indietro, creando nuove asimmetrie, nuovi privilegi che fornirebbero, a loro volta, la copertura ad altre categorie per chiedere trattamenti di favore. Le regole devono essere uguali per tutti. C’è un forte rischio che l’accordo di oggi premi una volta di più le categorie maggiormente rappresentate dal sindacato o in cui si ritrova una parte consistente dell’elettorato dei partiti della vecchia sinistra. Per evitare che ciò avvenga, bisogna definire i lavori usuranti sulla base di riscontri obiettivi sulle malattie croniche e la speranza di vita di chi ha svolto per una parte preponderante della propria vita lavorativa determinate mansioni. Non si deve, invece, partire da elenchi precostituiti, basati sulla presunta natura usurante del luogo di lavoro (come nella cosiddetta «tabella Salvi») o sulla percentuale di ore svolte in lavori notturni. Sono elenchi che, peraltro, dimenticano che molte mansioni nei servizi (pensiamo alle costruzioni o ai servizi di pulizia delle imprese) possono essere maggiormente usuranti di molti mestieri nella manifattura. Lasciamo che siano i dati a dirci quali lavori sono usuranti e quali no. Sarà così chiaro a tutti che non si tratta di privilegi, ma al contrario di un modo di essere più equi nei confronti di chi, con tutta probabilità, avrà meno tempo a disposizione per godersi la propria pensione. (la Stampa)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie

Anonimo ha detto...

imparato molto